Roma – Rebibbia, Teatro del Carcere, il Festival dell’Arte Reclusa inscena “Dalla città dolente. Colpa, pene e liberazione attraverso le visioni future dell’Inferno di Dante”. Il regista Fabio Cavalli, coadiuvato dal maestro Franco Moretti per le musiche, ha ricontestualizzato un’inusuale rivisitazione della Divina Commedia in cui gli attori sono i detenuti e la Cantica scelta è l’Inferno.
Dante regala sempre emozioni nuove, perché i suoi versi descrivono i vizi e i peccati della società. Nonostante i secoli passati e lo scorrere del tempo, l’Inferno fa sussultare i nostri animi, basti pensare ai numerosi riadattamenti di Roberto Benigni. Reinterpretare e rendere comprensibile attualizzando la Commedia non è un lavoro di poco conto.
Sul palco, i canti sono stati recitati con uno spirito minimalista e sfumature popolari definite altresì dall’uso dei dialetti dei detenuti.
Durante la presentazione dell’evento è stato evidenziato l’obiettivo della manifestazione: divertire e sensibilizzare all’importanza della cultura e del riscatto sociale per chi trascorre i suoi giorni fra le mura bianche e nude e vorrebbe un’opportunità fuori dalla “gabbia del peccato”.
I detenuti di Rebibbia interpretano l’Inferno di Dante
A giudicare dagli applausi, dalla ilarità e dalla curiosità, il pubblico presente allo spettacolo del 17 dicembre scorso ha apprezzato e tanto il contesto e la sceneggiatura. In scena, difatti, gli attori-detenuti hanno dimostrato che la cultura può riabilitare, può donare un sorriso anche affrontando temi delicati come quelli dei peccati e delle anime dannate dantesche.
I detenuti di Rebibbia hanno realizzato un’interpretazione dell’Inferno di Dante molto particolare. Peccati e peccatori riletti da grandi poeti che hanno tradotto Dante in siciliano, napoletano, calabrese, inglese, spagnolo. Gli attori, in una cornice e un set unico nel suo genere, hanno sviscerato i punti comuni allo status di detenuti, per condividerlo con la platea.
Da Ulisse e Ugolino, fermandosi sul V canto di Paolo e Francesca e su quanto sia costrittivo vivere l’amore “dove è vietato per legge, il carcere, in cui lo si vive solo un’ora a settimana“, il viaggio ha trasportato metaforicamente tutti fuori a riveder le stelle.
“Dalla città dolente” emerge davvero un quadro ben strutturato in cui si evidenzia una visione diversa del carcere: un percorso nuovo e difficile, poetico ed etico, a tratti comico, attraverso la caduta, la pena, il riscatto.
Senza forzature, la regia con molta umiltà ha saputo donare un momento di catarsi, in cui l’immedesimazione dello spettatore è stata debitamente guidata verso le pene dei detenuti, esortando anche ad una call-to-action che dia maggiori opportunità di scelta a chi nell’Inferno ci è finito ma vuole uscirne con tutte le forze.
I due temi che si sono elevati al di sopra dell’evento sono l’importanza della teatroterapia e la cultura nostrana che, spesso, viene relegata ai soli banchi di scuola. Insieme, in quanto italiani e figli del poeta fiorentino, dovremmo capire quante “città dolenti” viviamo ogni giorno e come la cultura potrebbe darci una speranza di salvezza.
Dov’è davvero la “Porta dell’Inferno”?