Salvo, un piccolo gioiello siculo-francese

Pubblicato il 9 Lug 2013 - 6:00pm di Redazione

Al cinema “Salvo“, il primo lungometraggio di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Salvo

Locandina del film

Presentato nella sezione Semaine de la Critique al festival di Cannes 2013, Salvo, opera prima di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, comincia come un classico film di mafia, con un agguato, una sparatoria e un inseguimento, per poi scivolare verso un thriller composto di espressioni facciali, gesti attenti, suoni e rumori, silenzi e, infine, diventare un incontro di due solitudini, un sicario e una ragazza cieca, uniti dai rapporti con importanti boss mafiosi. Ma si tratta di storie private, piccole, di “manovalanza“. Come fu in un altro ottimo film italiano (uscito a Venezia l’anno scorso) ovvero L’intervallo di Leonardo di Costanzo, la mafia è vista nei suoi aspetti minori, quelli ad esempio delle persone di poco conto, ma invischiate e bloccate dalla loro appartenenza mafiosa, che sia consapevole o di parentela, un’appartenenza da cui si può sfuggire solo con la morte, o grazie a una fuga insperata e disperata.

Ma Salvo non è solo questo, e qui sta lo scarto con la pellicola di di Costanzo: è anche una regia importante, che inchioda alla poltrona per i suoi primi trenta minuti quasi interamente girati in soggettiva, col volto del protagonista tenuto nascosto allo spettatore se ne si eccettuano gli occhi, con le scene d’azione tenute fuori dalla (nostra) visione, come per la giovane non vedente (interpretata da Sara Serraiocco e il cui personaggio riprende quello omonimo del cortometraggio precedente di Grassadonia e Piazza, ovvero Rita del 2009), che opera per ellissi, per sottrazione, evitando parole e lungaggini inutili (e l’ora e tre quarti di film scorre praticamente senza intoppi); una regia coadiuvata dalla fotografia di Daniele Ciprì (tra i più richiesti al momento nella cinematografia italiana) che si districa tra luci e ombre, piccoli dettagli, come si gioca il rapporto tra i due protagonisti, i quali si trovano davvero solo alla fine, prendendosi per mano per la prima e ultima notte assieme. Il resto dell’atmosfera suggestiva la crea l’ambientazione, quella dell’entroterra siciliano, con le sue terre vaste e desertiche, ma allo stesso tempo opprimenti e soffocanti come le stanze anguste o sotterranee in cui sono costretti a vivere i personaggi di questa storia, ridotti ormai a nascondersi come topi di fogna.

Si è letto che questo film è poco italiano (in parte è vero, trattandosi di una coproduzione italo-francese, o meglio, come sottolineato dai registi, siculo-francese), molto ambizioso, e per quanto riguarda quest’ultima annotazione, ci si è riferiti a essa come fosse un tratto quasi negativo, benché legato alla prima: ovvero, se la motivazione è la sua scarsa “loquacità” e la sua arditezza registica, ben vengano film ambiziosi come questo, che non si accomodano e che sono in grado finalmente di emozionare lo spettatore senza l’uso dell’inganno e senza propinare facili soluzioni. Una sceneggiatura – menzione d’onore del prestigioso premio Solinas – che è illuminante per chi, mutuando la terminologia pasoliniana, auspica il diffondersi di un cinema più di poesia che di prosa.

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