Svolgiamo un breve viaggio attraverso le varie riforme e finalità della scuola del passato per riflettere meglio sul significato e sulle prospettive di quella attuale.
La scuola ai tempi degli antichi greci
Nella Grecia ionica (XV-XIII sec. a.C) soltanto gli scribi sapevano scrivere e contare, e ad essi si affidavano anche i mercanti che commerciavano oggetti in bronzo. Con l’affermarsi della polis , Solone (VII-VI sec. a.C) creò una prima costituzione ateniese, che comunque escludeva dal diritto all’istruzione schiavi, liberti e persone di origine non ateniese (anche Aristotele, essendo macedone, rientrava in questa ultima categoria, tuttavia studiò lo stesso ad Atene presso Platone e divenne poi precettore di Alessandro Magno). Nel V secolo a. C. anche il popolo e la piccola borghesia vengono alfabetizzati, e questo lo dimostra il fatto che erano in grado di scrivere su un coccio il nome di un potenziale tiranno da esiliare (ostracismo). Grandi personalità come Pericle e Sofocle erano comunque istruiti in maniera rudimentale, proprio per via della loro umile estrazione sociale. I giovani aristocratici invece venivano introdotti, oltre che alla grammatica, anche alla retorica ed alla dialettica, poichè si riteneva che queste discipline,in un clima sempre più democratico, fossero un’arma per difendere dei privilegi acquisiti sin dalla nascita. Se Platone parlava di ‘predestinazione sociale’ (ovvero riteneva che non servisse studiare per intraprendere dei lavori manuali che si tramandavano di padre in figlio) Socrate invece parlava di maieutica, ovvero pensava che un maestro fosse come una sorta di metaforica levatrice che, basandosi su un paritario metodo dialogico, potesse tirare fuori da ognuno una personale verità, ed anche sviluppare un prezioso senso critico. Socrate, al contrario dei sofisti, non si faceva retribuire per il suo insegnamento (egli stesso non si riteneva un insegnante nel vero senso del termine) e per questo, essendo accessibile a giovani di qualsiasi classe sociale, venne osteggiato dalla classe dominante.
A Sparta i giovani venivano invece avviati fin da piccoli all’uso delle armi, e sottoposti ad una rigorosa disciplina. L’aristocrazia spartana pensava comunque che l’istruzione dovesse essere rivolta ad ogni cittadino, sia ricco che povero, ed ognuno, raggiunta una certa età, potesse insegnare a sua volta. Tuttavia, arti che ad Atene erano ritenute nobili (come il canto, la musica, la danza) a Sparta non servivano per formare un futuro guerriero (perfino le ragazze, prima del matrimonio, erano sottoposte ad esercizi fisici ed a prove di coraggio).
La scuola ai tempi degli antichi romani
Nell’antica Roma la madre affidava il figlio, a partire dall’età di sette anni, al marito, ovvero al pater familias. Quest’ultimo iniziava poi a portare il bimbo (a seconda della sua futura occupazione) nei campi, al mercato, al foro oppure al senato. A sedici anni il rampollo patrizio indossava la toga purpurea, ed a diciassette quella virile, il che significava che era ormai un cittadino a tutti gli effetti, e quindi idoneo per iniziare una sorta di tirocinio sia in campo civico (imparando le leggi fondamentali) che militare. Le famiglie nobili di solito assumevano un precettore, che era generalmente uno schiavo greco istruito, oppure mandavano i figli a scuola, dove c’erano maestri che venivano retribuiti in denaro dalle famiglie. Il fatto che Quintiliano (40 – 96) fosse un professore di retorica stipendiato dallo stato ci fa comprendere che nel primo secolo dopo Cristo la scuola pubblica era già diventata gratuita. Stando a testimonianze come quella del poeta latino Orazio (65 a.C – 8 a.C), gli insegnanti erano molto severi ed intransigenti, e trasmettevano anche valori etici e morali, come il senso del dovere (pietas), la lealtà (fides), la serietà (gravitas), la fermezza (costantia), la grandezza d’animo (magnanimitas), l’operosità (industria) . La scuola aveva comunque tre cicli (ludus, grammaticus e rethor). Il livello elementare serviva a scrivere, a leggere ed a contare, il livello medio si dedicava alla lettura di scrittori greci e latini (nonchè alle prime nozioni di storia, geografia, astronomia e fisica) ed il livello superiore all’ eloquenza ed anche alla filosofia, alla medicina, alla matematica ed alla medicina. Chi finiva gli studi solitamente ampliava le sue conoscenze in Grecia, ovvero in importanti centri culturali come Atene, Rodi ed Alessandria d’Egitto. L’imperatore Augusto (63 a.C. -14 d.C.) fece costruire la prima biblioteca con opere in latino.
