Ken Robinson e l’educazione scolastica

Pubblicato il 9 Apr 2013 - 4:39pm di Redazione

Cambiare i paradigmi dell’educazione e ripensare il sistema scolastico con Ken Robinson

Ken-RobinsonOggi giorno si sente continuamente riecheggiare, nei nostri media, la litania straziante degli infiniti travagli e tentativi di autodistruzione messi in scena dalla gestione scriteriata della pubblica istruzione. Il mantra recita, non certo senza un fondamento di verità, che il problema cogente è la mancanza di fondi pubblici da destinare alle istituzioni scolastiche in generale e alla scuola pubblica in particolare. Sicuramente la cattiva direzione delle risorse e l’effettiva mancanza delle stesse hanno un ruolo determinante nel processo dissolutivo in atto nel settore educativo, ma non ci convince affatto la tesi che solo di questo si tratti. Quali sono realmente oggi le problematiche della pedagogia e del suo metodo? Urge una riconsiderazione generale ed una critica sistematica dell’intero processo educativo e dei modelli cui esso si ispira. A questo proposito abbiamo pensato di riproporre, l’ancor troppo in-audita lectio magistralis del professor Ken Robinson, riportandone i tratti salienti della ben nota conferenza del 2010 “changing education paradigms”, nella quale Sir Ken Robinson ci parla del pensiero divergente e della necessità di ripensare il sistema scolastico. Ken Robinson esordisce con l’enunciazione del problema fondamentale, mettendo a nudo in poche battute l’inadeguatezza del sistema educativo contemporaneo:

«Molti paesi nel mondo stanno riformando il sistema educativo, per due motivi. Il primo è di carattere economico: come facciamo a educare i nostri studenti e a trovare il loro posto nelle economie del ventunesimo secolo? Ma come si fa a fare questo, se non sappiamo neanche come sarà l’economia, tra due settimane? Il secondo motivo è di carattere culturale. Come facciamo a educare i nostri studenti in modo che abbiano un senso d’identità, in modo da mantenere viva la comunità, e trasmettere un patrimonio culturale, mentre siamo parte di un processo di globalizzazione? Il problema è che si sta cercando di risolvere questi due quesiti, facendo quello che si faceva in passato: alienando milioni di ragazzi che non vedono motivi validi nell’andare a scuola. Quando noi andavamo a scuola, crescevamo con l’idea che se uno lavorava sodo e bene, poi poteva andare all’università, e trovare un buon lavoro; i ragazzi di oggi non credono più a questo modello, e non si sbagliano del tutto. È vero che è meglio avere una laurea, ma questo non garantisce il fatto di trovare un lavoro, specialmente se il percorso per raggiungerlo ti porta a marginalizzare le cose che tu pensi siano importanti. Si parla così di “alzare gli standard”, tutti parlano di “alzare gli standard”, del resto perché bisognerebbe abbassarli?»

Dopo aver individuato il problema, che pur di natura strettamente pedagogica, viene immediatamente ricollocato entro un più ampio quadro sociologico, Ken Robinson continua con l’esplicitazione dell’ontogenesi storica del problema, individuandone le radici nella sostanziale trasformazione socio-culturale degli ultimi due secoli e mezzo e la successiva perdita di coerenza relazionale tra la formulazione del sistema pedagogico di stampo illuministico-protoindustriale —a suo avviso ancora in uso—  e la società contemporanea della globalizzazione.

«Il punto è che il nostro sistema educativo è stato progettato e pensato per un’epoca diversa, è stato sviluppato nella cultura intellettuale dell’illuminismo, e nelle circostanze economiche della prima rivoluzione industriale. Prima del XVIII° secolo non c’erano sistemi di educazione pubblica, al massimo si poteva essere istruiti dai Gesuiti se uno, fortunatamente, aveva i soldi. L’idea di un’educazione pubblica, pagata attraverso le tasse, obbligatoria per tutti e gratuita per chi la riceve, è stata un’idea rivoluzionaria, e molti erano contrari ad essa, dicendo che non era possibile per i figli delle classi lavoratrici beneficiarne, ritenendoli geneticamente incapaci di leggere e scrivere; quindi, perché spendere tempo, su quest’utopia? Si tratta di considerazioni che alla base hanno un’idea precisa della struttura sociale piramidale delle capacità. Il sistema d’istruzione sviluppatosi è stato guidato da un imperativo economico di quell’epoca, e da un modello cognitivo, quello dell’Illuminismo, secondo cui l’intelligenza è basata sul ragionamento deduttivo e sulla conoscenza dei classici, sviluppando così un’abilità ‘di tipo accademico’. E questo è nei ‘geni’ dell’istruzione pubblica, che divide le persone in due tipi di profili: l’accademico e il non accademico, l’intelligente e il non intelligente. La conseguenza è che molte persone brillanti pensano di non esserlo affatto, perché sono state giudicate attraverso questa specifica visione della mente e dell’intelligenza»

