“Sono sicuro che l’euro ci obbligherà ad introdurre una serie di strumenti di politica economica. È politicamente impossibile proporli ora. Ma un giorno ci sarà una crisi e nuovi strumenti saranno creati”.
Romano Prodi, Financial Times, ottobre 2001
“So bene che il Patto di stabilità è molto stupido, come tutte le decisioni che sono rigide”.
Romano Prodi, Le Monde, dicembre 2002
1. Una crisi di straordinaria gravità perché strutturale
Non ha senso parlare di ripresa economica, di lotta alla disoccupazione, di difesa del welfare e della democrazia in Italia o in Europa senza fare i conti con l’euro e senza assumere una posizione chiara in merito. Né è possibile procrastinare un tale chiarimento perché i dati ci dicono che quella in corso è la crisi economica più grave dal ’29, se non dall’unificazione d’Italia. Nel 2013 il Pil italiano è risultato inferiore del 7 per cento rispetto al 2007, ultimo anno pre-crisi. L’indice della produzione industriale, fatto 100 nel 2007, è risultato ancora a quota 75 nel 2013. Eppure, a sei anni dall’inizio delle crisi precedenti, negli anni ’70 e ’90, l’indice era risalito rispettivamente a 105 e a 120 punti rispetto all’indice 100 del rispettivo anno pre-crisi.
Secondo l’ufficio studi di Confindustria, il nostro Paese ha già distrutto un quinto della sua capacità manifatturiera. Intanto, tra 2001 e 2011 gli addetti alla manifattura sono diminuiti di quasi un milione di unità, pari al -20 per cento. La perdita di capacità manifatturiera è grave per un Paese come l’Italia che ha un’economia di trasformazione. Solo esportando manufatti il nostro Paese può acquistare le materie prime (energetiche e non) di cui abbisogna e di cui è totalmente priva. La formazione di un attivo commerciale con l’estero negli ultimi due anni non deve ingannare. Nel 2013, in particolare, l’attivo è il risultato del crollo delle importazioni (-5 per cento), causato dal crollo del mercato interno, invece che la conseguenza di un inesistente aumento delle esportazioni (+0 per cento). In ogni caso, anche se ci fosse un limitato aumento delle esportazioni questo non sarebbe in grado di compensare il crollo dei consumi interni (-2,2 per cento).
La crisi attuale, come abbiamo già spiegato in altra sede, ha un carattere non congiunturale bensì strutturale, dipendendo dalla maturazione delle contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico. Il capitale ha raggiunto, in questa fase storica, un livello tale di accumulazione da non riuscire a trovare un adeguato rendimento, generando così una tendenza permanente alla caduta del saggio di profitto. Il calo del saggio di profitto riduce o blocca investimenti e produzione, generando le crisi cicliche tipiche dell’economia capitalistica. Le crisi generali e strutturali hanno ripreso a manifestarsi a partire dalla metà degli anni ’70, soprattutto nella cosiddetta Triade (Usa, Europa Occidentale, Giappone) dove la sovraccumulazione di capitale è maggiore. Negli Usa, il saggio di profitto, dopo un periodo di forte crescita dovuta al riarmo della Seconda guerra mondiale e alla ricostruzione postbellica, è andato calando progressivamente. Secondo l’economista statunitense Andrew Kliman, il saggio del profitto prima delle tasse delle corporation non finanziarie Usa è passato dal 28,2 per cento del 1941-1956 al 20,3 per cento del 1957-1980 al 14,2 per cento del 1981-2004. Il tentativo di sostenere artificialmente il saggio di profitto ha aperto tra gli anni ’90 e il 2007 una fase di forte finanziarizzazione, caratterizzata dall’economia a credito, che, attraverso l’immissione massiccia di liquidità nell’economia da parte della Banca centrale Usa, la Fed, ha prodotto una serie di bolle speculative. È stato lo scoppio della bolla dei mutui subprime negli Usa a dare il via alla crisi nel 2007 che si è subito estesa all’Europa. Il saggio di profitto, che nel 2006 era risalito al 25,5 per cento, è crollato nuovamente nel 2008 al 17,9 per cento.
2. Perché l’euro aggrava la crisi e quali sono i suoi limiti strutturali
L’individuazione della causa primaria della crisi nella maturazione delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico e la sua origine negli Usa non annullano le responsabilità dell’Unione economica e monetaria europea (Uem) nel determinarsi e soprattutto nell’aggravarsi della crisi europea e italiana. Esiste una stretta connessione tra introduzione dell’euro e crisi. Infatti, l’edificazione dell’area valutaria dell’euro è nata come strumento strategico di contrasto della caduta del saggio di profitto, allo scopo di facilitare l’introduzione di determinate scelte di politica economica. Sono state tali misure, sebbene o – per meglio dire – proprio perché tese a sostenere il saggio di profitto, ad aver acutizzato la crisi. La Uem ha anche contribuito a creare le basi dello scoppio della crisi attuale, avendo incentivato la diffusione anche in Europa del modello di economia a credito, attraverso la riduzione dei tassi d’interesse della prima fase dell’euro.
