Con la crisi egiziana chiusa la frontiera Egitto-Striscia di Gaza e l’esercito demolisce i tunnel di Gaza. Onu chiede la fine dell’assedio
di I.T.
La caduta del governo Morsi a seguito del golpe militare e la conseguente crisi egiziana, che molti leggono come una imminente guerra civile, sta avendo pesanti ripercussioni anche sulla Striscia di Gaza. Il valico di Rafah, uno degli obiettivi del sostegno di Hamas alla politica di Morsi, è ormai chiuso, in entrambe le direzioni, da cinque giorni e i tunnel sotterranei tra l’Egitto e la Striscia che dal 2007, anno in cui Israele impose l’assedio, fungono da arteria vitale per la Striscia di Gaza, sono stati demoliti dall’esercito egiziano per «bloccare i movimenti dei jihadisti».
Già qualche giorno prima del golpe militare, in Egitto si era indebolito il traffico di merci attraverso i tunnel causando ingenti danni ai settori dell’edilizia e dei trasporti per la carenza di carburante e cemento all’interno della Striscia (merci di cui non è permesso l’ingresso attraverso il territorio israeliano, o è permesso a costi molto superiori). I tunnel tra l’Egitto e Gaza sono stati di fondamentale importanza per gli abitanti di Gaza dopo l’assedio israeliano, imposto a seguito della vittoria del movimento islamico Hamas alle elezioni parlamentari del 2006.
La crisi egiziana colpisce tutti i settori economici a Gaza, impedendo il funzionamento di numerosi servizi come i servizi di pulizia delle strade e di raccolta di rifiuti, ma a subirne le conseguenze non sono solo i privati, che rinunciano all’uso dell’auto, ma anche la comunità di pescatori, che senza scorte di carburante non può più uscire in mare. Secondo quanto riferito dalla reporter a Gaza Rosa Schiano, a causa della crisi del carburante (iniziata già a giugno del 2013), molti pescatori hanno dovuto smettere di lavorare e molti altri lavoratori a terra (come trasportatori e venditori) hanno di conseguenza perso il lavoro. Il carburante egiziano costa la metà rispetto a quello israeliano, e solo in pochi possono permettersi di comprarlo da Israele, in particolar modo i pescatori di Gaza non potendo andare oltre le 6 miglia dalla costa non riescono a pescare grandi quantità di pesce e, di conseguenza, non possono coprire il costo del carburante israeliano.
Bahaa al-Agha, direttore generale dell’Autorità per l’Ambiente di Gaza, nel corso di una conferenza stampa tenutasi giovedì 4 luglio ha detto che l’assedio sta paralizzando i settori vitali e i servizi igienico sanitari portando a un deterioramento sempre maggiore della situazione ambientale e umanitaria. Con la crisi egiziana e la chiusura del valico di Rafah, in poco tempo i 190 pozzi d’acqua che riforniscono 1,8 milioni di persone (in un’area di 360Km2), smetteranno presto di funzionare, così come gli impianti centrali di depurazione che trattano 100 mila metri cubi di acqua altamente contaminata. La crisi del carburante lascerà ferme decine di veicoli privati e per la raccolta giornaliera di rifiuti solidi (1.500 tonnellate al giorno) che non potranno più essere trasportati dalle città alle discariche. Al-Agha ha sollecitato la comunità internazionale ad intervenire immediatamente per garantire il fabbisogno di combustibili ed energia a Gaza. Ha chiesto che ogni Stato faccia pressioni sulle autorità istraeliane affinché si assumano le proprie responsabilità di potenza occupante verso gli abitanti della Striscia. In effetti l’articolo 23 della IV Convenzione di Ginevra sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra dice che: “Gli Stati sono obbligati a garantire il passaggio di beni essenziali per la popolazione civile anche in casi di blocco militare”. Tuttavia Israele non si riconosce come potenza occupante da quando nel 2008 ha ritirato tutti i suoi soldati da Gaza, ma poiché Gaza non appartiene a nessuno Stato sovrano e dato che Israele controlla tutte le frontiere terrestri (tranne quella egiziana – ora chiusa – e quelle marine e aeree) ed esercita il controllo su ogni persona e ogni bene che entra o esce dalla Striscia di Gaza, non si può dire che l’occupazione sia finita perché l’Autorità palestinese non è assolutamente in grado di esercitare il controllo.
Nonostante i leader di Hamas abbiano assicurato, nelle poche dichiarazioni rilasciate, di non temere per il destino di Gaza, è chiaro che la fine del governo Morsi è un grosso colpo anche per Hamas, alleato della Fratellanza Musulmana. Il nuovo governo potrebbe non sostenere la politica del movimento islamico palestinese che si ritroverebbe senza un vicino alleato che assicuri il sostegno alla resistenza palestinese. Morsi si era schierato in prima linea chiedendo il cessate il fuoco durante l’Operazione Pilastro di Difesa e aveva permesso il libero passaggio alle delegazioni islamiche dirette a Gaza a sostegno del movimento islamico palestinese e della popolazione civile.
Quello che preoccupa però non è solo cosa accadrà con il nuovo governo, ma quanto si aggraverà a breve termine la condizione dei palestinesi a Gaza che, associati senza distinzione alla Fratellanza Musulmana, sono stati messi, nelle ultime ore, sotto forte pressione dalle autorità egiziane, perché associati ai jihadisti che l’esercito sta opprimendo nel Sinai. Secondo alcuni l’opposizione egiziana considera Hamas parte del conflitto, accusandola di destabilizzare l’area del Sinai. Proprio per questo motivo si teme che la crisi egiziana possa condurre a misure ancora più restrittive per la Striscia, non solo per quanto riguarda l’importazione di carburante e altre merci, ma anche per le misure di sicurezza e i controlli alla frontiera.
Intanto mercoledì 3 luglio, il Responsabile delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, James W. Rawley, ha esortato con un comunicato stampa, il governo di Israele a porre fine alle restrizioni a lungo termine su Gaza, incluso il blocco in atto dal 2007. Ha poi espresso la sua preoccupazione per le vite di contadini, pescatori e altri civili palestinesi che sono quelli che più soffrono l’assedio. Rawley ha dichiarato che «Israele ha preoccupazioni di sicurezza legittime, ma qualsiasi risposta a queste preoccupazioni, incluse le limitazioni del libero movimento di persone e merci, deve avvenire in linea con il diritto internazionale; devono essere proporzionate a una specifica minaccia e non devono essere punitive per natura».