La scuola nel medioevo
Durante il medioevo la carriera ecclesiastica garantiva, oltre ad una promozione sociale, anche una formazione culturale, che comunque non giungeva a livelli eccelsi nemmeno per gli insegnanti (le scuole-monasteri, come ad esempio quella dei benedettini, erano soprattutto volte ad alfabetizzare la classe contadina). Nelle scuole carolinge i novizi studiavano le arti liberali, vale a dire il trivio (grammatica, retorica, dialettica) ed il quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). Soltanto figure di formazione aristotelica, come ad esempio Tommaso D’Aquino, rendevano possibile un serio studio della scienza senza venir meno al dogmatismo religioso. I monaci erano comunque di gran lunga più istruiti dei giovani cavalieri, che si dedicavano prevalentemente alle armi con tornei, guerre e crociate. Allo stesso tempo, i cavalieri disprezzavano tutto ciò che era connesso al commercio ed all’artigianato, quindi il feudalesimo declina con la nascita della borghesia, che si organizza in corporazioni di ‘arti e mestieri’ e che ha il suo fulcro produttivo nelle città. I giovani bottegai svolgevano degli apprendistati che non si limitavano alla trasmissione delle conoscenze da padre in figlio, ma si avvalevano di veri e propri maestri che introducevano anche elementi innovativi e competitivi.
Nel XII e XIII secolo venivano definite università delle associazioni che erano formate da diverse corporazioni, poi le arti meccaniche (come tessitura o concia delle pellicce) si misero da parte per dare spazio a studi che si riconducevano alle arti liberali, e che erano quindi volti a formare giudici, notai, medici e speziali. Per accedere alle università bastava sapere il latino e poter mantenersi agli studi, quindi non si doveva necessariamente essere ecclesiastici, anche se era comunque il vescovo che dava la ‘licentia docendi’. Le prime università medioevali erano quindi gestite dagli stessi studenti (generalmente borghesi) che eleggevano il magnifico rettore e che facevano sottoscrivere ai professori dei contratti vincolanti.
Teniamo comunque conto del fatto che le prime università in assoluto, contrariamente a quel che generalmente si pensa, sono nate prima del medioevo. L’università di Parma sorse nel 962 per decreto imperiale di Ottone I al vescovo della città, ed era destinata a formare i futuri notai. Prima di essa era già nata soltanto la marocchina Al Qarawiyyin nell’ 859, situata a Fez, e riconosciuta anche dall’Unesco come ‘la più antica università del mondo’ (questa istituzione venne fondata da Fatima Al-Fihriya, la figlia di un ricco mercante). L’università di Bologna è invece la prima università che comparve in epoca medioevale, poichè risale al 1088, precedendo in antichità la prestigiosa Oxford University del 1096 e la parigina Sorbona del 1170. La prima e più importante istituzione medica fu invece la scuola medica salernitana, che risale all’ XI secolo. A questa università sono legate leggende popolari tramandate da menestrelli nord-europei, come quella che venne ripresa da Longfellow nell’ Ottocento e che parla di come il malato principe Enrico di Germania si fosse recato dai medici salernitani prima di venir graziato da San Matteo.
Nel XIII secolo nacquero le prime scuole laiche, che anche se erano a pagamento erano molto frequentate, come attesta la figura del ‘ripetitore’, ovvero di un secondo maestro che affiancava quello ‘principale’ in aula. Le scuole laiche avevano due indirizzi: abaco e grammatica. La parola’abaco’ derivava da delle tavolette cosparse di sabbia o di cera che venivano usate fin dai tempi dei fenici per fare semplici calcoli, oppure anche dagli antichi ‘pallottolieri’ che in epoca romana, ad esempio, erano delle speci di telai su cui scorrevano anelli, medaglie o bottoni. La scuola d’abaco serviva quindi ad insegnare aritmetica a coloro che volevano diventare commercianti, e si avvaleva non dei numeri romani, ma già dei nostri numeri ‘arabi’, che in realtà nacquero in India e furono importati in Europa nel X secolo da studiosi nord-africani. La scuola di grammatica si basava invece prevalentemente sullo studio del latino e sulla lettura di autori contemporanei, e quindi andava ben oltre la semplice alfabetizzazione.
Il rinascimento e le scuole umanistiche
L’impostazione abaco/grammatica delle scuole laiche perdura anche in epoca rinascimentale, come attesta il fatto che lo scrittore Niccolò Machiavelli, ad esempio, le frequentò entrambe in due diverse fasi della sua vita. Lo scrittore Castiglione, nel suo Cortigiano, ci fa invece apprendere come anche ad un ‘uom di guerra’ si convenga essere ‘letterato’, quindi tramonta quell’idea medioevale che precludeva l’istruzione a chi si dedicava alle armi. In questa epoca vengono riscoperti i classici, quindi nelle scuole di grammatica si leggono anche oratori come Cicerone e Quintiliano, oppure altri autori latini come Cesare, Sallustio,Valerio Massimo.
Nel Rinascimento nascono poi le scuole umanistiche, delle quali un esempio è dato dalla mantovana ‘Ca Zoiosa’ (casa gioiosa), che nel 1423 la corte dei Gonzaga (esattamente Gian Francesco I) mise a disposizione dell’educatore Vittorino da Feltre, che ne ricavò uno dei primi esempi di scuola-convitto, dove i candidati erano scelti non in base alla casata, bensì al merito. L’edificio era immerso nella natura, quindi si dava importanza anche ad esercizi ginnici svolti all’aperto, che si integravano ad una disciplina fatta studio, preghiera e meditazione. L’educazione si basava su valori come il rispetto reciproco, ed erano banditi sia puri nozionismi che punizioni corporali. Accanto a materie ‘tradizionali’ come il latino, la retorica, la matematica e la filosofia si studiava la musica, il canto, il disegno, il greco classico.