La differenza con gli Usa è che nella Uem la liquidità non è stata drenata dalla Banca centrale ai consumatori locali ma dai Paesi del centro (essenzialmente la Germania) verso quelli della periferia (Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, ecc.), che si sono legati come debitori al centro e nei quali si sono formate bolle immobiliari. Inoltre, nei paesi periferici della Uem, come sempre avviene nei Paesi con un apparato industriale meno competitivo in cui aumenti la disponibilità di credito, le importazioni hanno registrato un’impennata, portando alla formazione di debiti del commercio estero sempre più grandi. Di questa situazione ha beneficiato il Paese europeo con l’industria manifatturiera più poderosa, la Germania, che, prima dell’euro e a causa della riunificazione tra le sue parti occidentale e orientale, era indicato come il “malato d’Europa”. La Germania, grazie all’introduzione dell’euro e alla conseguente spinta alle sue esportazioni nella Uem, ha potuto risanare le sue finanze, accumulando forti surplus delle partite correnti. Nel 2013 il surplus della Germania delle partite correnti è arrivato a 254 miliardi di dollari, mentre il secondo surplus mondiale, quello dell’Arabia Saudita si è fermato a 137 miliardi e quello della Cina, definita “la fabbrica del mondo”, ad appena 14,7 miliardi. Quando le bolle immobiliari sono scoppiate anche nei Paesi periferici europei (Irlanda e Spagna soprattutto), gli Stati nazionali si sono dovuti far carico dei debiti privati, per impedire il collasso delle banche cariche di crediti inesigibili. È stato a questo punto che i debiti pubblici sono esplosi e nodi critici dell’area euro sono venute al pettine.
A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale anche in Europa si era affermato il criterio keynesiano secondo cui le crisi vanno affrontate con politiche di bilancio espansive, che siano anticicliche cioè che contrastino la fase calante del ciclo economico. A questo scopo la domanda e gli investimenti pubblici (sia civili che militari) venivano aumentati allo scopo di compensare il calo di quelli privati, dovuto al ridursi della redditività del capitale. Sebbene le ricette keynesiane da tempo non siano più di moda neppure in Usa, Giappone e Gran Bretagna, questi paesi nel corso dell’ultima crisi hanno reintrodotto politiche di bilancio espansive. Nell’area euro si è fatto l’esatto contrario, scegliendo politiche di taglio della spesa pubblica e puntando addirittura sul pareggio di bilancio. I dati sul Pil tra secondo trimestre del 2011 e terzo trimestre 2013, il periodo di affermazione dell’austerity, dimostrano quanto ai diversi approcci alla crisi siano corrisposti risultati divergenti. L’area euro è calata mediamente del -0,1 per cento a trimestre, mentre gli Usa, sono cresciuti del +0,6, il Giappone del +0,4 e la Gran Bretagna del +0,3 per cento.
Tra i quaranta Paesi considerati dall’Ocse, i peggiori risultati sono quelli dei Paesi dell’Uem. In fondo alla lista, appena sopra i soliti reprobi come il Portogallo e l’Italia (-0,5), e la Spagna (-0,3), fanno misera mostra di sé anche presunti campioni dell’economia come i Paesi Bassi (-0,3) e la Finlandia (-0,2), mentre Francia e Belgio sono inchiodati allo 0 per cento. Sono cresciuti, ma molto modestamente, solamente Germania (+0,2), Irlanda (+0,2) e Austria (+0,1). Nonostante questi pessimi risultati, l’Europa ha reso ancora più severi e definitivi i vincoli di bilancio per i Paesi che vi aderiscono. Il Fiscal compact o Patto di bilancio obbliga i Paesi Uem e quelli Ue che vi aderiscono a non superare il deficit del 3 per cento sul Pil e soprattutto a ridurre il debito al 60 per cento del Pil in un arco di vent’anni. Anche l’obbligo di inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione e il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) rendono permanenti le politiche procicliche. In particolare, considerando che il debito pubblico italiano supera il 130 per cento del Pil ed è pari a oltre 2mila miliardi, la sua riduzione al 60 per cento corrisponde a un taglio di ben oltre mille miliardi. Ciò vuol dire che l’Italia dovrà tagliare più di cinquanta miliardi all’anno, oltre a mantenere un deficit inferiore al 3 per cento. Si tratterebbe così di realizzare un surplus di bilancio del 4-5 per cento, un obiettivo praticamente impossibile da realizzare per l’Italia. Previdenza, istruzione e soprattutto sanità pubblica uscirebbero annichilite dalla stretta di questo vincolo di bilancio, a tal punto da far apparire i tagli operati fino ad ora come degli innocui scherzetti.
Ma i limiti dell’euro non si esauriscono con le misure contenute nel Fiscal compact e con le politiche restrittive di bilancio pubblico. Ci sono altri limiti strutturali nell’architettura dell’euro. Il primo, come osservato dagli economisti keynesiani, è la mancanza di una corrispondenza della valuta comune con uno Stato unitario, che abbia bilancio e fiscalità comuni. L’esistenza di uno Stato federale europeo potrebbe compensare, con opportuni trasferimenti, gli squilibri interni tra aree forti e aree deboli, garantendo con il debito federale quelli dei singoli Stati, così come accade negli Usa. Il secondo limite risiede nel ruolo differente della Bce rispetto ad altre banche centrali, ad esempio quelle di Usa, Giappone e Gran Bretagna. Le banche centrali di questi paesi hanno l’obiettivo principale di sostenere l’economia e possono eseguire acquisti diretti sul mercato primario (cioè dai rispettivi ministeri del Tesoro) e potenzialmente illimitati di titoli di Stato. La Bce, al contrario, ha come suo compito esclusivo il controllo dell’inflazione e non può eseguire acquisti diretti sul mercato primario, garantendo per il debito pubblico dei vari Paesi, né operare in sostegno dell’economia e del Pil.
