Pensioni, prostituzione, reati di opinione, abolizione delle prefetture, esclusione degli extracomunitari dai concorsi pubblici: analizziamo i cinque referendum promossi dalla Lega Nord
Pensioni, prostituzione, reati di opinione, abolizione delle prefetture, esclusione degli extracomunitari dai concorsi pubblici: è ufficialmente partita la raccolta delle firme per cinque quesiti referendari promossi dalla Lega Nord. La firma – come accade sempre in questi casi – va apposta su ogni singolo quesito, pertanto chi volesse sostenerne anche uno solo può farlo. Chi volesse aderire ha tempo sino al 3 giugno 2014 per firmare presso i gazebo allestiti in molte piazze italiane o recandosi negli uffici preposti del proprio municipio di residenza. L’obiettivo è quello di consegnare il 28 giugno presso la Corte di Cassazione, affinché il referendum sia valido, almeno 500.000 firme, cifra che lo scorso anno i Radicali non erano riusciti a raggiungere con i dodici quesiti che avevamo esaminato approfonditamente sulla nostra testata.
Analogamente, ora passeremo in rassegna i cinque referendum “leghisti”, ma prima occorre dire che tra i testimonial di questa campagna referendaria vanno annoverati anche Vittorio Sgarbi, il conduttore radiofonico Giuseppe Cruciani e la trans di origine turca Efe Bal impegnata nella causa per la legalizzazione della prostituzione. Partiamo quindi da questa istanza.
PROSTITUZIONE: Abrogazione della Legge Merlin
Il quesito chiede di abrogare integralmente la Legge 20 febbraio 1958, n. 75, comunemente nota come “Legge Merlin” dal nome della promotrice Lina Merlin, senatrice socialista. Si tratta di una legge che suscitò un ampio dibattito nell’opinione pubblica e ancora lo scorso anno era stata oggetto di una campagna referendaria che tuttavia non aveva raggiunto il numero necessario di firme.
La Legge Merlin ha imposto la chiusura delle “case di tolleranza”, abolendo così la regolamentazione della prostituzione preesistente e introducendo nel codice penale italiano alcuni reati volti a contrastare lo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione. Essa, però, non è riuscita nell’intento di sradicare il “mestiere più antico del mondo” e, anzi, c’è chi sostiene che abbia aggravato la situazione, poiché spostando la prostituzione sulle strade ha reso il fenomeno incontrollabile e sempre più in mano alle criminalità organizzate. Il modello che ispirava la normativa attuale si definisce “abolizionista”, perché non punisce la prostituzione in sé, ma il suo sfruttamento, e si colloca in una posizione intermedia tra quello “proibizionista” che punisce anche il cliente e/o la prostituta e quello “regolamentarista”, che vigeva in Italia prima del 1958, cui intendono tornare i promotori del referendum. La Lega Nord, oltre a lanciare questo quesito, porta avanti la battaglia per regolarizzare il fenomeno della prostituzione, sulla quale introdurre una tassazione a beneficio dei comuni.
Segnaliamo che la scorsa settimana, martedì 8 aprile, una richiesta di referendum sullo stesso tema è stata approvata a maggioranza assoluta – a scrutinio segreto – dal Consiglio Regionale della Lombardia, con parere favorevole di Lega Nord, Forza Italia, Maroni Presidente, Movimento 5 Stelle, Fratelli D’Italia e Pensionati. Parere contrario, invece, da parte di Patto Civico Ambrosoli, Partito Democratico e Nuovo Centro Destra, i quali temono un vuoto normativo. La proposta del Consiglio lombardo per poter indire un referendum dovrà essere condivisa nello stesso testo almeno da altri quattro Consigli regionali. Si tratta, in questo caso, di un’abolizione parziale – e non integrale, come il quesito qui analizzato – della Legge Merlin, della quale resterebbero in vigore alcune disposizioni concernenti ad esempio il reato di induzione alla prostituzione, con le relative maggiorazioni della pena nei casi più gravi.
