Rivolte contro un mondo che non vuole cambiare
L’ultimo mese è stato segnato da una scia di proteste e rivolte che hanno infiammato le strade di molti paesi. Per giorni, su tutti i media giornalistici, a tenere banco sono state le manifestazioni egiziane, turche e brasiliane. Immagini di scontri, spesso violenti, ci hanno fatto indignare e forse anche sperare.
Se le mobilitazioni egiziane sono figlie di quella primavera che due anni fa cambiò il volto di tutto il Maghreb e che oggi ha portato al colpo di stato che ha deposto Morsi affidando la nazione al nuovo presidente Adly Mansour, capo della Corte Costituzionale che guiderà l’Egitto alle prossime elezioni, quelle di Turchia e Brasile ci hanno sicuramente colto più impreparati.Entrambi i paesi sono considerati in piena fase di sviluppo, con una economia florida che, ci hanno detto, non ha subito la crisi che ha investito Stati Uniti ed Europa. Eppure è bastato poco perché si creasse il caos: il progetto urbanistico che avrebbe voluto distruggere Gezi Park, a Istanbul, che diventa motivo per dimostrare dissenso contro le politiche sempre più autoritarie di Erdoğan e crea mobilitazione in tutta la Turchia, o l’aumento del prezzo del biglietto dei trasporti pubblici che porta in strada una marea umana a San Paolo, Rio, Brasilia contro la corruzione, il carovita e gli investimenti fatti per la Confederation Cup.
Piccoli pretesti, dunque, che danno il segno di quanto sia sempre sul punto di esplodere quel disagio sociale ormai diffuso ovunque. Ovunque, perché queste proteste sono quelle che hanno avuto più eco, ma negli stessi giorni enormi mobilitazioni si sono avute in Cile – contro la riforma scolastica – in Paraguay e in Costa Rica – contro la corruzione e il malgoverno – in Bulgaria – dove da più di 30 giorni, davanti al parlamento si tengono manifestazioni per chiedere le dimissioni del primo ministro Plamen Oresharski, colpevole di guidare una classe politica corrotta che favorisce un’oligarchia economica. E, ancora, in questi giorni si manifesta anche per le strade di Tel Aviv: migliaia gli attivisti contro la politica economica del governo Netanyahu, nel secondo anniversario dell’inizio della più grande protesta mai avvenuta in Israele, che potrebbe portare addirittura alla riduzione delle spese militari, in un paese nel quale l’importanza dell’esercito non era mai stata messa in discussione.
Se poi volessimo lasciare il terreno delle rivolte contro il sistema politico-economico e addentrarci in quello più meramente sociale dovremmo gioco forza citare l’Irlanda dove a Dublino si sono fronteggiati sostenitori e oppositori della prima legge sull’aborto e a Belfast sembra non poter avere fine il secolare scontro tra cattolici e protestanti che nel giorno dell’Orange Parade – che commemora la vittoria di Guglielmo III d’Orange contro il re cattolico Giacomo II – scelgono di festeggiare scontrandosi con le forze di polizia che bloccano l’ingresso al quartiere cattolico.
Rivolte che sono legate tutte da un filo rosso di rabbia che sembra legare uomini di tutte le religioni ed etnie in paesi poveri, in paesi ricchi ma ormai in decadenza e in paesi in via di sviluppo. Una rabbia che esplode e che accomuna società diverse ma tutte in crisi, che sia economica o valoriale poco importa. E poi? Cosa succede dopo le proteste, i lacrimogeni, le manganellate, l’indignazione, i morti? Viene da chiedersi: che fine hanno fatto gli Indignados che durante lo scorso anno riempivano le piazze europee da Madrid ad Atene o i membri del movimento Occupy radunati a Wall Streat?
Le masse si stancano e tornano a casa prive di energia – come sembra essere successo in Brasile, dove l’ultimo sciopero indetto è stato un flop – o sono i media a stancarsi – pochi ormai continuano a parlare di quello che accade in Turchia nonostante ancora gli scontri imperversino in tutta la penisola anatolica – o, peggio, siamo noi a stancarci: “perché tanto non cambierà mai niente”.