Stefano Rodotà proposto dal M5S alla Presidenza della Repubblica.
Effetto Rodotà. La “trappola Grasso al contrario”, di cui parlava Paolo Becchi nell’intervista rilasciata in esclusiva per Corretta Informazione una decina di giorni fa, sembra mostrare la sua efficacia.
La giornalista d’inchiesta Milena Gabanelli, la più votata nelle “Quirinarie” a cinque stelle, dopo averci riflettuto una giornata intera, non se l’è sentita di accettare la candidatura al Colle e ha motivato la propria decisione in una lettera al Corriere della Sera. Poiché anche Gino Strada, risultato secondo, aveva rifiutato la proposta, la sfida è stata accolta da Stefano Rodotà, che si era classificato subito dopo di loro in queste consultazioni online, espressione del centralismo democratico 2.0, una delle novità introdotte dal M5S. È stato Beppe Grillo stesso, alle 17.25 di ieri, a ufficializzare il tutto: «Ho chiamato Rodotà che ha accettato e sarà il candidato votato dal M5S».
Se sul nome della Gabanelli sussistevano alcune titubanze, principalmente per la mancanza di esperienza diretta nelle istituzioni, su Rodotà è più difficile eccepire obiezioni di questo tipo. Certo, qualcuno potrebbe rimproverargli una “legge sulla privacy”, la famosa 675/96, che forse non era delle migliori (dal 2003 soppiantata da un nuovo Codice), oppure qualcun altro potrebbe non trovarsi d’accordo su certe dichiarazioni in merito ai “temi etici”, tuttavia nessuno mette seriamente in dubbio la fedeltà alla Carta costituzionale, l’onestà mostrata negli incarichi affidatigli e le competenze giuridiche del professore. A onor del vero, uno dei pochi che non lo sopportavano era il defunto Cossiga, che giunse a definire Rodotà «leader del proletariato mondiale, campione imperituro del marxismo-leninismo» e «piccolo arrampicatore sociale». Tali dichiarazioni risalgono, però, al periodo in cui l’ex Presidente della Repubblica non esitava a «togliersi i sassolini dalle scarpe», ossia a insultare tutti coloro che non fossero allineati alle sue posizioni, tanto da creare numerosi conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato. La risposta del professore in quel caso fu memorabile: «propongo a Cossiga un accordo: lui smette di dire falsità sul mio conto, e io smetto di dire verità sul suo».
Stefano Rodotà è un insigne giurista, ma non privo di esperienze parlamentari. Prima radicale, poi eletto come indipendente di sinistra nel 1979, nel 1983 e nel 1987, fece parte della Commissione Affari Costituzionali, durante le prime due legislature, e della Bicamerale per le riforme, al terzo mandato. Divenne poi europarlamentare e “ministro ombra” della Giustizia con Achille Occhetto, restando suo fianco iscrivendosi al PDS. Nel 1992, eletto per la quarta volta, divenne Vicepresidente della Camera dei Deputati. In seguito preferirà dedicarsi all’insegnamento universitario, che non gli impedirà tuttavia di ricoprire incarichi di prestigio: membro del Gruppo europeo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie dal 1993 al 2005, Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali dal 1997 al 2005; nel 2000 divenne Presidente del Gruppo dei garanti europei (per quattro anni) e membro della Convenzione per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Pur essendo stato parlamentare, Rodotà viene considerato “al di fuori della casta”, anche perché i suoi interventi per i diritti civili, per la libertà di informazione, per il diritto all’accesso universale ad Internet e per la tutela dei beni pubblici, sono accolti come autorevoli. Qualche mese fa, commentando il risultato delle ultime elezioni, ha osservato: «La coalizione progressista ha la maggioranza alla Camera ed è il primo raggruppamento al Senato. Da questo non si può prescindere. Il voto ci consegna altre due indicazioni: la vittoria di 5 Stelle e il netto rifiuto dell’agenda Monti». E ancora: «Più che il trionfo dell’anti-politica, io vedo nel voto una forte richiesta di altra politica». Un atteggiamento rispettoso nei confronti del MoVimento 5 Stelle, che ieri ha voluto riporre in lui le speranze per la Presidenza della Repubblica.
Nel frattempo, nel pomeriggio di ieri si sono intensificati i contatti tra PD, Scelta Civica e PDL alla ricerca di un «nome condiviso». Berlusconi voleva assolutamente delle «garanzie» per un «Capo dello Stato imparziale». Verso le ore 16 è uscita fuori una lista, consegnata al PDL da Bersani, in cui comparivano Giuliano Amato, Franco Marini e Massimo D’Alema, quest’ultimo sfilatosi già due giorni fa per «non dividere» il Partito Democratico. Silvio Berlusconi ha quindi voluto incontrare Amato che, a dispetto del nome, è amato ben poco, grazie ad un prestito forzoso che, dopo vent’anni, non è ancora andato giù agli italiani. Amato forse poteva essere una scelta “condivisa” dai due partiti, ma di certo altamente impopolare, anche all’interno della Lega Nord, che ha posto il veto sulla sua candidatura. Qualche ora dopo, alle 18.45 circa, si è aggiunta l’ipotesi di un accordo su Sergio Mattarella, anch’egli ricevuto dal Cavaliere, ma non molto gradito a causa delle battaglie sulla Legge Mammì che andava ad intaccare gli interessi di Mediaset. Hic stantibus rebus, stando così le cose, della rosa di nomi proposta dal PD è rimasto solo Franco Marini, considerato dal PDL un male minore, se raffrontato «a Rodotà, o peggio a Prodi». Ad orchestrare l’operazione pare siano stati Gianni Letta, anche lui abruzzese come Marini, Angelino Alfano, Maurizio Lupi e l’anima “democristiana” del PDL.