A partire dal Quattrocento la chiesa, sentendosi estromessa, volle riprendere in mano le redini dell’istruzione. Questo avvenne anche perchè si volevano contrastare i vari movimenti eretici, come ad esempio quello dei Valdesi, che avevano fondato scuole proprie destinate alla formazione dei predicatori, e che si incentravano sulla lettura di testi biblici in volgare (non a caso, queste versioni dal latino verranno bandite da Papa Paolo IV nel 1555). Tradurre la Bibbia (come aveva fatto anche Lutero) significava non solo renderla più accessibile al popolo, che ne traeva personali interpretazioni, ma anche rischiare di esportare le idee eretiche in altri paesi. Pietro Paolo Vergerio (1498-1565) ad esempio, era un vescovo che si convertì al luteranesimo, e che fece stampare il Vangelo di San Matteo in sloveno). Anche il primo libro illustrato per l’infanzia si deve ad un pedagogo luterano, il cecoslovacco Giovanni Amos Comenio (1592-1670).
La scuola della ‘controriforma’ gesuita
Nel contrastare la riforma luterana la parte da leone l’ebbero i gesuiti, che fondarono dei collegi. Il primo collegio gesuita nacque a Messina nel 1548 ed era indirizzato a ragazzi già alfabetizzati dei ceti medi e superiori. I gesuiti avevano un marchio vagamente snobistico ed elitario, con lezioni svolte in latino ed allievi indirizzati alla carriera ecclesiastica. Il collegio romano era un istituto superiore gesuita che venne istituito nel 1551 dallo spagnolo Ignazio di Loyola, il santo rimasto famoso per i suoi esercizi spirituali e fondatore dello stesso ordine gesuita, che si chiamava ‘Compagnia di Gesù’. Nella chiesa a Roma a lui dedicata vi è un affresco sul soffitto di grande valore prospettico, La gloria di Sant’Ignazio (1685) dipinto da Andrea Pozzo. Il santo (illuminato da una luce che giunge dal costato di Cristo) è circondato da quattro figure allegoriche che rappresentano i quattro continenti allora conosciuti, proprio per illustrare il valore missionario della sua opera sacerdotale. Il collegio romano (che attualmente è sede sia del liceo Visconti che del ministero dei beni culturali) contava 1500 allievi ed offriva corsi di logica, filosofia, teologia, ebraico. Dal piano di studi standard (‘ratio studiorum’) del 1559 si evince che l’istruzione ‘classica’ gesuita si basava su nozionismo, disciplina e meritocrazia.
Dal momento che i gesuiti si occupavano dei ragazzi più benestanti, altri ordini pensarono ad alfabetizzare i ceti popolari. Per strappare allievi alle scuole laiche, si fece leva sul lato economico della questione. Lo spagnolo Giuseppe Colasanzio, fondatore dell’ordine dei piaristi, fu il primo in Europa ad offrire un’istruzione del tutto gratuita. La prima scuola pia nacque a Roma nel 1597, nella chiesa di Santa Dorotea a Trastevere. Gli alunni imparavano a scrivere, a leggere ed a cantare senza dover per forza apprendere il latino e senza dover gravare sul bilancio familiare. Ben presto anche altri ordini come barnabiti, somaschi, orsoline e teatini iniziarono ad interessarsi all’istruzione.
La ribellione ‘laica’ dei principati settecenteschi e l’influsso della rivoluzione francese
Nel Settecento ogni principato italiano volle darsi autonome disposizioni in materia d’istruzione, e con la bolla del 21 luglio 1773 il Papa Clemente XIV, in seguito a forti pressioni, dovette annunciare la soppressione dell’ordine gesuita e la chiusura dei relativi collegi. L’espulsione dei gesuiti fu una questione complessa, che si ricollega non solo al loro dominio in campo scolastico ma anche all’influenza che esercitavano a livello politico ed economico. L’ordine aveva infatti accumulato molte ricchezze, ed i suoi interessi erano strettamente correlati a quelli dello stato pontificio. I gesuiti si erano poi molto espansi a livello geografico, giungendo con la loro opera missionaria anche nelle colonie spagnole, portoghesi e francesi. Erano presenti a Malta, che era uno stato vassallo del regno delle Due Sicilie, e giunsero perfino in Russia, dove grazie alla zarina Caterina rimandarono il loro esilio fino al 1820. Il regno di Napoli, che era governato dagli spagnoli Borboni, fu il primo a bandire i gesuiti dalla nostra penisola, ed il ducato di Parma, che era sempre una corte borbonica, confiscò tutti i loro beni prima di cacciarli via con una tale veemenza che fece intervenire in loro soccorso lo stesso Papa. I gesuiti vennero espulsi anche dall’ Austria, dove Maria Teresa, seppur fosse una fervente cattolica e fosse stata da loro stessi istruita, si fece convincere dai suoi consiglieri che l’ordine rappresentava una minaccia per il colosso asburgico. Maria Teresa, per inciso, fu la prima ad istituire scuole per insegnanti (Normalschulen) e questa sua idea ispirò il padre somasco Francesco Soave, che nel 1788 fondò a Milano la prima scuola pubblica di metodo.
