In occasione delle Europee 2014, continuiamo le nostre interviste con Enrico Musso, candidato con Scelta Europea con Guy Verhofstadt – Alleanza Liberali Democratici Europei nella circoscrizione Nord-Ovest
Professore di Economia dei Trasporti dell’Università degli Studi di Genova, Enrico Musso è stato Senatore della Repubblica dal 2008 al 2013, accettando di candidarsi come indipendente nella lista del Popolo della Libertà. Già consigliere comunale per il Partito Liberale Italiano tra il 1990 e il 1993, si è candidato alla carica di sindaco del Comune di Genova nel 2007 con la coalizione di centrodestra e nel 2012 sostenuto dalla sola lista civica “Enrico Musso Sindaco”, riuscendo però in questo caso a giungere al turno ballottaggio, nel quale ha prevalso Marco Doria, candidato con il centrosinistra.
Innanzitutto, cosa Le piace e cosa non Le piace di questa Europa? Perché la risposta alla crisi delle istituzioni europee deve essere “Più Europa”?
Mi piace l’idea dei “padri fondatori” dell’Europa: un mercato unico dei prodotti e dei fattori produttivi che permetta maggiore efficienza nella produzione della ricchezza, maggiore concorrenza e quindi meritocrazia, norme omogenee da cui consegue maggiore mobilità sociale e tendenziale uguaglianza delle opportunità, al di sopra – quindi – dei vantaggi dovuti all’appartenenza a classi più agiate e/o a più favorevoli relazioni sociali o politiche. Non mi piace l’Europa della sola (e parziale) unificazione monetaria, perché realizza solo in minima parte questi obiettivi, e l’Europa delle inutili superfetazioni burocratiche: quando non riescono a produrre poche grandi e importanti regole, le istituzioni normative e di governo producono molti piccoli e inutili regolamenti, come il leggendario regolamento sul cetriolo – che compie in questi giorni 25 anni! – che stabiliva la curvatura massima ammissibile in Europa per i cetrioli in relazione alla loro lunghezza.
Lei ha accettato l’invito a candidarsi con Scelta Europea. Dal momento che, oltre a Scelta Europea, ne fanno parte forze come FARE per Fermare il Declino che – perlomeno nella sezione giovanile – si esprime favorevolmente riguardo matrimoni e adozioni gay, e anche altri partiti che si mostrano contrari, come il Centro Democratico di Tabacci, non le sembra una compagine forzatamente eterogenea?
La lista “Scelta Europea con Guy Verhofstadt” è la declinazione italiana dell’Alleanza dei Liberali e Democratici Europei, da sempre portatori di valori laici sui temi dei diritti civili. Il fatto che a livello nazionale sia sostenuta anche da forze con valori in parte diversi (come è per certi aspetti il Centro Democratico) non intacca il programma dell’ALDE e di Scelta Europea, né le idee del suo candidato presidente della Commissione, il fiammingo Guy Verhofstadt. Non c’è dubbio, comunque, che tutte le forze presenti nella coalizione, incluso Fare per Fermare il Declino, considerano prioritari, nell’attuale crisi economica che affligge l’Europa ma soprattutto l’Italia e alcuni altri paesi, la svolta nelle politiche economiche, rispetto alle pur sacrosante battaglie a garanzia dei diritti civili.
Lei quindi si identifica nel programma dell’ALDE che parla di “federalismo europeo”. Spesso viene portato come esempio quello degli Stati Uniti d’America. Ma in quel caso vi sono ingenti trasferimenti tra stati in surplus (es. Minnesota) a stati in deficit (es. New Mexico), un debito pubblico federale e una banca centrale quale è la FED che si pone come prestatrice di ultima istanza. Sarebbe favorevole a questa ipotesi anche per lo scenario europeo?
Sì. La “Più Europa” che vogliamo è un’unione non solo monetaria ma – pienamente – un’unione economica e fiscale, oltre che politica. La redistribuzione a favore delle regioni più disagiate dovrebbe sempre più avvenire (come in parte già è) a carico delle regioni più ricche dell’Europa, e non dei paesi in cui tali regioni si trovano, che spesso sono già fra quelli maggiormente arretrati e rischiano così di vedere aumentata la forbice rispetto agli Stati trainanti. Se la fiscalità fosse già europea, per dire, potremmo contare su tasse sensibilmente minori (almeno 5 punti percentuali) per le famiglie e le imprese italiane, e al contempo su una più efficiente redistribuzione, in grado anche di offrire maggiori garanzie contro la distrazione di fondi pubblici a beneficio di partiti corrotti e altre associazioni a delinquere.