La volontà europea di controllare la crescita dei prezzi spiega anche l’accento posto ossessivamente sul rigore di bilancio. Si ritiene, infatti, che l’immissione di liquidità nel sistema economico, mediante l’acquisto massiccio di titoli di stato da parte delle banche centrali, porti inevitabilmente all’aumento senza controllo dell’inflazione. In realtà, il rapporto di causa-effetto tra politiche espansive e inflazione è tutt’altro che pacifico. Usa e Giappone, i Paesi che negli ultimi anni hanno più immesso liquidità per sostenere le loro economie, nel 2013 hanno registrato una inflazione rispettivamente dell’1,5 e dello 0,3 per cento, nettamente al di sotto del 2 per cento, ritenuto ideale dalla stessa Bce. Oggi, il pericolo non risiede nell’inflazione e neanche nella stagflazione, come fu negli anni ’70, ma sta semmai nella deflazione. Infatti, è nei periodi di recessione che i prezzi decrescono o crescono poco. Così accade anche nell’area euro, dove l’inflazione annuale a marzo 2014 è risultata essere appena dello 0,5 per cento, in calo rispetto all’1,7 per cento di marzo 201313. In Grecia e Portogallo a febbraio si è registrata una deflazione rispettivamente dello 0,9 e 0,1 per cento, in Spagna e Irlanda una inflazione dello 0,1 per cento e in Italia dello 0,4 per cento. Mentre l’inflazione riduce l’importo reale del debito, compreso quello del debito pubblico, la deflazione lo aumenta. La bassa inflazione e la deflazione soddisfano i creditori, tra i quali ci sono la Germania, le grandi banche e i fondi di investimento internazionali, ma rendono più pesante la situazione dei debitori, tra i quali la maggior parte dei Paesi europei. L’altra importante ragione dell’attenzione con cui la Bce guarda all’inflazione è il timore che, come accaduto negli anni ’70, un suo aumento ponga le basi per la ripresa di rivendicazioni sindacali, stimolando la crescita salariale a danno dei profitti. Una eventualità, che con il saggio di profitto in calo, viene vista come la peste.
Infine, ed è il terzo punto, l’euro accentua i divari di competitività e di crescita della ricchezza fra le economie delle nazioni europee. La maggiore divaricazione si registra tra Italia e Germania: fatto indice 100 il Pil pro capite della Ue, l’Italia crolla da 119 nel 2001, anno precedente al varo dell’euro, a 101 nel 2012, mentre la Germania sale da 116 a 123.
Come si può vedere dal grafico da noi elaborato, il crollo del Pil pro capite italiano, in assoluto e in rapporto a quello tedesco, precede la crisi del debito pubblico, e parte nel 2002, a dimostrazione di come la moneta unica sia stata sin dall’inizio deleteria per l’Italia. Oltre alla Germania, solo l’Austria e il minuscolo Lussemburgo, fra i paesi che entrarono nell’euro nel 2002, registrano un miglioramento relativo tra 2001 e 2012. Questo accade perché nell’area dell’euro le varie economie nazionali funzionano come un sistema valutario basato sui cambi fissi. Le imprese tedesche, già più competitive delle sorelle-nemiche europee, grazie all’euro si trovano ad avere un ulteriore vantaggio, vendendo prodotti nella stessa valuta di quelle italiane, francesi, spagnole, portoghesi, ecc. In questo modo, i tedeschi ovviano al problema, tipico delle economie più forti, di avere prezzi più alti dei concorrenti. Alcuni hanno voluto pensare che l’esistenza dell’euro comportasse la ricaduta positiva di evitare le svalutazioni competitive e di sviluppare l’innovazione tecnologica e produttività. In realtà, con l’euro è stato come se alla Germania fosse stato consentito di vendere i suoi prodotti in marchi svalutati mentre l’Italia era obbligata a vendere in lire sopravvalutate. Come dimostra il rallentamento della produttività in Italia e nel resto d’Europa, l’euro non ha stimolato la competizione attraverso l’innovazione, ma incentivato la riduzione dei salari e ha contribuito a mettere fuori dal mercato interi pezzi di industria italiana e europea. Grazie al vantaggio competitivo dell’euro il surplus della bilancia delle partite correnti tedesca è diventato il primo al mondo, mentre la maggioranza dei Paesi europei ha registrato l’aumento del debito del commercio estero, che ha contribuito ad incrementare e a rendere ingestibile anche il debito pubblico. Il regime di cambi fissi determina, inoltre, l’impossibilità di manovrare sui cambi e di svalutare, che, unitamente al divieto della Bce di acquistare direttamente titoli del debito pubblico dei Paesi dell’euro, inibisce qualsiasi politica monetaria finalizzata a migliorare la sostenibilità del debito alleggerendo la pressione sul rialzo dei tassi d’interesse.
