In queste righe vorrei segnalare la chiave di lettura che Massimo Bontempelli – filosofo e storico di altissima levatura, scomparso tre anni fa – ha offerto dell’episodio della Resurrezione di Gesù, o meglio, dell’incontro reale con Gesù dopo la sua morte. La prospettiva di Bontempelli probabilmente non è unica nel suo genere, in quanto moltissimi teologi e storici hanno provato a comprendere uno degli avvenimenti più importanti di tutti i tempi, ma la sua è di estremo interesse per sapere cosa possa attestare in merito uno storico – sulla base delle testimonianze scritte – che non voglia aderire fideisticamente a un “sovrannaturalismo” o a un “negazionismo” a prescindere. Se ne avrà che le conclusioni dello storico non cristiano possono ammettere molto di più di quanto non attestino alcuni studiosi sedicenti “cristiani”, ad esempio quelli che si limitano a considerarla un “mito”.
Troviamo queste sue riflessioni all’interno del volume “Gesù. Uomo nella Storia, Dio nel Pensiero” edito da C.R.T. nel 1997, precisamente nelle pagine che vanno dalla 24 alla 44. Il libro è articolato in una prima parte affidata a Bontempelli, che va alla ricerca dell’“uomo nella storia”, e in una seconda parte scritta da Costanzo Preve, che si occupa del “Dio nel Pensiero”, cioè di far emergere, dalle tappe del pensiero occidentale, alcuni tra i più significativi approcci filosofici – da Spinoza a Nietzsche – alla questione religiosa e alla figura del Cristo. Entrambi gli autori non erano di fede cristiana, ma la loro sensibilità dialettica non si faceva imbrigliare nella dicotomia atei/credenti, che Preve rigettava apertamente, considerandola fuorviante, mentre riteneva assai più significativo filosoficamente l’atteggiamento nei confronti dei confronti della Verità e della Comunità.
Nel Nuovo Testamento è fatta menzione della Resurrezione di Gesù – come del resto per molti altri avvenimenti che riguardano la vita del Cristo – secondo punti di vista differenti, a seconda della sensibilità e dei destinatari di chi ha riportato la testimonianza.
Il documento più antico parrebbe essere la Prima Lettera di San Paolo ai cristiani di Corinto, scritta attorno 55 d.C. Paolo non è testimone oculare, ma si limita a riferire la tradizione secondo la quale Gesù dopo la sua morte apparve prima a Pietro, poi ai Dodici apostoli, poi a cinquecento discepoli e infine allo stesso Paolo. Tuttavia non parla né della tomba vuota né delle Marie in visita al sepolcro.
Attorno al 70 d.C. è stato messo in forma scritta il Vangelo secondo Marco, che si rivolge prevalentemente agli uomini di origine pagana. Questi ci riferisce di Maria Maddalena che, recatasi assieme a Maria di Giacomo e a Salomè per visitare il giardino dove era stato sepolto Gesù, lo trova aperto. Dentro, un giovane seduto che diceva di non cercare più il morto, perché Gesù era risorto. Qui – al versetto 8 del capitolo 16 – termina il Vangelo originario; la parte seguente è stata aggiunta quasi un secolo dopo.
Segue il Vangelo secondo Luca (circa 80-90 d.C.), che racconta che Maria Maddalena si era recata al sepolcro assieme a Maria di Giacomo, a Giovanna e “alle altre”. Esse trovano all’esterno due uomini con vesti abbaglianti come folgori che ricordano loro la profezia della Resurrezione; prosegue poi con l’annuncio agli apostoli e i successivi incontri con il Risorto.
Il Vangelo secondo Matteo – la cui datazione è per alcuni contemporanea a quello di Luca, per altri addirittura antecedente a tutti gli altri documenti scritti – si rivolge innanzitutto agli ebrei convertiti al cristianesimo. La vicenda narrata qui è simile a quella di Marco, ma vengono riferiti prodigi e manifestazioni molto eclatanti: il giovane è un angelo disceso dal cielo con un terremoto che tramortisce le guardie del sepolcro e le due donne (in questo caso Maria Maddalena e l’“altra Maria”) incontrano, dopo aver seguito le indicazioni dell’angelo, anche Gesù.