In Francia i gesuiti vennero addirittura coinvolti in un processo per frode, un’accusa caldeggiata dal clero secolare ed anche dalla corte di re Luigi XV. Tuttavia la Francia non agiva tanto in nome del re, quanto in nome degli ideali rivoluzionari. Nicholas de Condorcet, ad esempio, fu un ribelle che si occupò anche del tema dell’ istruzione e che voleva una scuola non solo pubblica, obbligatoria e gratuita, ma anche aliena da ogni forma di discriminazione. Seguace di Rousseau, Condorcet credeva alla libertà ed alla bontà naturale dell’uomo e voleva quindi combattere ogni insegnamento di stampo medioevale che suscitava paure ed imprigionava l’anima con l’introversione e sensi di colpa.
Questo filone di pensiero settecentesco, che sulla scia kantiana pone fiducia nel miglioramento della natura umana, si sviluppa con lo svizzero J. H. Pestalozzi (1746-1827), un pedagogo che dava molta importanza all’affettività, e poneva l’ambiente e la vicinanza familiare come presupposto fondamentale per una buona istruzione. Friedrich Frobel (1782-1852) fu un altro educatore che creò l’idea del Kindergarten, ovvero del giardino d’infanzia che pone il gioco all’aperto, e quindi l’elemento ludico a contatto con la natura, come presupposto iniziale e fondamentale per stimolare le potenzialità conoscitive del bambino.
L’ ‘elite’ del liceo classico durante l’Unità d’Italia (legge Casati e legge Coppino)
Il Settecento aveva quindi posto le basi per un’educazione liberale, che tuttavia nel corso dell’Ottocento si sviluppa in una direzione tutt’altro che egualitaria.
I licei sorgono in Francia nel 1802, affiancandosi ai ginnasi austriaci, e diverranno i protagonisti principali della legge Casati, varata poco prima della nascita del regno d’Italia nel 1861. Gabrio Casati fu ministro della pubblica istruzione durante il governo Cavour, e le sue disposizioni in materia scolastica erano formate da ben 380 articoli. Con Casati, per la prima volta nel nostro paese, si verifica la storica spaccatura fra liceo e scuola tecnica. Dopo quattro anni di scuola elementare (obbligatoria e gratuita per il primo biennio) si poteva accedere a cinque anni di ginnasio (col naturale sbocco nel liceo per altri tre anni) oppure al triennio della scuola tecnica, a cui sarebbero per forza seguiti altri tre anni di istituto tecnico. Se il ginnasio (competente ai comuni) era a pagamento, la scuola tecnica (competente allo stato) era gratuita, e da qui derivava una logica esclusione dei ceti meno abbienti dalla frequentazione del ginnasio. L’obiettivo di questa legge era quindi quello di creare un ceto medio ed un sistema elitario che corrispondeva ai frequentatori del liceo. Quest’ultimo aveva come unico indirizzo quello classico, quindi la formazione umanistica-filosofica doveva prevalere ed aver maggior prestigio di quella legata al mondo della produzione e dell’economia. La nascita della facoltà universitaria di lettere e filosofia coincide con la legge Casati, e si aggiunge a teologia, legge e medicina. Va comunque detto che anche i diplomati tecnici avevano accesso ad una facoltà universitaria, che era quella di scienze fisiche matematiche e naturali (con annessa scuola di ingegneria). Se le scuole tecniche rimasero soltanto maschili, dal 1874 le ragazze potranno invece accedere ai licei ed alle relative facoltà universitarie. Il libro di Edmondo De Amicis Cuore (1886) descrive, in forma di diario, le vicende di uno scolaro torinese durante la legge Casati, che mirava non solo a riformare i cicli scolastici, ma anche ad esaltare le virtù ‘azegliane’ che erano capisaldi nel regno di Umberto I di Savoia, come il rispetto per le autorità, l’eroismo patriottico, lo spirito di sacrificio.
Michele Coppino fu invece ministro dell’istruzione durante il governo De Pretis, il quale fu capo della sinistra storica ed anche fautore del trasformismo, un progetto che si batteva per ideali progressisti a prescindere dallo schieramento politico. La legge Coppino del 1877 (a cui contribuì anche il pedagogista Aristide Gabelli) rese i quattro anni della scuola elementare obbligatori, gratuiti e laici. Pertanto, Coppino introdusse lo studio dell’educazione civica al posto del catechismo e poi stabilì provvedimenti legali per i genitori che non mandavano i figli a scuola.
La legge Gentile ed il ventennio fascista
Alla fine della prima guerra mondiale l’Italia era un paese impoverito sia nei corpi che nelle anime, e con un alto tasso di analfabetismo (nel 1921 il venticinque per cento dei ragazzi non sapeva nè leggere nè scrivere). Casati aveva voluto creare una sorta di elite classista che masticava lettere e filosofia, laddove i ragazzi erano invece reduci da lezioni in cui si parlava di trincee, di ospedali da campo, di aerei militari e di quel Carso sul quale un sacrificale fiume di sangue accomunava il destino di padri, fratelli, zii e cugini.