Tra le voci contrarie che esprimono un disappunto si distingue quella di Don Davanzo, direttore della Caritas Ambrosiana, che definisce “scorciatoie illusorie” le proposte referendarie, mentre sarebbe meglio “potenziare l’azione di contrasto alla criminalità organizzata attraverso misure che incentivino le donne vittime di tratta a denunciare i propri sfruttatori e a tentare di rifarsi una vita”. Di ben altro parere la trans Efe Bal, testimonial della raccolta firme, che nel mese di febbraio comprò una pagina intera del Corriere della Sera per lanciare il proprio appello a favore della regolarizzazione della prostituzione: “Voglio pagare le tasse e avere una pensione in futuro!”.
PENSIONI: Abrogazione della Riforma Fornero
Qui si chiede la cancellazione della cosiddetta “Riforma delle pensioni Fornero” varata il 6 dicembre 2011, nei primi giorni del Governo Monti, con l’articolo 24 del Decreto Legislativo n. 201 “Salva Italia”, convertito definitivamente nella legge 214 del 22 dicembre 2011. La normativa è molto articolata, quindi cercheremo di delinearne i tratti essenziali.
La Riforma Fornero impone il sistema di calcolo pensionistico contributivo per tutti a partire dal 2012, anche per coloro che avevano iniziato con il modello retributivo. La pensione viene così calcolata in base ai versamenti effettuati dal lavoratore e non agli ultimi stipendi percepiti. Inoltre ha stabilito dei requisiti per andare in “pensione di vecchiaia” (età anagrafica): minimo 20 anni di contribuzione e 66 anni di età per donne del pubblico impiego e uomini di qualsiasi occupazione, 62 anni per donne del settore privato (che diventeranno gradualmente 66 anni e 3 mesi nel 2018), 63 anni e 6 mesi per donne lavoratrici autonome (che diventeranno gradualmente 66 anni e 3 mesi nel 2018). Si può scegliere di lavorare sino a 70 anni. Inoltre abolisce la “pensione di anzianità” (età lavorativa) sostituita dalla “pensione anticipata”: oggi occorre aver lavorato 41 anni e 3 mesi per le donne o 42 anni e 3 mesi per gli uomini. Se il requisito è raggiunto prima dei 62 anni di età, vi è una riduzione sulla quota antecedente al 2012. Infine implica un adeguamento periodico dei requisiti in funzione dell’allungamento della speranza di vita. La Riforma aumenta la contribuzione per una serie di categorie occupazionali, tra cui artigiani, commercianti, lavoratori agricoli e lavoratori autonomi; taglia le rivalutazioni delle pensioni che superano tre volte il trattamento minimo, introduce un contributo di solidarietà su quelle maggiori di 90 mila euro e incorpora gli enti previdenziali Inpdap ed Enpals presso l’Inps.
I fautori della nuova disciplina pensionistica parlano di una maggiore sostenibilità del sistema previdenziale, altri invece criticano soprattutto l’immediato innalzamento dell’età pensionabile (specialmente per le donne, in quanto per la disciplina previgente potevano essere sufficienti 60 anni), facendo emergere il problema dei numerosi esodati, cioè di quei lavoratori che, prossimi all’età di conseguimento della pensione di vecchiaia secondo la normativa precedente, sono stati espulsi dal mondo del lavoro con accordi che prevedevano l’accompagnamento alla pensione per un breve periodo, quindi sono rimasti senza stipendio né pensione sino al raggiungimento dei nuovi criteri. Inoltre si segnala che la Riforma per il momento non è riuscita nello scopo prefissato di stabilizzare la spesa pensionistica sul 15% del PIL che, anzi, risulta aumentata dal 16,8% del 2011 al 17,3% del 2012.
Il quesito referendario della Lega Nord si propone di abrogare in toto questa nuova disciplina previdenziale. Tuttavia, con una lettura estensiva dell’art. 75 della Costituzione che potrebbe includere la “Riforma delle pensioni Fornero” nella categoria di “Leggi tributarie e di bilancio” non sottoponibili a referendum, si potrebbero avanzare dubbi di ammissibilità. Un’ulteriore difficoltà potrebbe essere data dal fatto che sembra imminente almeno un ritocco alla normativa pensionistica vigente, anche per risolvere le problematicità create dalla Riforma Fornero.