Il suo giudizio critico su questo tipo d’impostazione paradigmatica risulta, come si evince, tendenzialmente negativo se viene ad essere tradizionalmente reiterato qua talis, senza le necessarie revisioni, in quanto basato su un concetto esclusivista di intelligenza «accademica», legata al padroneggiamento dei classici, e  foriero di problemi psicologici e sociali di vario tipo.

«A mio avviso questo modello ha causato kaos nella vita di mote persone, per alcuni ha funzionato bene, ma per molti altri no. Coloro che non ne hanno beneficiato hanno sofferto di una malattia che rappresenta la peste moderna: i disturbi dell’attenzione

La pars construens della critica al paradigma educativo prende ora avvio dalla riabilitazione del momento creativo implicito nell’esperienza artistica, la quale è essenzialmente legata ad un godimento estetico profondo e vivificante, che sembra richiamare, mutatis mutandis, l’Eros platonico, passione fondamentale per l’adepto avviatosi sul cammino della conoscenza. L’esperienza estetica è antitetica alla passività anestetica, che nell’acuta analogia di Ken Robinson è assimilata al meccanicismo robotico del modello di produzione industriale, poco stimolante e funzionalmente tendente al conformismo e allo standard.

«Pensiamo un attimo all’arte, la vittima principale di questa mentalità: le arti si focalizzano su quella che viene definita un’esperienza estetica, ossia quell’esperienza in cui tutti i tuoi sensi stanno operando al massimo, in cui tu sei presente nel momento, in cui tu stai ragionando su questa eccitante esperienza che stai vivendo, quando sei totalmente vivo. Anestetico è invece quando spegni i tuoi sensi e perdi il contatto con ciò che sta succedendo: molti farmaci producono questo risultato. Ebbene, stiamo facendo vivere i nostri figli la loro istruzione da anestetizzati. Penso che dovremmo fare l’esatto opposto, non dovremmo metterli a dormire, bensì dovremmo svegliarli, ma il modello che abbiamo è plasmato sugli interessi dell’industrializzazione e sull’immagine di questa. Vi dò qualche esempio: la scuola è organizzata sul modello di una linea di fabbrica: ci sono campane che suonano, spazi divisi per sesso, i bagni, esperti specializzati in diverse materie e gli studenti sono divisi in gruppi basati sull’età. Perché lo facciamo? Perché crediamo che la cosa più importante che i ragazzi hanno in comune sia la loro età. Beh, io conosco molti ragazzi che sono più bravi dei loro compagni in certe materie, o in certi momenti della giornata, o vanno meglio in piccoli gruppi che in grandi gruppi, o semplicemente da soli. Se sei interessato ad un modello educativo non puoi partire dal modello di linea di produzione: è un modello che prevede una crescita standardizzata e conformizzata, come si vede dal crescere dell’utilizzo di test e curricula ‘standard’. Io propongo di andare esattamente nella direzione opposta: questo è quello che per me significa cambiare il paradigma.»

Risulta così completamente esplicitata la tesi dell’inadeguatezza del modello educativo corrente ispirato alla produzione industriale, ora è compito del professore continuare a tracciare la sua linea pedagogica alternativa argomentandola proprio a partire dal ribaltamento del modello criticato, e, a tale pro, egli ricorre alle acquisizioni della psicologia cognitivista sperimentale contemporanea:

«C’è uno studio sul pensiero divergente: il pensiero divergente non è la stessa cosa della creatività. Io definisco la creatività come il processo che genera idee originali che hanno un valore, il pensiero divergente è comunque una capacità essenziale per la creatività: è l’abilità di vedere molteplici risposte ad una medesima domanda. Ci sono dei modi per misurare tutto questo. Ad esempio un test che chiede quanti modi ci sono per utilizzare un fermaglio per la carta. La gente ‘normale’ trova dieci o quindici modi diversi per usarlo. Coloro che utilizzano un pensiero divergente possono trovare addirittura 200 risposte (lo fanno ad esempio chiedendosi: “può essere che il fermaglio per la carta sia alto dieci m e fatto di schiuma di gomma?”). Insomma, non deve essere un fermaglio come lo intendiamo normalmente. Questo test è stato fatto a 1500 persone ed è riportato in un libro che s’intitola breakpoint and beyond ,nel sistema di valutazione di questo libro, se sei sopra un certo valore sei considerato un “genio del pensiero divergente”. La mia domanda è: quante delle persone testate hanno superato questo limite? Preciso che le persone sottoposte al test erano bambini della scuola materna. Ebbene, la percentuale era del 98%! Poiché era uno studio a lungo termine hanno ritestato gli stessi bambini 5 anni dopo, tra gli 8 e i 10 anni e poi di nuovo tra i 13 e i 15 anni. Beh, di solito cominci che non sei molto bravo e poi, crescendo, migliori; invece in questo caso è accaduto esattamente il contrario! Questo studio dimostra quindi due cose, la prima è che tutti abbiamo questa capacità innata e che nella maggior parte dei casi si deteriora. A questi bambini succedono molte cose in dieci anni, ma la cosa principale è: che vanno a scuola! E a scuola gli viene detto che c’è una risposta sola, che si trova alla fine del libro. E che non devono guardare! E tantomeno copiare, perché copiare significa imbrogliare. Invece, fuori dalla scuola, questa è chiamata collaborazione. Ciò accade, non perché gli insegnanti lo vogliono, ma perché è parte del ‘DNA del sistema scolastico’.»

Il focus, come si è ormai capito, è tutto incentrato sulla riabilitazione sistematica e programmatica della creatività, intesa da Ken Robinson come momento educativo e formativo fondamentale dell’antropopoiesi, ossia del farsi dell’uomo tramite la tradizione delle proprie elaborazioni culturali. Quest’auspicata creatività è stimolata sicuramente dall’interazione dialogica implicita nella capacità cooperativa propria del lavoro di gruppo e dell’aggregazione spontanea basata sulla direttiva dell’interesse comune a specifici ambiti di studio e di ricerca, e, in linea generale, sulla progressiva interconnessione delle idee e delle persone. Si tratta quindi di avvalorare un tipo di pensiero, il pensiero divergente, che cresce con lo svilupparsi delle possibilità di connessioni e di combinazioni sempre maggiori, è un tipo di pensiero combinatorio.  Un’ulteriore campana, anche in ambito pedagogico che rintocca contro l’atomizzazione individualistica ed esclusivistica, e a favore della relazionalità comunitaria come fonte innanzitutto di conoscenza.

Conclude dunque il professor Ken Robinson, con un’energica esortazione al cambiamento:

«1- Dobbiamo iniziare a pensare diversamente a proposito delle capacità umane.

2-     Dobbiamo uscire da questo tradizionale modello che divide accademico-non accademico, astratto, teoretico, vocazionale… E vederlo per quello che è, ovvero, una leggenda. Poi, dobbiamo riconoscere che il miglior apprendimento avviene in gruppi e che la collaborazione è un elemento fondamentale della crescita e se atomizziamo le persone, le separiamo, le giudichiamo singolarmente, creiamo una sorta di disgiunzione tra loro e il loro ambiente naturale di apprendimento.

Il terzo punto, è un punto cruciale e riguarda la cultura delle nostre scuole, intesa come abitudini delle istituzioni e degli habitat che occupano:

3-     Bisogna considerare il contesto sociale, politico, economico e culturale in cui esse operano, e poi valutarle.»