Bontempelli riferisce che tali discordanze impediscono una lettura scrupolosamente letterale, “perché ciò è contraddetto da una comparazione interna ai Vangeli stessi”. Ma, si domanda lo storico, dobbiamo forse concluderne che “nessuna delle informazioni evangeliche sulla Resurrezione ha la minima base reale”? Bontempelli esplicita il proprio punto di partenza: “prendere in considerazione i Vangeli con lo stesso metodo storico con cui si leggono […] Erodoto e Plutarco”, riconducendo a una base storica reale anche la notizia della scoperta, da parte di Maria Maddalena con le altre, della Resurrezione di Gesù di fronte al sepolcro vuoto. Viene esclusa l’ipotesi di “un’invenzione, perché non corrisponde al primo e fondamentale scopo per cui sono stati scritti i Vangeli”, perché la testimonianza di una donna era di poco conto, soprattutto quella di Maria Maddalena “che aveva un fortissimo legame emotivo con Gesù” – Bontempelli pare suffragare l’ipotesi coniugale tra i due – “e un passato di instabilità mentale”. A detta dello storico, la tradizione è stata arricchita da “numerosi elementi favolistici […] ma non ne ha di sicuro creato il nucleo originario”.
Per comprendere con più profondità la base reale della vicenda, Bontempelli ritiene “decisivi” alcuni elementi contenuti nel Vangelo secondo Giovanni – redatto a cavallo tra il I e il II secolo d.C. – che viene riproposto leggendo prima Gv 20, 11-18 e in seguito Gv 20, 2-10 al fine di far emergere un migliore senso logico, in quanto si suppone che un redattore maldestro avrebbe invertito le sezioni. La scena narrata vede Maria Maddalena in lacrime, disperata di fronte al sepolcro vuoto, quando scorge un uomo in piedi. Ritenendolo il custode del giardino, gli chiede se sa dove sia stata portata la salma di Gesù. Ma poiché le si rivolge chiamandola per nome, Maria intuisce che si tratta di Gesù in persona ed esclama: “Rabbuni!”.
Bontempelli per suffragare la sua tesi dice definisce “affettuoso” questo epiteto, quando invece significa semplicemente “maestro”, come infatti lo chiamò anche il cieco Bartimeo. Lo stesso Bontempelli offre una lettura forte del “mé mou aptou”, tradotto con “non mi abbracciare”, che rappresenterebbe un rifiuto delle sue “effusioni”. Maria Maddalena allora corre dagli apostoli, riferendo che Gesù è vivo e che le ha detto di riferire a tutti che presto sarebbe salito al Padre. In realtà – preciso – anche invertendo logicamente i passi, Maria ha semplicemente riferito loro che il Signore era stato portato via e non si sapeva dove era stato posto. Pietro e l’altro discepolo, “quello che Gesù amava” – tradizionalmente l’autore stesso del Vangelo, Giovanni – si precipitarono al sepolcro, arrivò prima l’altro, ma fu Pietro il primo ad entrarvi; poi, vedendo le bende per terra, l’altro discepolo “e vide e credette”.
Utilizzando “il normale metodo di analisi di una fonte storica”, cosa dobbiamo dedurre da tutto ciò, secondo Massimo Bontempelli? La proposta interpretativa offerta dallo storico è che qualcuno “estraneo alla cerchia degli apostoli e a loro insaputa” – forse, ma è solo un’ipotesi, l’influente Giuseppe d’Arimatea – “aveva tolto le bende al corpo di Gesù e lo aveva portato via dal giardino” e che “Maria Maddalena, recatasi in quel giardino, vide fisicamente il giardiniere e incontrò spiritualmente Gesù”.