3. La natura dell’euro: “frenatore” della caduta del saggio di profitto
Come appare evidente, l’Uem ha numerosi e strutturali difetti di costruzione, che non sfuggirono ai suoi padri fondatori, a partire da Romano Prodi. Dunque, perché l’euro è nato? E, soprattutto, perché ancora oggi viene difeso con tanta pervicacia? La ragione è che l’introduzione dell’euro è la modalità scelta dal capitale europeo per rispondere alla crisi generale del modo di produzione capitalistico. Più precisamente, l’euro è stato giudicato come lo strumento più efficace per contrastare la caduta del saggio di profitto, dopo che le politiche keynesiane si erano dimostrate fallimentari. Infatti, tra gli anni ’70 e ’80, le politiche espansive di bilancio, collegate all’estensione del welfare e all’intervento statale in economia, cominciarono ad avere effetti controproducenti per il capitale. Il saggio di profitto non solo non subiva incrementi, ma veniva depresso ulteriormente. Infatti, mentre negli Usa la spesa pubblica consisteva in parte notevole in spese militari, che sostengono le grandi corporation militari-civili, in Europa la spesa pubblica era soprattutto di carattere sociale con la conseguenza di mitigare l’impatto delle ristrutturazioni industriali, che divennero molto frequenti tra gli anni ’70 e ‘80. L’aumento della protezione sociale consentiva di limitare la creazione dell’esercito industriale di riserva e il suo effetto di compressione verso il basso sui salari.
L’euro rappresenta un “facilitatore”, se non l’agente ideale, di quelle misure che il modo di produzione capitalistico da sempre mette in atto per rallentare la caduta del saggio di profitto nel tentativo di evitare il proprio crollo. Alcune di queste misure sono strettamente legate all’internazionalizzazione del capitale e alla realizzazione del mercato mondiale. La prima misura è lo sviluppo del commercio estero, che rappresenta la valvola di sfogo alla sovrapproduzione di merci, a sua volta una manifestazione della sovraccumulazione di capitale sotto forma di mezzi di produzione e potenza produttiva. Inoltre, il commercio estero permette di innalzare il saggio di profitto grazie alla possibilità di collocare le merci a prezzi più alti di quelli domestici, realizzando così margini maggiori. La seconda misura è l’esportazione di capitali, che permette di spostare gli investimenti da aree dove il livello di accumulazione è più alto e il saggio di profitto è più basso verso aree più periferiche dove il grado di sviluppo dell’accumulazione e i salari sono più bassi mentre il saggio di profitto è più alto.
L’integrazione valutaria europea è funzionale al perseguimento di entrambe tali soluzioni. In primo luogo, l’introduzione dell’euro facilita le esportazioni di merci, rimuovendo le barriere commerciali e i costi di transazione all’interno dell’area valutaria. In questo modo l’euro asseconda la tendenza neo-mercantilista che si è affermata in questi ultimi anni e che è caratterizzata proprio da una crescita economica basata sull’export. Il problema è che di tale tendenza ha beneficiato esclusivamente la Germania, con l’inclusione di qualche suo satellite come l’Austria. Del resto, una posizione neo-mercantilista pura è praticabile solo da pochi paesi, perché agli ampi surplus commerciali di pochi non possono che corrispondere i deficit di molti, determinando una situazione di squilibrio economico internazionale. Ciò è stato vero soprattutto fino al 2007, anno in cui la Germania registrò un surplus di 126,5 miliardi di euro mentre Portogallo, Grecia, Spagna e Francia avevano un debito commerciale rispettivamente di 16,3, 22,6, 48,2 e 52,3 miliardi. Dopo il 2007 il mercato Ue, a causa del crollo dei salari e dell’occupazione, ha perso parte del suo peso sugli attivi della Germania. Tuttavia, la Germania è riuscita a compensare il calo del surplus intra-Ue, aumentando il surplus commerciale extra-Ue, grazie alla sua capacità di usare l’Europa come retroterra industriale per la conquista dei mercati mondiali. Infatti, mentre il surplus intra-Ue tra 2007 e 2012 cala da 126,5 miliardi a 48,7 miliardi, quello extra-Ue cresce dai 67,6 miliardi di euro del 2007 ai 138 miliardi del 2012. Ma, soprattutto la realizzazione di un’area valutaria comune è funzionale all’esportazione di capitale e all’integrazione fra i capitali di varia provenienza, favorendo le privatizzazioni e liberalizzando la circolazione dei capitali.
Si tratta di un aspetto che si collega alla forma transnazionale che le grandi imprese stanno assumendo da alcuni decenni. Le grandi imprese non si limitano ad investire a livello multinazionale, anche i capitali che investono sono di provenienza multinazionale. Inoltre, il vantaggio offerto dall’introduzione dell’euro non si limita agli investimenti in impianti produttivi, ma si estende anche agli investimenti di portafoglio, cioè agli investimenti puramente finanziari, in obbligazioni, titoli, ecc. L’esistenza di una valuta comune alla seconda area economica mondiale dopo gli Usa consente al mercato finanziario mondiale di disporre di una valuta di riserva e di scambio alternativa al dollaro, in modo da regolare gli investimenti speculativi in funzione delle opportunità di guadagno offerte dalle variazioni dei cambi e dei tassi d’interesse. La stretta disciplina di bilancio è coerente con il mantenimento del valore dell’euro al di sopra di quello del dollaro, in modo da difenderne il ruolo di valuta mondiale e attirare i capitali internazionali, con particolare riferimento a quello che era il vecchio mercato degli euro-dollari, nato e sviluppatosi in Europa a partire dagli anni ’70-80, grazie ai profitti non rimpatriati prima delle multinazionali degli Usa e successivamente anche europee.