CONCORSI PUBBLICI: Abrogazione della norma che consente la partecipazione agli immigrati extracomunitari
Si tratta di un quesito che va a eliminare la norma – introdotta con l’articolo 7 della legge 6 agosto 2013, n. 97 che va a modificare il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 – che permette l’accesso a “posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale” non solo ai “cittadini degli Stati membri dell’Unione europea”, ma lo estende anche ai “loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno” e a “cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo [a tempo indeterminato, NdR.] o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria”.
Questo per rimediare ai rilievi mossi dalla Commissione Europea, sollevati con i casi EU Pilot 1769/11/JUST e 2368/11/HOME, che chiedeva l’adeguamento della legislazione italiana alle direttive comunitarie 2003/109/CE e 2004/38/CE . Inoltre, restano riservati ai soli cittadini italiani i ruoli che implicano “esercizio diretto e indiretto di pubblici poteri” e che “attengono alla tutela dell’interesse nazionale”, ad esempio gli ufficiali dell’esercito, i poliziotti e i magistrati, anche se questa limitazione sembrerebbe in contrasto con la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro numero 143/1975, cui aderisce anche l’Italia, che pone sullo stesso piano tutti lavoratori stranieri legalmente soggiornanti e i lavoratori nazionali.
Per fare qualche esempio della situazione presente, dal 2001 un cittadino di origine africana naturalizzato francese può partecipare a molti concorsi pubblici italiani. Dal 2013 questa possibilità è data anche a sua madre che, pur avendo la cittadinanza del Senegal, ha il permesso di soggiorno comunitario, a un suo vecchio compagno di scuola che lavora in Grecia da 5 anni e ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, e alla sua nuova vicina di casa che da qualche mese è scappata dalla guerra in Siria. Questi sono ovviamente casi limite, però potrebbe essere meno raro il caso di una signora filippina che, dopo aver lavorato per 9 anni come colf presso una famiglia italiana, volesse fare la bidella nelle scuole.
Il quesito, vuoi per la scarsa entità numerica dei casi di questo tipo, vuoi per i sospetti di incompatibilità con l’Art. 75 della Costituzione – in quanto si tratta della recezione di una direttiva europea non sottoponibile a referendum – sembra essere simbolico o propagandistico, anche perché, qualora venisse abrogata la norma in questione, la badante “immigrata” rumena, in quanto cittadina dell’Unione Europea, avrebbe comunque la possibilità di partecipare ai concorsi pubblici italiani. Tuttavia in nessun caso il poliziotto albanese che lavora da anni in Italia come muratore – portiamo questo esempio perché è di nostra conoscenza – potrà accedere ai concorsi per entrare nella Polizia o per diventare Ufficiale dell’Esercito Italiano senza aver prima ottenuto la cittadinanza italiana.
REATI DI OPINIONE: Abrogazione della Legge Mancino
Con questo quesito si chiede l’abrogazione del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, recante “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”, convertito, con modificazioni, in legge 25 giugno 1993, n. 205.
Sulla reale urgenza del decreto si potrebbero sollevare legittimi dubbi di incostituzionalità, ma vediamo cosa implica tale normativa. La cosiddetta “Legge Mancino” punisce “con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con una multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla “superiorità o sull’odio razziale o etnico”, oppure “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” e con “la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Inoltre punisce con la reclusione e severe pene accessorie chi dirige, prende parte o “presta assistenza” a “organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi” che hanno “tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza” e chi “in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi” di cui sopra, e chi “pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”, applicando un giudizio per direttissima che tende a ridurre le garanzie processuali per l’imputato.
La Legge Mancino si ispira alla Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1965, – recepita dall’ordinamento italiano con la legge 13 ottobre 1975, n. 654 – che impegna gli stati aderenti a punire “ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti”.
I sostenitori della normativa vigente la ritengono valida per contrastare i cosiddetti “hate crimes” – i “crimini d’odio” – tant’è vero che il Parlamento sta dibattendo per estenderla anche all’omofobia, alla transfobia o alle discriminazioni nei confronti dei disabili. I detrattori invece sostengono che essa sia incompatibile con la libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione, anche perché si presterebbe a interpretazioni arbitrarie riguardo cosa sia effettivamente “discriminazione”, cosa “esaltazione”, cosa “odio” e cosa ancora “opinione”, con il tentativo di stabilirlo per vie legali, anziché mediante un confronto dialogico e razionale. Alcuni pensano che la Legge Mancino si sia rivelata persino controproducente nel contrastare le discriminazioni, perché avrebbe contribuito a creare un’aura da perseguitati attorno a coloro che vengono colpiti dai provvedimenti penali – anche se ultimamente meno applicati rispetto ad una quindicina di anni fa – previsti dalla normativa, e che essa avrebbe limitato la ricerca storiografica e scientifica. L’abrogazione, secondo il comitato referendario, dovrebbe garantire “a ogni cittadino la libertà di esprimersi liberamente senza incorrere in sanzioni penali”.