In cambio, si vocifera, di un governo di larghe intese, a guida Bersani o D’Alema, con alcuni ministeri da assicurare al Popolo della Libertà: Sviluppo Economico, Infrastrutture, e soprattutto Giustizia, quello che sta più a cuore a Berlusconi. La Lega Nord ha sciolto le riserve solo stamattina prima del voto, decidendo di non presentare un candidato proprio, ma di sostenere Marini; hanno fatto altrettanto Scelta Civica e Fratelli d’Italia.
Ma l’attenzione si focalizza sul Partito Democratico, che ieri in cui una mozione che investe Franco Marini vede 222 voti favorevoli e 90 contrari, oltre ad una trentina di astenuti. I malumori interni non vengono solo da Renzi e dai “rottamatori”, ma anche dai più vicini al segretario Bersani, che se ipotizzano una convergenza, questa dovrebbe essere con il M5S e mai con il PDL di Berlusconi. Ad esempio, il deputato Lorenzo Basso, segretario del PD ligure, dichiara: «è la prima volta in questi tre anni che non sostengo la posizione di Bersani», che ha rappresentato una «forzatura nel merito e nel metodo», anche se il suo voto contrario «è stato un atto davvero sofferto». Sulla Rete è rivolta, soprattutto tra i giovani elettori democratici. C’è chi preferisce ironizzare, augurandosi che Marini abbia come nome Valeria, molti minacciano di non votare mai più il PD, quasi tutti parlano di «presidente dell’inciucio» e di «suicidio voluto».
Le voci critiche si fanno sentire, eccome, anche nella piazza antistante al teatro Capranica, sede della riunione dei vertici del Partito Democratico, dove ieri sera è sorta una manifestazione spontanea dei militanti che invitavano a sostenere Rodotà. «Ro-do-tà, Ro-do-tà, Ro-do-tà!» – hanno continuato a scandire per tutta la giornata di oggi più di 200 cittadini accorsi al presidio in Piazza Montecitorio. Nella piazza virtuale, invece, è nata l’iniziativa che sollecita ad inviare agli indirizzi email dei parlamentari del centrosinistra eletti nella XVII legislatura un appello a favore del giurista. Ad essi si associa anche quello firmato da Remo Bodei, Dario Fo, Carlo Petrini, Paolo Flores d’Arcais e Roberta De Monticelli.
Rodotà ha quindi un supporto molto ampio – ben al di là del M5S e di SEL – che comprende anche le forze di sinistra non rappresentate in parlamento e molti elettori del Partito Democratico. Insomma, l’area dei “beni comuni”, quella dei referendum del 2011 per l’acqua pubblica, che erano stati elaborati e promossi proprio da Rodotà. Il quale stamattina ha sottolineato questo aspetto: «Mi sono chiesto anch’io perché sono stato candidato al Quirinale dalla Rete. Negli ultimi due anni sono andato pochissimo in tv, ma mi sono occupato del referendum sull’acqua pubblica, un tema molto discusso in rete». Nel 2011 la maggioranza degli italiani si recò alle urne per votare a favore dell’abrogazione della gestione obbligatoria a soggetti privati di servizi pubblici, tra cui quello idrico, sancendo la vittoria del comitato referendario per i beni comuni. In tale occasione, il PD, salvo qualche isolato distinguo, appoggiò la causa in extremis per salire sul carro del vincitore, salvo poi esitare nella piena applicazione del risultato elettorale.
Oggi, invece, il Partito Democratico sembra perseverare nel proporre Franco Marini al Colle, ma le scollature interne si stanno facendo sempre più numerose, sia tra vertice e base, sia all’interno della dirigenza stessa. Alla prima votazione Marini ha ottenuto 521 preferenze, contro le 240 di Rodotà. Tra i tanti voti andati dispersi, ne risulta uno anche per la “Valeriona nazionale”. Il quorum necessario era di 672 voti, ma si abbasserà a 504 a partire dalla quarta chiama, prevista per domani pomeriggio. Alcuni, come ad esempio il sindaco di Bari, Michele Emiliano, hanno invocato le dimissioni di Bersani; leggermente più cauti Matteo Orfini e Walter Veltroni, che chiedono comunque un’alternativa a Marini.
Fatto sta che il MoVimento 5 Stelle è riuscito a proporre un nome sul quale è «possibile creare un consenso trasversale anche da parte delle altre forze politiche, ossia una “trappola Grasso” al contrario», quello che ora viene già battezzato “effetto Rodotà”, proprio come si augurava . Il PD si è trovato di fronte ad un’alternativa : sostenere il candidato del M5S oppure no? Sappiamo che ha scelto la seconda strada e che, per ora, gli effetti sono catastrofici.
Forse il PD è ancora in tempo per prevenire ulteriori ferite che sarebbero difficilmente rimarginabili. O forse no.