Nel 1923 divenne ministro il filosofo Giovanni Gentile, il quale venne assassinato poichè facente parte del governo Mussolini, anche se quest’ultimo soltanto dopo il 1925, ovvero dopo il delitto Matteotti, iniziò ad intromettersi in campo scolastico. La legge Gentile stabilì che prima dei quattordici anni non si potesse lasciare la scuola. La scuola elementare gentiliana era divisa in 3+2 anni (inferiore e superiore), e dopo si continuava per il ginnasio (3+2 anni, inferiore e superiore). Il ginnasio dava l’accesso al liceo (classico, scientifico, femminile). In alternativa al liceo c’era l’istituto tecnico (che dava accesso alla facoltà di agraria e di economia) oppure l’istituto magistrale (che proseguiva per la facoltà di magistero). La maturità classica era comunque l’unica che dava accesso a tutte le facoltà universitarie. Per fare il liceo artistico (che era a numero chiuso) bisognava invece non frequentare il ginnasio ma le scuole d’arte, e poi proseguire, dopo la maturità, per l’accademia delle belle arti o per la facoltà di architettura. Un’altra alternativa al ginnasio era la scuola complementare, che durava tre anni, che non prevedeva lo spesso odiato studio del latino, e che al suo termine stabiliva un obbligato inserimento nel mondo del lavoro, senza possibilità di ripensamenti. La scuola complementare, per ovvie ragioni, fu la disposizione più criticata e controversa della legge Gentile (che ebbe fine solo con l’introduzione della scuola media unificata nel 1963) ma anche il sistema più efficace per garantire la frequenza scolastica fino ai 14 anni. Gentile introdusse anche la scuola materna, che era facoltativa, triennale e volta a divertire e disciplinare allo stesso tempo. Venne poi introdotto l’esame di stato alla fine di ogni ciclo scolastico, elementari incluse. Tutto aveva un costo, che spaziava dalle 3700 lire del liceo alle 1038 lire delle scuole tecniche (fonte: Paolo Deotto, leonardo.it). La religione cattolica venne nuovamente introdotta alle elementari, e vennero valorizzati dialetti e tradizioni popolari. Venne anche abolito lo studio del tedesco in trentino ed in sud-tirolo, diventati italiani alla fine della prima guerra mondiale. Nacque quindi una scuola clandestina (Katacombenschulen) dove le cantine erano trasformate in aule per imparare le prime nozioni di tedesco. Più di 15.000 bambini presero parte a queste scuole, il cui materiale didattico veniva importato direttamente dall’ Austria.
Nel 1926 Mussolini fondò l’Opera Nazionale Balilla (O.N.B.), un’organizzazione che traeva il suo nome da un patriota che nel 1746 si ribellò agli austriaci in territorio genovese. Quest’ente (che nel 1937 confluì nella ‘Gioventù Italiana del Littorio’), aveva come sua principale intenzione quella di introdurre nelle scuole un’educazione paramilitare di stampo ginnico, infondendo senso di disciplina e consapevolezza di ‘italianità’. Venne instaurato un criterio gerarchico nel quale da sei ad otto anni si era chiamati ‘figli della Lupa’, dagli otto ai quattordici ‘Balilla’ per i ragazzi e ‘piccola Italiana’ per le ragazze, dai quattordici ai diciotto ‘avanguardista’ per i ragazzi e ‘giovane italiana’ per le ragazze. Alternativa al balilla era il ‘marinaretto’, che poteva entrare, previo nulla osta, in un’istituzione pre-marina. A diciotto anni i ragazzi entravano in una nuova organizzazione, ‘ Fasci giovanili di combattimento’, laddove le ragazze entravano a far parte delle ‘Giovani fasciste’. Le tasse scolastiche erano più alte per le ragazze, che al massimo potevano seguire corsi di formazione in puericoltura o economia domestica. Le insegnanti donne erano pochissime, ed i loro salari minimi. Soltanto con lo scoppio della guerra, e con la conseguente carenza di uomini, le donne dovettero ingegnarsi anche come postine, tranvieri, operaie, impiegate.
Nelle scuole vi era una tassativa divisa che per gli avanguardisti, ad esempio, consisteva in camicia nera, fazzoletto azzurro, pantaloni grigio-verde, fascia nera e fez. Durante le esercitazioni i ragazzi avevano anche un moschetto vero, mentre i bimbi ‘figli della lupa’ avevano un’arma-giocattolo.Sulle pareti della scuola, accanto al crocefisso, c’erano le foto del re e del duce, e dall’altoparlante si potevano sentire i discorsi di quest’ultimo via radio. Sulla cartina geografica erano appuntati con degli spilli i luoghi coloniali conquistati dal regime. Il calendario fascista iniziava il 28 ottobre 1922, giorno della marcia su Roma, e gli alunni dovevano tenerlo ben a mente, anche perchè si trovava perfino su documenti ufficiali. Il 28 0ttobre era quindi giorno di vacanza, come ad esempio anche il 23 marzo (fondazione dei fasci di combattimento) ed il 24 maggio (entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale). Il sei gennaio i bimbi festeggiavano la ‘befana fascista’. Sul diario scolastico comparivano immagini significative ma anche quotidiane, come quella del duce intento a trebbiare il frumento. E appena si entrava in aula si faceva il saluto fascista, che era un’imitazione di quello romano. Il quaderno era sia di bella copia (solitamente nero e con la copertina più pregiata) che di brutta copia (di qualità più scadente e con varie illustrazioni, sempre riconducenti a temi cari al fascismo). La pagella fino all’anno scolastico 1928-9 veniva stampata dal provveditore generale e comprata in tabaccheria per cinque lire. Anche i problemi aritmetici riflettevano situazioni reali, come ad esempio le bambine che preparavano tot. sciarpe per i soldati in Russia o i bambini che conciavano per loro tot. pelli di coniglio. Le aule erano molto affollate, con anche più di cinquanta alunni.