PREFETTURE: Abolizione delle Prefetture – Uffici territoriali dello Stato
Questa richiesta referendaria va a sopprimere una serie di provvedimenti legislativi che istituiscono e, successivamente, riorganizzano le Prefetture, oggi chiamate “Uffici territoriali dello Stato”. Si tratta di organi periferici del Ministero dell’Interno che costituiscono la sede di rappresentanza del governo nell’ambito provinciale; svolgono compiti di amministrazione generale e di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Il prefetto è definito “autorità provinciale di pubblica sicurezza”, sovrintende all’attuazione delle direttive emanate in materia, presiede il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica che coordina le forze di polizia a livello territoriale, e si assume la responsabilità politica della gestione dell’ordine pubblico.
La Prefettura si occupa quindi delle forze dell’ordine, come la Questura ma, a differenza di essa che svolge un ruolo tecnico-operativo, la prefettura è una sede politico-amministrativa con compiti di indirizzo e di coordinamento generale. Le Prefetture promuovono anche progetti di sensibilizzazione sulle tematiche di sua competenza, dalla prevenzione dei reati alla promozione dei diritti civici. Le attribuzioni della Prefettura, infatti, sono molteplici: ordine pubblico, protezione civile, immigrazione, elezioni e coordinamento istituzionale tra enti locali, amministratori e forze dell’ordine. Il Prefetto è inoltre mediatore delle vertenze sindacali e sociali e ha “potestà di ordinanza”, cioè può sopperire in caso di necessità e di urgenza a eventuali mancanze dell’ordinamento, in presenza di esigenze di interesse pubblico imprevedibili, con un provvedimento immediato ad hoc.
Pur presentando varianti, solitamente le Prefetture sono organizzate nel seguente schema: gabinetto del prefetto, area I (ordine e sicurezza pubblica), area II (raccordo con enti locali e consultazioni elettorali), area III (applicazione del sistema sanzionatorio amministrativo), area IV (diritti civili e immigrazione), area V (protezione civile, difesa civile); servizio I (affari economici e finanziari), servizio II (affari amministrativi e contrattuali).
Il costo delle Prefetture è stimato attorno al mezzo miliardo l’anno, spese che in gran parte vanno a retribuire il personale, che mostra un rapporto tra dirigenti e dipendenti pari a 1 a 6, ovverosia tre volte più elevato di quello degli altri rami della Pubblica Amministrazione. In media il costo delle Prefetture è di dieci euro l’anno a cittadino, ma molto varia da sede a sede: si va dai 4 euro di Milano ai 42 euro della Prefettura di Isernia.
Si noti che già nel 1944 Luigi Einaudi, anni prima di diventare Presidente della Repubblica, scrisse parole molto dure contro questa istituzione – che fu imposta con l’accentramento statale napoleonico – ritenendola incompatibile con la democrazia, in quanto simbolo di un potere che viene imposto dall’alto. C’è tuttavia chi ritiene che le Prefetture siano indispensabili per garantire la sicurezza pubblica e teme che una loro soppressione per via referendaria, in assenza di un’adeguata riorganizzazione delle attribuzioni, potrebbe creare cortocircuiti burocratici, causati dal vuoto normativo. Si porrebbe inoltre il problema di come reimpiegare i dipendenti delle prefetture; escludendo un loro licenziamento, essi dovranno continuare a percepire uno stipendio. Pertanto, a fronte di una riduzione dei servizi, potrebbe non corrispondere un risparmio significativo.
Non esistono secondo voi norme incompatibili con la democrazia e l.abolizione dei concetti di superiorità che rendono inefficaci perfino i principi generali del diritto interno e internazionale?non possiamo affermare di no ,scagli la prima pietra chi non ha peccato