Fatah e Hamas, l’accordo della discordia

Pubblicato il 8 Mag 2014 - 9:00am di Irene Masala

Il 23 aprile 2014 Al FatahHamas hanno siglato un accordo di riconciliazione. Israele interrompe i colloqui di pace pochi giorni prima della scadenza ufficiale.

Fatah

Il 23 aprile 2014 potrebbe diventare un giorno storico per la Palestina e un momento di svolta, troppo presto per capire se positiva o negativa, nel conflitto tra israeliani e palestinesi.

Al Fatah, partito fondato da Arafat nel 1959 e oggi capeggiato da Abu Mazen, e Hamas, movimento islamico di resistenza figlio della Fratellanza Mussulmana, hanno siglato un accordo di riconciliazione. L’obiettivo comune è quello di formare un governo tecnico entro cinque settimane e la convocazione, entro sei mesi, di nuove elezioni.  Dopo sette anni di divisioni, scontri e diversi tentativi di riconciliazione falliti (Accordo della Mecca nel 2007, Accordo del Cairo nel 2011, Accordo di Doha nel 2012), la tanto attesa quanto temuta decisione del patto di unità arriva dopo un’intensa giornata di colloqui a Gaza tra le due principali forze palestinesi. Una delegazione di notabili di Al Fatah era presente sulla Striscia di Gaza già dall’11 febbraio scorso e i diversi mesi di preparazione, con scambi di gentilezze da entrambe le parti, lasciavano presagire il presente accordo.

Nonostante ciò Israele è stata quasi colta di sorpresa dall’accordo che, secondo il Primo ministro Benjamin Netanyahu, sancisce la fine delle ennesime trattative di pace intraprese 9 mesi fa e arrivate a un evidente punto di stallo. “Abbas deve scegliere: vuole la pace con Hamas o con Israele? Si può avere o l’una o l’altra. Spero che egli scelga la pace, finora non lo ha dimostrato”.

Ma questa non è stata la vera contromossa israeliana, dato che i colloqui erano da tempo compromessi, tanto che Israele si è rifiutata di rilasciare l’ultima tranche di prigionieri palestinesi e Abbas si è rivolto a 15 organizzazioni delle Nazioni Unite per chiedere l’adesione della Palestina. Il motivo del naufragio gira, come al solito, sui punti cardine delle trattative: lo status di Gerusalemme, la questione dei profughi e quella degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. Punti sui quali nessuna delle parti in causa è disposta a cedere di un solo passo.

FatahLa vera ritorsione di Israele, finora solo minacciata, rischia di essere molto più compromettente e pericolosa. All’indomani dell’accordo tra Hamas e Fatah, Yoav Mordechai, portavoce dell’IDF ha annunciato che verranno presto approvate decisioni altrettanto unilaterali: il congelamento del piano generale di approvazione di 19 villaggi palestinesi nell’area C, considerate come costruzioni abusive ed illegali e pertanto soggette a rischio di demolizione. Il ministro per le Comunicazioni, Gilad Erdan, figura particolarmente vicina al Premier, ha aggiunto che potrebbe essere giunto il momento per Israele di prepararsi a una dichiarazione di sovranità israeliana sull’intera area C (circa il 60% dell’intera Cisgiordania), sulla quale risiede una gran parte di popolazione ebraica che, chiaramente, non ha nessuna intenzione di abbandonare quelle terre. Il tutto come se al momento, nell’area C, lo Stato ebraico non godesse già di completa sovranità. Un altro asso nella manica di Israele potrebbe essere la detrazione dei debiti della PA dalle tasse pagate dai palestinesi e raccolte da Israele, come ad esempio quelle per la Israel Electric Company, e trasferite mensilmente nei conti della PA.

Al di là della retorica che etichetta Hamas come organizzazione terroristica, e pertanto non riconoscibile come interlocutore politico valido, ciò che non va davvero giù a Tel Aviv è la possibilità di vedere il popolo palestinese riunito, rappresentato e controllato da un unico schieramento politico. Questo scenario potrebbe infatti scardinare la politica di divide et impera portata avanti da Israele fin dalla sigla degli accordi di Oslo. Il capo negoziatore palestinese, Mustafa Barghouti, sottolinea l’incoerenza della reazione israeliana: “Quando siamo divisi Netanyahu lamenta l’impossibilità di trovare un unico rappresentate dei palestinesi per discutere la pace, e quando siamo uniti sostiene che non può fare la pace con un fronte unitario palestinese”.

Sfortunatamente per Netanyahu, questo accordo sembra destinato a durare, dato che entrambe le fazioni arrivano da un momento di crisi e, più in generale, la situazione venutasi a creare dopo la fantomatica “Primavera Araba”, ha reso necessario da parte dei due partner un superamento della scissione. La guerra in Siria e l’estromissione della Fratellanza Mussulmana dai vertici politici egiziani non hanno fatto altro che acuire il frazionamento politico interno palestinese, causando un sempre più evidente isolamento di Hamas, schieratasi con i ribelli siriani, sopratutto nei confronti dello storico alleato iraniano.

Stati Uniti e Unione Europea sono pronti a chiudere i rubinetti per compiacere l’alleato israeliano, anche se questa volta la morsa economica potrebbe non essere sufficiente a fermare i cambiamenti in atto.

Info sull'Autore

Laureata in Scienze Politiche e Giornalismo ed Editoria, da anni si occupa di geopolitica e relazioni internazionali, con particolare interesse per il Medio Oriente e il conflitto arabo-israeliano. Due grandi passioni, scrivere e viaggiare, l'hanno portata a trascorrere gli ultimi sei anni tra Roma, Valencia e Israele/Palestina. Ha inoltre frequentato il Master in Giornalismo Internazionale organizzato dall'IGS (Institute for Global Studies) e dallo Stato Maggiore della Difesa, nell'ambito del quale ha avuto modo di trascorrere due settimane come giornalista embedded nelle basi Unifil in Libano.

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