La ragione principale della nascita dell’euro è, però, da individuare nel fatto che l’esistenza di una unione valutaria è lo strumento migliore per costringere i paesi europei alla realizzazione di quelle “riforme strutturali” ritenute necessarie dal capitale per contrastare in modo diretto la caduta del saggio di profitto. Tra queste “riforme strutturali” al primo posto ci sono quelle del mercato del lavoro, del welfare e delle pensioni, la cui realizzazione è ripetuta come un mantra da Bce e Commissione europea, oltre che ovviamente dalle organizzazioni imprenditoriali. Infatti, per il capitale, i mezzi migliori per contrastare la caduta del saggio di profitto sono:
a) creare un ampio esercito industriale di riserva, cioè una massa di disoccupati e precari da attrarre e respingere dalla produzione a seconda dell’andamento del ciclo economico;
b) aumentare la quota del profitto sul valore prodotto riducendo la quota che va al salario.
Ciò significa ridurre il costo del lavoro, riducendone tutte le sue componenti: diretta (il netto in busta paga), indiretta (i servizi sociali pubblici) e differita (pensioni). Del resto, il modello imposto attraverso l’euro è quello tedesco: la deflazione salariale che si sostituisce all’inflazione come leva competitiva. Non scordiamo che in Germania la realizzazione della riforma Hartz ha determinato il calo dei salari in rapporto a quelli degli altri paesi europei, contribuendo, insieme all’euro, ad aumentare la competitività della manifattura di quel Paese. L’euro, a causa dei suoi meccanismi di funzionamento e delle misure di austerity, funziona come una pressa gigante che comprime il salario medio in tutte le sue dimensioni, riducendone la capacità reale di acquisto tendenzialmente verso livelli di pura sussistenza, e creando nuovamente un esercito industriale di riserva permanente come non avveniva dalla fine del XIX secolo. La pressione dell’euro non viene, però, esercitata solo sulla classe dei salariati, ma anche sui settori intermedi e piccolo borghesi della società e all’interno del capitale industriale e commerciale stesso, favorendo l’eliminazione delle imprese più deboli e non monopolistiche.
L’euro è, in definitiva, il mezzo più efficace per la ristrutturazione coatta della produzione e della società nel suo complesso, a favore del settore apicale del capitale, quello finanziario (inteso come integrazione di capitale industriale e bancario) e transnazionale. I vincoli posti dai trattati europei sono il mezzo per bypassare la resistenza dei movimenti operai nazionali e la vischiosità rappresentata dai vari parlamenti. Gli esecutivi, composti da quella stessa élite politica che partecipa alla definizione dei trattati europei, prevalgono sui parlamenti e impongono le cosiddette “riforme strutturali” a tutta la società con il «Ce lo chiede l’Europa» e lo spauracchio dello spread e del default. In questo modo, la rappresentatività democratica e la credibilità dei parlamenti, già compromessa da leggi elettorali maggioritarie e dalla trasformazione dei partiti di massa in comitati elettorali, si riduce ai minimi termini.
Si tratta della attuazione di una strategia che ha radici antiche. L’unificazione europea era individuata già nel 1975 dalla Commissione Trilaterale, una delle organizzazioni più importanti del capitale transnazionale, come lo strumento più efficace per eliminare l’”eccesso di democrazia” dei Paesi occidentali e superare i vincoli posti dagli Stati nazionali allo sviluppo delle politiche neoliberiste. Le conseguenze dell’introduzione dell’euro sono devastanti per le classi subalterne e per l’Europa nel suo complesso. L’euro porta all’impoverimento di massa e all’incremento dei divari sia all’interno dei singoli Paesi europei sia tra i Paesi che ne fanno parte. L’Europa, al suo interno, è oggi più divergente di dieci anni fa sul piano del Pil e del reddito pro capite e la sua economia è sempre meno stabile. L’euro è un assurdo sul piano economico generale ma, dal punto di vista del capitale, non è affatto privo di logica. Se non si capisce questo suo aspetto di duplicità è difficile rendersi pienamente conto del perché le élite capitalistiche europee (non solo quelle tedesche e, per certi versi, specialmente quelle non tedesche) continuino a difendere, seppure con accenti diversi, l’esistenza della Uem.
4. L’eliminazione dell’euro condizione necessaria ma non sufficiente
L’area valutaria dell’euro non regge né all’esame di qualsivoglia teoria economica né alla prova della realtà. La irrazionale struttura dell’euro si scontra non solo contro i principi della teoria keynesiana, ma anche contro quelli di una teoria “neoclassica” come la teoria delle Aree valutarie ottimali (AVO). Del resto, lo stesso Robert Mundel, il maggiore esponente dell’Avo, a suo tempo mise in guardia contro l’euro. Non sono pochi, anche nel campo del capitale, quelli che sempre di più si rendono conto che l’area euro non può andare avanti ancora per molto in questo modo. Questa opinione si sta affermando negli Usa, che non vogliono essere gli unici a immettere liquidità nel sistema economico, e in molti paesi della Ue e della Uem. Sicuramente si sta affermando in Italia e non solo all’interno della piccola e media impresa colpita dalla crisi, ma anche in settori di alta borghesia, specie industriale. Ad esempio, sul Sole24ore, quotidiano di Confindustria, e su Repubblica, appartenente al gruppo monopolistico di De Benedetti, da qualche tempo si critica il fondamentalismo di bilancio tedesco e gli eccessi di austerity, affermando che oltre che sul rigore bisogna porre l’accento sulla crescita.