Secondo Lei, professore, le cosiddette “politiche di austerity” e di rigore hanno fatto bene all’Europa? Per quale motivo?
I parametri della finanza pubblica europea non sono di per sé particolarmente rigorosi. Lo diventano per quei paesi, come l’Italia, nei quali per decenni la classe politica e larghi strati della società, con un patto scellerato, hanno garantito a se stessi sopravvivenza e indebiti arricchimenti, finanziandoli con il debito pubblico, cioè con i soldi delle generazioni a venire. L’Italia sarebbe da 20 anni in pareggio, se non fosse per gli interessi passivi sul debito pregresso, che creano un circolo vizioso dal quale non riusciamo a uscire. Ma una finanza pubblica equilibrata è oggi un requisito per “stare al mondo” (economicamente parlando), non solo per stare in Europa.
In molti notano una certa ambiguità nell’attuale piattaforma di Forza Italia, che Lei definisce “una sorta di grillismo moderato contro l’euro, la Germania e i trattati europei che lo stesso governo Berlusconi ha siglato”. Come spiega questa ambivalenza? Dovremmo mantenere gli “impegni europei” sottoscritti – come il Six Pack e il Fiscal Compact – anche a fronte di conseguenze recessive e di un costo molto pesante per i conti pubblici italiani?
Il comportamento attuale di Forza Italia ha natura e significato esclusivamente elettorale: grida ciò che gli elettori vogliono sentirsi dire, confidando nella loro cattiva memoria e nella distrazione, che in effetti è notevole e colpevole. Gli impegni per una finanza pubblica finalmente equilibrata (non, quindi, particolarmente rigorosa) sono peraltro una condizione necessaria ma non sufficiente per invertire la crisi. Ma va anche detto che chi non è ancora uscito dalla crisi sono proprio i paesi con la finanza pubblica disastrata, come l’Italia, mentre negli USA e in molti stati UE la ripresa galoppa già da un po’. E la forbice fra noi e loro si allarga.
Alcune forze politiche chiedono l’uscita dell’Italia dall’Eurozona, in quanto la moneta unica sarebbe troppo forte per le economie di paesi come l’Italia e troppo debole per la Germania. Vi sono economisti liberisti che – come Luigi Zingales – invitano a considerare seriamente l’eventualità di un ritorno alle valute nazionali, in un regime di cambi flessibili e ferma restando l’assoluta libertà di movimento dei capitali. Infatti l’Euro sarebbe una “camicia di forza” che, impedendo le “naturali” rivalutazioni della moneta tedesca, continuerebbe ad accentuare gli squilibri tra Nord e Sud Europa. Se non venisse riformato entro pochi mesi, per Zingales all’Italia converrebbe uscirne. Secondo Lei è una tesi fondata? Quali potrebbero essere le conseguenze di un ritorno alla sovranità monetaria nazionale?
Un’uscita dall’euro comporterebbe, per l’Italia, la perdita di potere d’acquisto, la distruzione dei redditi fissi, delle pensioni e dei risparmi, la distruzione del risparmio e segnatamente l’immediata trasformazione dei titoli di stato in carta da pacchi. L’inflazione salirebbe alle stelle, così pure lo spread, gli interessi sul debito pubblico, e si farebbe concreto il rischio default dell’Italia. Le attese e mitizzate “svalutazioni competitive” sarebbero ampiamente compensate, e forse sopravanzate, dai maggiori costi delle importazioni e dell’energia (quasi tutta importata). Gli economisti liberisti dicono una cosa tecnicamente vera ma molto drammatica: i cambi flessibili porterebbero “tecnicamente” un nuovo equilibrio economico-finanziario, il che avverrà, precisamente, quando la ricchezza pro capite degli italiani si sarà abbattuta di circa un terzo (direttamente, quella legata ai redditi fissi; attraverso aggiustamenti del mercato, per tutto il resto). A quel punto i turboliberisti potranno dire: “L’operazione è perfettamente riuscita. Il paziente, purtroppo, è deceduto”.