Cerchiamo ora di riflettere per un istante su quanto ci vien suggerito dalla critica di Ken Robinson e dalla sua accalorata esortazione ad un rapido cambiamento di rotta.  Il sistema educativo va riadattato alla nuova situazione sociale che si è creata, infatti non può andar più bene un metodo di apprendimento soggettivo che non tenga conto del progressivo aumento della capacità d’interconnessione delle idee, tipico del nostro tempo tecnologicamente ad alto interscambio comunicativo. Il sentiero privilegiato per il raggiungimento di questo scopo è il lavoro di squadra, il teamwork , in cui le singole individualità conoscitive si riconoscono in un gruppo per il quale provano senso di appartenenza; l’identità personale ne esce rafforzata e non alienata, si imparano allo stesso tempo la materia e il metodo, i contenuti e il modo di appropriarsi di quei contenuti, si apprende come apprendere e come insegnare, come aiutare e come farsi aiutare. In questa dinamica dialogica la conoscenza si genera nel campo trascendentale di un’esperienza estetica profonda, e progetta l’individuo nel tessuto allargato dei legami immediati con l’altro e col mondo, mettendolo continuamente a confronto e sottoponendolo immediatamente alla critica altrui. Attraverso questo processo l’ideazione viene stimolata nella forma di pensiero divergente, interconnettivo, capace di dare molteplici soluzioni al problema, in quanto capace di ribaltare il problema o porlo su nuove basi; è un sincero slancio filosofico che spinge a questo continuo ribaltamento: laddove non vi sia amore per il sapere, ma apatia o un esperienza «anestetica», la caduta verso il puro e dogmatico dottrinalismo è a un passo, accompagnata dalla boria dell’intellettuale erudito e infarcito di un pedante apprendimento mnemonico e nozionistico dei classici, ripresi troppo spesso in maniera acritica da questa o da quella tradizione.

Il lavoro di gruppo, per Ken Robinson, deve, inoltre, essere orientato a partire da interessi realmente condivisi dai partecipanti e non imposti loro coattamente, poiché ancora una volta il principio ‘erotico’ dell’interesse è foriero di conoscenza reciproca e di collaborazione sentita. La compartecipazione sinergica a uno scopo comune stimola poi la solidarietà che, meglio dell’antagonismo, può portare ad una reale soluzione dei problemi, che sono tali in quanto condivisi o in quanto comprensibili dagli altri. A nostro avviso non si dà, infatti, un problema che sia propriamente tale se non è condiviso e comunicato tra diversi soggetti. Ad esempio quando diciamo: -“ ho un problema!”- esso comincia il suo cammino generativo nel momento in cui viene esternato, comunicato, tramandato e, di conseguenza, trova le sue possibilità di soluzione nelle menti pensanti dei diversi soggetti che recepiscono ed elaborano il suddetto problema (o l’immagine che di esso ha ciascuno dei fruitori). Questo rende, inoltre, i problemi uno dei fattori di scambio più comuni nell’elaborazione sociale dei significati culturali.

Infine, come ci suggerisce Ken Robinson nel terzo punto conclusivo, la scuola, come ambiente educativo, non può essere scollegata dal contesto all’interno del quale è collocata. Questo perché l’educazione trascende le mura scolastiche, e l’istituzione di una scuola pubblica è solo, hic et nunc, il quadro privilegiato dell’educazione dei cittadini! Come ci insegnano i greci, la paideia è qualcosa di molto più esteso e la tradizione culturale passa anche attraverso canali di comunicazione sociale esterni alla dimensione pedagogica, ma sempre interni alla dimensione comunitaria. Questo significa che i nostri problemi extrascolastici (lavoro in nero, precariato, industria del divertimento e del consumo che va dalla Tv ai videogiochi alla corsa all’ultimo modello, all’ultimo aggiornamento, all’ultimo social network, agli sballi delle discoteche, ecc. ecc..)  si riversano su quelli scolastici (incapacità discorsiva, disgrafia, problemi di concentrazione, problemi a relazionarsi, incostanza negli impegni ecc..). Uno dei pregi dell’approccio di Ken Robinson al problema, che non esito a definire a suo modo olistico, è proprio che ci fa rendere conto che tutti ne siamo in qualche modo colpiti. Il punto è, allora, lavorare a delle soluzioni per invertire la tendenza. E se ci lavoriamo tutt’insieme, saremo più in grado di sfaccettare ed interfacciare il problema e di trovarne delle soluzioni. Il lavoro di squadra va oggi, dunque, espropriato alla sfera privata e riportato nella dimensione pubblica, a partire dalle scuole.

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6 Commenti finora. Sentitevi liberi di unirsi a questa conversazione.

  1. Nicola Scipione 12 Giugno 2013 at 22:37 - Reply

    Sono d’accordo su necessità di aggiornare la scuola ma i
    “paradgmi” non devono restare teoria poco comprensibile ai più.
    Occorrono idee concrete che possono anche costituire un “paradigma” , cioè un elenco di cose da fare . Se qualcuno fa quest’ elenco lo pubblicherò su http://www.interventi.com, con un ovvio commento. Diversamente si può fare la fine dei grillini.
    In attesa saluto.
    Nicola

  2. f.cangemi 12 Luglio 2015 at 17:48 - Reply

    sono sulla stessa linea del NOSTRO cioe dare nad ognuso la loro risposta

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