Questi settori del capitale vorrebbero la proverbiale botte piena e la moglie ubriaca. Da una parte, vorrebbero un allentamento dei vincoli europei in modo da recuperare risorse da destinare alle imprese. Dall’altra parte, vorrebbero mantenere la spinta dell’euro verso le “riforme di struttura”. In particolare, il loro obiettivo è ridurre le imposte alle imprese, privatizzare e quotare in borsa le imprese pubbliche o ancora parzialmente tali, controriformare il mercato del lavoro, estendendo la precarizzazione, e soprattutto comprimere il costo del lavoro che, come abbiamo visto, è il principale obiettivo del capitale europeo di questa fase. La sostituzione di Renzi a Letta è avvenuta proprio perché quest’ultimo non aveva saputo corrispondere a queste esigenze, soprattutto alla riduzione del costo del lavoro, e perché Renzi si è fatto portatore di una linea di maggiore attivismo nelle “riforme di struttura” e di flessibilità rispetto ai parametri europei. Dopo i primi confronti tra Renzi, da una parte, e le istituzioni europee ed il governo tedesco dall’altra, l’enfasi dei discorsi del neopremier è rapidamente passata dalla richiesta di maggiori margini di flessibilità sui trattati europei alle riforme di struttura. Nei fatti, il governo Renzi e i settori del capitale che lo hanno appoggiano non hanno né l’interesse né la determinazione per rinegoziare i termini o la natura dei parametri europei, visto che questo comporterebbe mettere in discussione l’architettura dell’euro.
Ci sono, invece, non pochi a sinistra che la questione della modifica o ridefinizione dell’architettura dell’euro se la pongono veramente. Bisognerebbe, però, capire cosa si intende per ridefinizione dell’architettura dell’euro. Se si intende la modificazione sostanziale del ruolo della Bce, del Trattato di Maastricht, del Fiscal compact e del Mes, ciò vorrebbe dire rimettere in discussione l’euro stesso, per come si è definito sin dalla sua nascita. In questo modo, non avremmo più l’euro. È evidente che una tale prospettiva non sarebbe accettabile né per la Germania né per quei settori egemonici del capitale che nell’euro vedono lo strumento per il conseguimento dei loro obiettivi. Va bene, quindi, assumere come programma politico ed economico la ridefinizione dell’architettura dell’euro, ma bisogna essere consci che chiedere l’eliminazione dei principi di fondo neoliberisti su cui si basa l’euro comporta essere disposti a mettere in discussione l’esistenza stessa della Uem, con tutto ciò che ne consegue in termini politici ed economici.
Sempre all’interno del campo dei riformatori dell’euro esiste un’altra tendenza che si può sintetizzare nella formula “Più Europa”, consistente in una integrazione europea sempre maggiore. Nel contesto degli attuali rapporti di forza economici e politici, una maggiore integrazione europea sarebbe controproducente, visto il segno assunto e i risultati raggiunti fino ad ora dal processo di integrazione. Ciò vale, a maggior ragione, per la versione più estrema dell’integrazione europea, ovvero per la costruzione di un vero Stato unitario europeo. Un’evoluzione dell’area euro in questa direzione è, almeno in questa fase storica, altamente improbabile. La tendenza in atto è tutt’altro che verso la convergenza fra gli stati nazionali europei. Ciò è vero non solo sul piano economico, ma anche sul piano della politica estera e militare. I livelli sovrannazionali funzionano solo nella misura in cui, per i comuni interessi delle loro classi dominanti, gli stati nazionali delegano alcune loro funzioni. E, soprattutto, non si vede alcuna disponibilità politica da parte della Germania o da parte della Francia a farsi nucleo dirigente di una tale unificazione. Dall’altra parte, anche se la eventuale formazione di uno Stato europeo potrebbe sembrare che assecondi alcune delle critiche poste dagli economisti keynesiani alla Uem, nella realtà è tutt’altro che sufficiente avere uno Stato unitario per risolvere i problemi posti dall’euro. Bisogna capire di che tipo di Stato stiamo parlando, cioè vedere quale sia il suo indirizzo politico generale, di quale tipo sia la sua forma organizzativa e, soprattutto, quali siano le classi sociali che ne determinano gli indirizzi. Un’eventuale Stato unitario europeo, nell’attuale contesto economico e politico, sarebbe egemonizzato dal capitale monopolistico e finanziario. In definitiva, la costruzione di uno Stato europeo offrirebbe un ulteriore e potente strumento al settore di vertice del capitale per portare avanti il suo progetto neoliberista di dominio e non favorirebbe di certo l’affermazione della democrazia e della libertà. A questo proposito, crediamo che l’esperienza dell’euro realizzato abbia fatto giustizia di tutte le ingenue illusioni che una buona parte della sinistra italiana si era fatte sul processo di unificazione europeo.