Se venisse eletto, Lei potrà mettere a disposizione le sue competenze in ambito di trasporti e infrastrutture anche in ambito europeo. Tra le priorità ha inserito quella di una “direttiva europea sui porti che garantisca maggiore autonomia finanziaria alle autorità portuali”, il miglioramento dei collegamenti aeroportuali, la mobilità sostenibile – specie in ambito urbano – e il completamento delle reti transeuropee, con il corridoio Lisbona-Kiev (che comprende anche il discusso TAV Torino-Lione) e quello Genova-Rotterdam, ma anche il raddoppio ferroviario del ponente ligure e il Terzo Valico. Perché secondo Lei è una priorità portare a termine queste grandi opere, anche se la popolazione locale è contraria?
Preciso che, personalmente e in sede tecnica, sono meno convinto di altri della necessità della TAV Torino-Lione, perché ritengo che il “corridoio ferroviario” potrebbe altrettanto utilmente “chiudersi” con l’anello della ferrovia del Ponente ligure, sicuramente da raddoppiare. Sulle altre opere il dissenso delle popolazioni locali è iperminoritario o addirittura inesistente, fatto questo assai significativo, nel paese dei “comitati del NO”. Detto ciò, tutte le opere citate – compresa la Torino-Lione – sono il frutto di un meccanismo di decisione politica fra i più democratici, dibattuti, lunghi, ragionati, valutati – sia tecnicamente che politicamente – che la storia del mondo abbia mai conosciuto. Bisognerebbe partire dalla considerazione che la democrazia non è à la carte, e che quando una decisione politica è assunta con tutte le garanzie, i dibattiti, le valutazioni e le verifiche del caso va rispettata, perché è espressione di una volontà largamente maggioritaria. Fatte queste premesse, la maggiore accessibilità è una delle più efficaci politiche di coesione per qualunque “territorio economico” caratterizzato da forti squilibri di ricchezza, reddito e opportunità, come è il caso dell’Europa. Le opere ferroviarie citate, inoltre, avrebbero l’effetto di un grande beneficio ambientale a parità di traffico, perché spostano traffico dall’autotrasporto (molto più inquinante) al trasporto ferroviario. Infine, l’accessibilità della Liguria, oggi drammaticamente isolata non solo dall’Europa ma persino dal resto del Nord Ovest d’Italia, è determinante per la qualità della vita dei suoi residenti, per le prospettive di crescita dei suoi porti, per l’aumento di opportunità economiche derivanti da un efficace collegamento con Milano, che resta uno dei pochissimi poli trainanti dell’economia italiana, per le prospettive di rivalutazione ambientale, turistica e residenziale dell’area, per la sua possibilità di affermarsi come polo del turismo e dell’economia “pulita” legata alla ricerca e all’innovazione.
Sulla questione TAV, però, non tutti i liberali sembrano concordare. Infatti, un briefing paper dell’Istituto Bruno Leoni, curato dai suoi colleghi Andrea Boitani, Marco Ponti e Francesco Ramella, imposta la questione nei termini di costi/benefici e trae la conclusione che “né le argomentazioni economiche né quelle ambientali a supporto della realizzazione della TAV sembrano dunque reggere alla prova dei fatti”. Un segnale rilevante potrebbe essere dato dal fatto che nessun privato è disposto a finanziare l’opera. Inoltre il gruppo di lavoro stima che “la linea TAV rimarrà quasi deserta a meno che non vengano imposti divieti al trasporto su gomma”, concludendo che “la politica del finanziamento pubblico della ferrovia ai fini del ‘riequilibrio modale’ oltre che inefficace è iniqua – scaricando sul contribuente il costo dell’inquinamento altrui – ed è quindi auspicabile venga abbandonata”. Secondo Lei occorre tener presente questo tipo di obiezioni? Cosa risponderebbe loro?