Nel febbraio 1929 ogni maestro elementare dovette giurare fedeltà alle ‘leggi dello Stato’, e due anni dopo ogni professore universitario dovette giurare fedeltà ‘al regime fascista’. Soltanto pochissimi rifiutarono. Alle scuole elementari i primi due anni vi era un testo unico , imposto per legge dal 1930-1, e per i tre anni rimanenti vi era anche un sussidiario oltre al libro di lettura. Ogni materia si riconduceva in maniera ossessiva al culto della persona del duce, che era presentato come un uomo benefico, rassicurante, protettivo, anche lui ‘figlio del popolo’, ma al quale bisognava allo stesso tempo obbedire ciecamente e senza chiedersene il motivo. Oppure ogni questione controversa era presentata in tono apologetico e propagandistico, descrivendo ad esempio i colonizzati in Africa come barbari e cattivi, ed il duce colonizzatore come una persona buona e salvifica, apportatrice di giustizia. Nel 1935 venne istituito il sabato fascista, che consisteva in un pomeriggio settimanale dedicato allo sport ed a corsi di ‘educazione fascista’, che era una sorta di educazione civica. Le ragazze, in camicetta bianca e gonna nera, si esibivano in saggi con cerchi, clave, bandiere. I ragazzi avevano prove di abilità e coraggio, come quella di passare attraverso cerchi infuocati. Nel 1938, con le leggi razziali, venne emessa un’ordinanza che obbligava i docenti a cambiare i programmi scolastici per ‘educare’ alla necessità di preservare la purezza della razza italiana da ogni genere di contaminazione da parte di elementi genetici ritenuti ‘inferiori’. Il 5 settembre 1939, con un altro regio decreto, venne interdetta ai bambini ebrei l’iscrizione alla scuola elementare. Inoltre, tutti coloro che erano ebrei e che lavoravano nel campo dell’istruzione, inclusi presidi e professori universitari, vennero licenziati, e poi anche loro destinati alle deportazioni del 1943.
La legge Gentile aveva stabilito che anche i bambini ciechi e sordi dovessero frequentare la scuola assieme ai loro coetanei, ma col fascismo, agli inizi degli anni trenta, i bambini ciechi, sordi ed ‘anormali psichici’ vennero confinati in scuole speciali, ed in alcuni casi vennero perfino allontanati dal nucleo familiare per essere messi in appositi istituti. Per i casi ritenuti ‘meno gravi’ sorsero invece le classi differenziali, ovvero apposite aule all’interno dello stesso edificio scolastico, che accoglievano, oltre a portatori di handicap, anche alunni con problemi in condotta, con disagi sociali/familiari nonchè con mancata integrazione linguistica per via di marcati accenti dialettali. Bisognerà attendere la legge 118/71, varata negli anni settanta, per vedere bambini disabili e non disabili convivere nella stessa aula, il che verrà facilitato dalla presenza dell’ insegnante di sostegno, introdotto dal ministro Falcucci nel 1975.
La scuola media unificata e la nuova cultura del Sessantotto
La legge Gentile mantenne il suo primato per oltre quarant’anni, finchè il 31 dicembre 1962 venne promulgata dal ministro Luigi Gui del governo Fanfani la legge 1859, che vide la nascita della scuola media unificata. Questa fu una svolta importante, poichè i ragazzi non furono più costretti, dopo le scuole elementari, a scelte premature, ovvero a decidere se avviarsi verso gli studi liceali oppure tecnico-professionali. Conformemente a quel che era stabilito dalla costituzione all’articolo 34, la scuola divenne obbligatoria e gratuita per almeno otto anni, e durante quegli otto anni i ragazzi seguivano anche le stesse materie per lo stesso numero di ore scolastiche.
La scuola manteneva comunque un’impostazione che mal si adattava al cambiare dei tempi. Nel 1963 Don Lorenzo Milani (che aveva fondato una scuola a tempo pieno per i poveri) scrisse ‘lettera ad una professoressa’, dove evidenziava come le bocciature fossero soltanto un modo per effettuare una selezione classista, e quindi per formare una futura èlite dirigenziale di stampo alto- borghese. Un’esigenza di democratica modernizzazione sfociò quindi nel movimento del ‘Sessantotto’, che in realtà si estese fino alla prima metà degli anni Settanta. Sostanzialmente si voleva abolire la persistente differenza fra studenti più ricchi e più poveri, fra materie umanistiche e tecniche, fra istruzione maschile e femminile. Giovani ‘figli di papà’ manifestavano accanto a figli di proletari ed operai in nome degli stessi diritti. Si lottava contro tutto ciò che era tirannico, autoritario, paternalista, stagnante ed ipocrita. Si volevano rovesciare i professori ‘baroni e dinosauri’ che ergevano barriere e che non avevano nessun contatto diretto con gli studenti. Il movimento coincise anche col ‘boom’ economico, quindi con un’esigenza di elevare la scolarizzazione a discapito di una rapida entrata nel mondo del lavoro. Gli studenti si aprirono a questioni internazionali, come la guerra in Vietnam, la causa dei palestinesi, le rivoluzioni cubane e cinesi, cosicchè figure come Che Guevara o Mao Tze Tung divennero due miti-simbolo di questo movimento. Se in epoca fascista gli studenti erano delle specie di militari, ora per reazione in aula entravano i capelloni, un nuovo gergo giovanile, la musica rock, le ragazze in minigonna. Se Karl Marx incarna l’opposizione al capitalismo, Freud diventa invece il semaforo verde alla libertà sessuale, al cadere di taboo e falsi moralismi.