In queste parole emerge l’idealismo filosofico di Bontempelli, che vuole prendere le distanza sia dalla fede sovrannaturalistica – che sfoggia la Resurrezione come “fenomeno da baraccone di un corpo morto che riappare corpo vivente” – sia dallo “sciocco positivismo”. Secondo lui, Maria Maddalena, che aveva recepito gli insegnamenti più profondamente degli altri apostoli, “seppe riconoscere l’impronta vivida di Gesù, la sua immagine riflessa, nelle parole e negli atteggiamenti del custode del giardino comparso presso di lei“. Quindi, “benché Gesù fosse morto, Maria ne incontrò realmente, e non illusoriamente, lo spirito”, perché il custode, familiare anch’egli con Gesù, ne aveva assunto “atteggiamenti esistenziali, pensieri, inclinazioni, valori”. Si tratta quindi di un dato “reale” in senso hegeliano: lo spirito di Gesù “più che quello di ogni altra persona, aveva la forza di manifestarsi anche in altre persone, anche dopo la sua morte”, perciò “Maria Maddalena poté incontrarlo”.
Certo, Bontempelli per procedere nella sua argomentazione è costretto ad operare delle scelte che possono essere anche non condivise da tutti, ad esempio quella di prediligere la Maddalena solitaria descritta da Giovanni, che gli permette di sottolineare l’intimità del primo incontro con il Risorto. Qualcuno forse potrebbe ritenere che questa ricostruzione tradisca o impoverisca la portata dell’annuncio della Pasqua cristiana. Di fronte a simili obiezioni, lo storico prova a muovere alcune considerazioni. Il lavoro dello storico è un continuo tradimento delle fonti, perché svincola “il passato dall’immagine immediata che ne hanno avuto coloro che lo hanno vissuto” al fine di “connetterlo concettualmente agli sviluppi successivi” storici. Se avessero avuto delle apparizioni fisiche, quella di Maria Maddalena e degli altri apostoli non sarebbe stata una autentica fede, ma semplice la presa d’atto di una serie di fatti incontrastabili. Invece nella lettura bontempelliana entrano in gioco l’intensità dell’amore, la profondità degli insegnamenti e la forza di Gesù nel lasciare “indelebili tracce” nei suoi seguaci, ma anche la speranza messianica da lui suscitata e la “capacità dello spirito di incontrare e riportare […] in vita ciò che il male ha distrutto”. La testimonianza evangelica non verrebbe così impoverita, ma arricchita spiritualmente, per evitare la complementarietà dialettica di “trascendentismo sovrannaturale” ed “empirismo fisico”, entrambi incapaci di riconoscere “l’immanenza ontologica dello spirito”. Inoltre, lo storico tende a respingere le letture fisicistiche degli incontri di Gesù dopo la sua morte, perché – come nel caso della cena ad Emmaus – Gesù viene riconosciuto in persone che non hanno “alcuna somiglianza esteriore con lui”, ma la sua vera identità emerge dalle sue parole, dai suoi gesti e dai suoi atteggiamenti premurosi. Del resto, anche in altre occasioni aveva detto: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me”.
Infine Bontempelli nota che il verbo “apparire”, inteso come percezione fisica, è utilizzato solamente da Paolo (ὤφθη; 1Cor 15, 6) – che non utilizza “il linguaggio biblico della presenza spirituale” ma quello “greco della riapparizione corporea” – e non dagli evangelisti, testimoni diretti, che riferiscono come il suo corpo “si fece incontro” (ὑπήντησεν; Mt 28, 9) “si fece riconoscere” (ἐφανερώθη; Mc 16, 12) “stette presente” (ἔστη; Gv 20, 19). Il linguaggio utilizzato per descrivere la Resurrezione sarebbe pertanto quello “dell’incontro” e “della relazione” e non tanto quello “dell’apparizione” o “della percezione” materiale del medesimo corpo biologico. Appunto, Gesù Risorto non risulta accessibile allo stesso modo di come era prima della sua crocefissione e non si comporta come in precedenza. Ma, parimenti, l’incontro con il “corpo glorioso” del Risorto non va annoverato come “un’allucinazione”, perché gli apostoli incontrarono il suo spirito reale, dato che “reali erano le tracce di sé che Gesù aveva saputo imprimere nelle fibre più intime dell’animo di altre persone” e altrettanto reali erano le ferite toccate con mano da Tommaso, che voleva accertarsi di non aver a che fare con un “fantasma”.
Ed è proprio la realtà della Resurrezione di Gesù di Nazareth che assicura anche a noi, dopo due millenni, di poter continuare a incontrare Gesù, ogni giorno, nei fratelli, a partire da quelli che vivono in Galilea, nelle “periferie esistenziali” di questo mondo.