Alla luce di quanto abbiamo detto, gli scenari possibili per il futuro sono tre. Il primo, come abbiamo visto, è la trasformazione dell’unione valutaria in un superstato europeo, un’eventualità da una parte improbabile e dall’altra parte tutt’altro che tranquillizzante. Il secondo è il mantenimento della situazione attuale con dei possibili correttivi, che, però, non intaccando i limiti di fondo della architettura dell’euro, posticiperebbero soltanto una soluzione più radicale. Il terzo è il dissolvimento del sistema dell’euro. Questo scenario potrebbe evolvere in due altri scenari ulteriori: o verso due aree valutarie, che separino la Germania e i suoi satelliti dal resto dell’Europa, o verso il semplice ritorno alle singole valute nazionali. Per la maggior parte dei cittadini europei e per i salariati in particolare, stando le cose come abbiamo detto, il vero problema non è se l’euro durerà o no. Come appare evidente dai limiti strutturali che la minano, l’area euro prima o poi avrà fine, come del resto le altre aree valutarie interstatuali che l’hanno preceduta. Il vero punto in discussione è quando e come l’unione valutaria avrà fine.
In primo luogo vediamo il quando. L’euro potrebbe essere liquidato dalle stesse élite che lo hanno voluto, ma solo dopo che avrà assolto a tutte le sue funzioni, ovvero dopo aver portato a termine la ristrutturazione coatta della produzione e della società europee, schiacciando definitivamente il lavoro salariato. Se la sinistra si pone in posizione attendista rispetto all’euro, questo potrebbe durare ancora per diversi anni anni, continuando a devastare le economie europee, con l’effetto di contrarre la base industriale dei Paesi periferici e subordinarla ancora di più alla Germania. Inoltre, i livelli di democrazia decadranno ancora di più con conseguenze pericolosissime. Il centro-destra ed il centro-sinistra europei, ovvero il Partito Popolare Europeo (Ppe) e il Partito Socialista Europeo (Pse), continueranno a sostenere questa Europa mentre il risentimento anti-euro si farà sempre più diffuso. Di conseguenza, la questione decisiva sarà che masse sempre più ampie si posizioneranno contro l’euro e l’Europa, ma non sempre troveranno adeguata rispondenza tra le formazioni di sinistra. In questo contesto, l’astensionismo e la disaffezione verso la politica aumenteranno, mentre la destra estrema di stampo xenofobo e finanche fascista sarà libera di sfruttare il risentimento anti-euro ancora per molto tempo, accumulando consensi. Pur essendoci lo spazio per l’affermazione di una terza forza realmente di sinistra, al di fuori dell’asse bipartisan di centro-destra e centro-sinistra, sia in Italia che a livello europeo, ciò non accadrà fino a quando non si formeranno gruppi dirigenti di sinistra che assumeranno una posizione chiara e politicamente conseguente sulla questione dell’euro.
Vediamo ora il come. La disgregazione della Uem è una condizione necessaria alla ripresa dell’iniziativa dei lavoratori e della sinistra a livello nazionale e europeo perché, come abbiamo visto, l’euro è la leva strategica attraverso cui il capitale ristruttura i rapporti di produzione e sociali. Tuttavia, non bisogna cadere nella visione ingenua secondo cui l’uscita dall’euro o la dissoluzione complessiva dell’Uem sia la panacea di ogni male o che non ponga seri problemi agli stati europei e ai lavoratori salariati. Il problema posto all’uscita dall’euro non è connesso a una presunta conseguente impossibilità di rimanere nell’Unione Europea, nel caso in cui uno o più stati decida di fuoriuscire dalla Uem, visto che alcuni stati della Ue si sono tenuti alla larga dall’euro e con risultati economici niente affatto peggiori, come la Gran Bretagna, la Repubblica Ceca e la Svezia. Né la fuoriuscita dalla Uem è impedita esplicitamente da qualche normativa legale. Alcuni credono di individuare un impedimento giuridico all’uscita dei singoli Paesi nella inesistenza nei Trattati europei di specifiche indicazione in merito. La ragione della reticenza dei trattati europei su tale aspetto è duplice. La prima ragione riflette la speranza dei fautori dell’euro di dissuadere in tal modo gli Stati membri dal lasciare l’unione monetaria. La seconda sta nel fatto che non ne esiste alcuna necessità giuridica, perché gli Stati che fanno parte della Uem sono entità sovrane e non è previsto da nessuna legge internazionale che uno stato sovrano non possa recedere da trattati di carattere economico. Ad ogni modo, visto che il Trattato di Lisbona prevede esplicitamente la possibilità di uscita dalla Ue, non si capisce perché l’uscita dalla Uem dovrebbe essere impossibile. La stessa Corte costituzionale tedesca ha stabilito che gli Stati hanno ancora sovranità sui trattati e possono sempre decidere di abbandonare la Ue, revocando i loro atti di ingresso mediante un’uscita unilaterale. Inoltre, la Corte ha affermato che la Ue non è uno Stato federale e che la legge Ue salvaguarda chiaramente l’identità nazionale. La questione, quindi, è essenzialmente economica e in definitiva politica, visto che la politica è espressione generale dell’economia.