Il ragionamento sull’equità sarebbe condivisibile solo se, coerentemente, si imputassero al trasportatore su gomma tutti i costi ambientali (inquinamento, rumore, incidenti, morti, cure mediche, congestione) che esso genera, inclusi quelli delle infrastrutture stradali. Così come dovrebbero essere imputati ai concessionari autostradali i costi di costruzione che non hanno sostenuto. A quel punto i potenziali finanziatori-gestori di opere ferroviarie “private” spunterebbero come funghi. Del resto tutti sanno che il terzo valico dei Giovi venne proposto negli anni ’80 da un consorzio privato che chiedeva la costruzione e gestione a costo zero per lo Stato: ipotesi cui le Ferrovie dello Stato erano fortemente contrarie, temendo la concorrenza, e ottenendo un parere conforme dei governi. Ciò detto, è arcinoto che se un sistema di trasporto è inefficace viene accantonato dalla domanda, che sceglie altri itinerari, e a quel punto – effettivamente – la domanda non c’è più. Ma con quali conseguenze? Se i porti liguri resteranno strozzati, il corridoio Genova-Rotterdam diventerà “Pianura Padana – Rotterdam“, le merci prenderanno quella strada, come in parte già fanno, per non parlare della domanda espressa da Svizzera o Baviera. Ed effettivamente non ci sarà più bisogno del terzo valico perché i porti liguri saranno meri scali locali. Genova ha già perso un terzo delle proprie imprese e dei posti di lavoro, ma ci sono spazi per ulteriore declino, disoccupazione e crisi, che qualcuno – di solito i più benestanti, la cui ricchezza non è a rischio – teorizzerà chiamandola decrescita felice.
Lei ha dichiarato che “il centrodestra nelle sue varie denominazioni, ha aumentato le tasse, ha aumentato il debito sia in assoluto che in rapporto al Pil, ci ha legato alla Russia di Putin e ci ha reso i malati d’Europa”. Quindi, a suo avviso, la politica estera di Berlusconi, che tentava di mantenere buoni rapporti, non solo con gli storici alleati nordatlantici ma anche con i paesi dell’area eurasiatica e mediterranea, è stata particolarmente negativa? Non pensa invece che, in questo contesto geopolitico che sta passando dall’unipolarismo nordamericano alla fase multipolare, l’Europa dovrebbe emanciparsi e tessere alleanze autonomamente?
Certo, ma per far questo non è indispensabile stringere alleanze con satrapi mediorentali e tirannelli muscolari del nazionalismo slavo o dell’Asia centrale. Gheddafi Putin non sono esattamente il genere di alleati in grado di sostituirsi credibilmente agli Stati Uniti. Soprattutto quando l’alleanza è fortemente asimmetrica, ed elargisce ingiustificate regalie e concessioni ai nostri interlocutori (come nel caso di Gheddafi) o ci consegna alla dipendenza energetica da paesi a nazionalismo crescente e dichiaratamente ostili all’Europa (Putin).
Anche alla luce delle dichiarazioni di Van Rompuy, il quale ha ammesso che il Parlamento Europeo conta ben poco – in quanto le vere decisioni vengono prese da altre istituzioni come il Consiglio Europeo da lui presieduto e dai mercati finanziari – perché recarsi alle urne alle elezioni europee del 25 maggio e votare Scelta Europea con Guy Verhofstadt – Alleanza Liberali Democratici Europei?
Il Parlamento è l’unica istituzione europea eletta a suffragio universale. Questo è sbagliato, è “l’Europa sbagliata per difetto“, e va considerato un punto di partenza di un’evoluzione verso istituzioni europee realmente democratiche, come noi sosteniamo, a partire dalla proposta di elezione diretta del presidente della Commissione (per questo motivo abbiamo introdotto, simbolicamente, il nome di Verhofstadt nel contrassegno elettorale, a differenza delle altre forze). Ciò detto – e, in un certo senso, a maggior ragione – è importante che il significato del suffragio universale non sia indebolito dalla disaffezione al voto. A chiunque esso vada, naturalmente. Almeno in via di principio. Ma con l’avvertenza che l’astensione o il voto a una forza euroscettica giocano entrambi “contro l’Europa“, mentre chi crede nella costruzione europea, pur se migliorata rispetto all’attuale, ha a disposizione poche scelte, e ovviamente non può esimersi dall’andare a votare.