Nel 1966 il giornale studentesco ‘La Zanzara’, edito dal milanese liceo Parini, avanzò l’ipotesi di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole già partire dalle scuole medie, ed i redattori, assieme al preside, vennero per questo processati e poi assolti. La prima proposta di legge in materia risale al 1991, quando si diffuse la paura del contagio HIV, e da allora ci sono stati altri sei vani tentativi di considerare questo argomento come obbligatorio nelle aule (al pari di altri paesi europei).
Nel ’73- ’74 nasce la prima assemblea d’istituto, che fu un passo importante per avvicinare simbolicamente i banchi alle cattedre, ovvero di dare anche agli studenti la possibilità di valutare le capacità dei docenti.
La rivoluzione sessantottina fece sentire i suoi effetti anche negli anni Ottanta e Novanta, quando i diversi indirizzi di studio, soprattutto liceali, assunsero pari dignità. Il liceo classico venne posto sullo stesso piano dello scientifico, del linguistico e dell’artistico (quest’ultimo quadriennale) e anche coloro che conseguivano semplici diplomi (come quello di ragioneria o magistrale) potevano accedere all’università, scegliendo la facoltà che preferivano (le scuole superiori di durata quadriennale necessitavano comunque di un anno integrativo). L’ammissione alle diverse facoltà non aveva bisogno di alcun esame e perfino l’ agognata facoltà di medicina non era sottoposta al selettivo ‘numero chiuso’. Se le tasse erano minime ed uguali per tutti, i programmi di studio erano invece molto estesi e complessi, con una conseguente facilità ad andare fuori corso, sostandovi anche per anni. L’introduzione nel 2004 della laurea triennale + specialistica ha consentito senza dubbio uno snellimento sia nei programmi che nei tempi di studio rispetto a quella del ‘vecchio ordinamento’, risalente al 1990, quando venne anche introdotto il dottorato di ricerca. Sempre nel 1990 vennero introdotti nelle scuole elementari una pluralità di insegnanti, dicendo addio alla tradizionale figura della maestra o maestro unico. Nel 1995, con la legge 352 dell’ 8 agosto, vennero poi aboliti gli esami di riparazione a settembre, che erano una notevole fonte di guadagno in nero per molti insegnanti privati, e vennero organizzati speciali corsi di recupero da frequentare durante il successivo anno scolastico. Nel 2007 il ministro Fioroni diede la possibilità di recuperare il ‘debito formativo’entro l’inizio del nuovo anno scolastico, quindi di fatto reintrodusse faticosi ed impegnativi periodi estivi. In compenso, accanto ai debiti formativi vennero introdotti anche i crediti formativi, che permettono tuttora di fare punteggio con attività extra-scolastiche come corsi di lingua, stage all’estero, tirocini, attività di volontariato e via dicendo. Il ministro Luigi Berlinguer (ex-rettore dell’università di Siena) nel 1997 presentò un disegno di legge che proponeva due cicli di studio invece di tre, ma la sua proposta non andò a buon fine.
La scuola del Terzo Millennio
Se negli anni ottanta e novanta la donna lavorava soprattutto per una questione di parità di diritti, con la sopraggiunta crisi economica la donna lavora soprattutto per far quadrare il bilancio familiare. Servono due stipendi per garantire il benessere dei figli. Di conseguenza, con entrambi i genitori impegnati a tempo pieno, aumentano le ore trascorse a scuola ed anche le attività extra-scolastiche. La scuola pian piano diventa una seconda casa, se non una seconda famiglia. Ma non solo. Il fenomeno dell’immigrazione fa sì che bambini italiani convivano in aula con bambini di diversa nazionalità e religione. La scuola diventa quindi un luogo dove si cerca un sempre maggior dialogo ed empatia. Con la legge n.309 del 1990 vengono aperti centri di informazione e consulenza, ovvero sportelli di ascolto dedicati a problematiche soprattutto adolescenziali, come difficoltà emotivo-relazionali, uso di droghe, gravidanze indesiderate, disturbi alimentari, omosessualità, bullismo. La tipica scenetta del tormentato teen-ager che si chiude in camera sua, con la musica a tutto volume, e col genitore in apprensione che bussa timidamente alla porta, appartiene ormai solo a qualche telefilm del secolo scorso. Il genitore si affida ormai alla scuola anche per trovare una preziosa alleata in nuove ‘strategie educative’. Di conseguenza, anche il ruolo originario e tradizionale dell’insegnante viene a sfumare, fino a confondersi e convivere con quello dell’assistente sociale, dello psicologo, del mediatore interculturale (personalità, spesso precarie, che nel mondo scolastico stanno trovando un saldo ancoraggio, soprattutto se andrà a buon fine il disegno di legge del 2016 che vuole istituire la figura professionale dello ‘psicologo scolastico’).
La direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, in vena di classificazioni che vagamente rammentano l’epoca fascista, ma allo stesso tempo amando gettare tutto in un solo calderone, introduce la sigla B.E.S. (Bisogni Educativi Speciali) che riguarda alunni con disabilità, alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (D.S.A.), alunni con deficit del linguaggio, alunni con deficit delle abilità non verbali, alunni con deficit della coordinazione motoria, alunni iperattivi, alunni con svantaggio culturale/sociale/linguistico. Ai sensi delle leggi 104/92 e 107/2010, nei primi due casi dovrà essere presentata alla scuola opportuna certificazione specialistica (da ASL od ente accreditato) per stabilire una diagnosi, laddove in tutti gli altri casi sarà compito degli insegnanti, anche in collaborazione con altri organismi, preparare un piano didattico personalizzato (PDP) dopo essersi basati sul modello ICF (International Classification of Functioning), diffuso dall’organizzazione mondiale della sanità (fonte: www.agiad.it). Per alunno con disturbi specifici dell’apprendimento (D.S.A.) si intende colui che manifesta uno o più dei seguenti disagi: dislessia, disgrafia, discalculia, disortografia. Chiaramente tutte queste etichettature hanno il nobile fine di incanalare nella giusta direzione l’apprendimento ed il benessere emotivo del soggetto in questione, con anche un potenziamento del suo valore, della sua individualità e della sua autostima (gli svogliati ‘asinelli’ devono, in altre parole, appartenere solo alla fiaba di Pinocchio, ed il ‘secchione’ complessato rimanere solo fra i banchi degli anni novanta). D’altra parte, nonostante tutti questi ben intenzionati sforzi, i sondaggi sostengono che gli scolari italiani siano i più ansiosi al mondo quando si tratta di affrontare un esame, e quindi ritengano l’esperienza scolastica tutt’altro che serena e distensiva, ma soltanto competitiva e pronta a dare giudizi.
La direttiva del 27 dicembre 2012 riguarda, come accennato, anche gli alunni ADHD, ovvero gli alunni con deficit dell’attenzione ed iperattività, che nei casi più gravi, non diversamente dai disabili, questa categoria può aver diritto all’insegnante di sostegno. Nel dossier della trasmissione Report dell’ 11-10-2001 già si evidenziava come l’ ADHD fosse spesso diagnosticato in maniera affrettata e superficiale (in Italia i ragazzi iperattivi sarebbero circa 80.ooo) e come sia sempre dietro l’angolo il rischio di trattare con medicinali (tutt’altro che innocui) ragazzi che in realtà non ne avrebbero bisogno o che sono affetti da altri tipi di patologie. L’egemonica ed espansionistica industria multinazionale del farmaco, che negli Stati Uniti ha già fatto proseliti, sta affinando i suoi tentacoli e mira ad allungarli fino al territorio scolastico europeo (su questo argomento, si veda anche il film documentario ‘Rush Hour’ di Stella Savino ed il film ‘Mommy’ di Xavier Dolan, premiato a Cannes).
Fra i BES (Bisogni Educativi Speciali) troviamo poi gli alunni con svantaggio sociale/culturale/linguistico e questa categoria è spesso identificabile con l’alunno straniero, senza alcuna distinzione fra ragazzi nati in Italia (e quindi di seconda generazione) e neo-arrivati. Nel 2010 i bimbi stranieri nella scuola primaria erano l’8,7 per cento, e sono andati via via aumentando. La mancata integrazione si direbbe comunque più un problema ipotizzato dai grandi che effettivamente vissuto dai piccoli. Dalle interviste ai bambini si evince non solo il desiderio di accogliere ed aiutare l’amichetto immigrato, ma anche di imparare da lui nuovi giochi, nuove favole, nuove ricette di cucina. I bambini sono pronti a vedere non ciò che separa, ma ciò che accomuna, trovando somiglianze. I bambini italiani hanno l’umiltà di ammettere che a volte i compagni di scuola stranieri sono anche più educati e gentili di loro, e sono i primi a comprendere che l’infanzia parla uno stesso linguaggio, che si nutre degli stessi sogni. La scuola è diventata senza particolari difficoltà luogo di incontro multietnico, dove ragazzine col velo islamico convivono civilmente con coetanee dai jeans griffati. E dinanzi a tanta disarmante intelligenza, sembra quasi paradossale che si parli ancora della questione del grembiule in termini di ‘annullamento delle differenze’ (proposta Gelmini 2008). Nelle scuole si moltiplicano come funghi i laboratori d’italiano per stranieri, spesso in convenzione con associazioni di volontariato, ma viene anche da chiedersi se un giorno si potranno anche aprire corsi base di cinese od arabo, visto e considerato che i piccoli alunni italiani, più che atteggiamenti nazionalistici e/o paternalistici, manifestano il desiderio di scambi culturali, di arricchimenti reciproci, e quindi vedono nel bambino immigrato anche la grande occasione per ‘apprendere nuove lingue’ (si veda www.raiscuola.rai.it ‘Immigrazione: le opinioni dei bambini’)
La scuola di oggi vede in ogni alunno un piccolo ‘homo videns’ che mangia pane ed informatica (nel 2014 è stata proposta un’ora di coding alle elementari) ma sembra ignorare che appese alle mura scolastiche non ci sono solo le LIM (lavagne interattive e multimediali), ma anche le tante speranze dei bambini, che da grandi vogliono ancora diventare qualcuno che corrisponde ai loro desideri. Finchè si avrà il coraggio di non rinunciare ai propri sogni in un clima di diffuso malcontento economico, politico ed occupazionale (il tasso di disoccupazione giovanile si aggira al 35% nel nostro paese) la scuola manterrà il senso della sua storia e la sua principale ragione di esistere.
Un ringraziamento ai miei colleghi Angelo Manno e Daniele Lotrecchiano