Un’uscita dall’euro di uno o più paesi o la dissoluzione della Uem pone delicate questioni connesse al ritorno alla valuta nazionale. Se il passaggio dall’euro alla valuta nazionale non avviene in modo controllato potrebbero esserci difficoltà, tra le quali la più sentita è l’aumento dell’inflazione. Questo problema però non va esagerato. Varie simulazioni di banche internazionali mostrano che, in caso di fuoriuscita dall’euro, l’aumento dell’inflazione sarebbe nettamente inferiore a quanto prospettato da alcuni fautori dell’euro ad ogni costo. Inoltre, l’inflazione, dopo una immediata risalita, in breve tempo ritornerebbe a livelli simili a quelli precedenti l’uscita dall’euro. Ma, quel che più conta è il fatto che il contesto attuale di recessione, caratterizzato da bassa inflazione e persino da deflazione, non si presta ad impennate inflattive. Il vero problema, in questo contesto, è l’aumento della disoccupazione e la distruzione delle basi industriali ed economiche dell’Italia e degli altri Paesi europei che non siano la Germania e i suoi satelliti.
La questione più importante è un’altra: la capacità di modificare quelle politiche di stampo neoliberista che hanno trovato nell’euro e nell’Europa la loro leva attuativa principale. Per fare questo non basterebbe l’uscita dall’euro. Ad esempio, liberarsi della Bce, fondata sul concetto della indipendenza della banca centrale, non basterebbe se, ad esempio, la Banca d’Italia non recuperasse pienamente il ruolo che aveva prima della riforma Ciampi-Andreatta. Infatti, la gran parte del debito pubblico italiano non nasce da una presunta esagerata spesa pubblica degli anni ‘80, in realtà in linea o al di sotto di quella media europea, ma dal lievitare della spesa degli interessi, a sua volta causata dall’indipendenza della Banca d’Italia, che dall’inizio degli anni ’80 non fu più tenuta per legge ad acquistare titoli di stato. La banca centrale, di conseguenza, non deve più essere concepita come un’entità indipendente o autonoma dallo Stato. Allo stesso modo, è necessario tornare indietro rispetto al processo di privatizzazione, in primo luogo nel settore bancario. C’è bisogno di una grande banca di stato che provveda a sostenere l’apparato industriale e bancario e che faccia da barriera nel caso in cui il calo del valore azionario di banche e imprese industriali le rendesse facile preda del capitale transnazionale. In pratica, l’uscita dall’euro andrebbe coniugata con alcune misure che vadano in direzione opposta ad un’economia basata sul principio di autoregolazione del mercato e che reintroducano non solo il controllo ma anche la partecipazione diretta nell’economia da parte dello Stato.
Tutto questo comporterebbe non solo l’uscita dall’Uem, ma anche la rimessa in discussione di aspetti importanti della Ue, che pone seri limitazioni all’intervento pubblico. Ad ogni modo, anche se la dissoluzione dell’Uem da sola non è sufficiente a determinare un’evoluzione della situazione nel senso da noi indicato, senza di essa sarebbe impossibile anche solo avviare il processo di trasformazione. Infatti, l’euro rappresenta un’imbracatura ferrea entro la quale è bloccato da anni il movimento dei lavoratori. Di conseguenza, l’indicazione politica della necessità della dissoluzione dell’Uem è la più potente (e forse l’unica) leva attorno a cui poter ricomporre i ranghi frammentati dei lavoratori italiani ed europei e ricostruire una vera sinistra in Italia ed in Europa. Il superamento della Uem (o l’uscita unilaterale piuttosto che negoziata dall’euro dei singoli Paesi) non va affrontato come un problema tecnico-economico, ma come una questione eminentemente politica, che riguarda i rapporti fra classi, fra settori di classi e fra Stati.
All’interno di questa prospettiva, non ha senso dividersi sulla questione se si debba difendere la sovranità nazionale oppure no, o se si debba privilegiare la lotta nazionale o quella europea. Non vi è dubbio che l’asse della lotta deve ruotare attorno al recupero di alcuni aspetti di sovranità nazionale, che sono stati delegati dagli Stati nazionali agli organismi sovrannazionali europei. Il punto, però, è il carattere di classe che assume tale recupero della sovranità nazionale. Ciò che intendiamo dire è che la forma dello Stato che si verrebbe definire all’interno di un processo di lotta contro l’euro non potrà più essere quella, ora sempre più prevalente, in cui si esprime il dominio del settore di vertice del capitale, quello transnazionale. Di conseguenza, riprendere la bandiera degli interessi nazionali del Paese, abbandonata dalla borghesia, non sarebbe un sintomo di nazionalismo. Significherebbe, invece, scendere sul terreno della conquista dell’egemonia, che è, per l’appunto, la capacità di porsi e proporsi alla società come punto di riferimento complessivo nella tempesta della crisi. Nello stesso tempo, però, bisogna essere consci che il capitale è ormai fortemente integrato e coordinato a livello internazionale, mentre i lavoratori sono frammentati sia a livello nazionale che continentale. La lotta contro l’euro e l’Europa del capitale transnazionale può nascere solo a livello nazionale, ma acquista possibilità di successo soltanto se si allarga ad un livello sovrannazionale, cioè europeo.
di Domenico Moro per Marx21.it