La prossima settimana la Camera dovrebbe dare il via libera al decreto del Fare. Presentati più di 2.300 emendamenti
Il Presidente del Consiglio lo aveva promesso dal giorno del suo insediamento ed ecco arrivare in meno di tre mesi, direttamente da Palazzo Chigi, il tanto atteso decreto per il rilancio economico del Paese, meglio conosciuto come decreto del Fare. L’entusiasmo è stato talmente tanto che i nostri ministri hanno dato vita ad un mega provvedimento composto da ben 86 articoli in cui vengono trattate le materie più disparate, tanto che si stenta a trovare un nesso logico.
Sono ben lontani i tempi in cui i decreti legge dovevano attenersi ai rigorosi parametri dettati dalla Costituzione. Requisito dell’urgenza, contenuto uniforme e pertinente alla materia trattata e comprovato stato di necessità per la sua emanazione. Il nostro ordinamento costituzionale, infatti, conferisce al Parlamento e non al Governo il potere legislativo ma, ormai, sappiamo tutti che anche a Costituzione invariata, il potere di legiferare è quasi esclusivamente in mano all’esecutivo di turno. Sarebbe interessante sapere, invece, come passano il tempo il funzionari del Quirinale, che dovrebbero farsi garanti della Carta Costituente.
A parte le disquisizioni tecniche che, anche se giuste, poco interessano gli italiani, vediamo cosa cambierà in concreto con questo decreto. Il provvedimento è diviso in tre sezioni. La prima riguarda misure per favorire la crescita economica, la seconda prevede norme per la semplificazione, la terza contiene misure per migliorare l’efficienza del sistema giudiziario e la definizione del contenzioso civile.
Per non perderci nel labirinto delle disposizioni messe in atto dal Governo, focalizzerò l’attenzione sulle norme che più direttamente andranno ad incidere sulla vita degli italiani.
Il Governo ha puntato tutto sul sostegno alle imprese, il potenziamento dell’agenda digitale e il rilancio delle infrastrutture, anche per creare nuova occupazione. Per prima cosa è previsto il potenziamento del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, che nel 2011 il decreto “Salva Italia” del Governo Monti aveva già potenziato portando il finanziamento a 400 milioni di euro all’anno per il periodo 2013-2014. Il Governo Letta è intervenuto semplificando la modalità di accesso al Fondo, ampliando la platea delle imprese beneficiarie e, soprattutto, escludendone l’accesso a quei finanziamenti già deliberati, lasciando l’utilizzo dei fondi solo a quelle imprese che non riescono ad accedere alle normali forme di credito. Al momento, però, tali disposizioni rimangono solo sulla carta poiché rimandano per la loro attuazione a un decreto che entro 30 giorni dovrà essere emanato dal Ministero dello Sviluppo Economico, di concerto con il Ministero dell’Economia.
Una volta, per i motivi citati prima, era il Parlamento che dettava i principi e criteri direttivi a cui il Governo si doveva attenere per l’emanazione dei decreti attuativi. Ma in questo caso il Governo questi principi se li è scritti da solo e impegna se stesso a emanare un decreto secondo regole che ha stabilito in piena autonomia, in barba agli insegnamenti di Montesquieu sulla divisione dei poteri.
Ci sono poi una serie di norme che non sempre sono direttamente ricollegabili alla crescita del Paese. Ne è un esempio il finanziamento di un Fondo per l’acquisto di macchinari, impianti e attrezzature per le piccole e medie imprese, mediante la Cassa Depositi e Prestiti. Un finanziamento di ben 2,5 miliardi di euro, che potrebbe essere esteso fino a 5 miliardi.
Una scelta senza dubbio particolare quella del Governo. Probabilmente con nuovi e migliori macchinari ne guadagnerà la qualità della produzione, magari anche con un abbattimento dei costi di produzione. È risaputo, tuttavia, che se le aziende producono e nessuno compra, la merce rimane nei magazzini e difficilmente l’economia potrà rimettersi in moto. Questa classe politica, mista ed eterogenea da ogni punto di vista, stenta a capire che fino a quando non si metterà nelle tasche degli italiani qualche centinaio di euro in più, la produzione potrà anche salire, ma i consumi rimarranno a zero. L’economia continuerà ad avere un tracciato piatto e gli italiani continueranno ad essere sempre più poveri. Sono questi segnali che ci fanno capire, purtroppo, che la strada giusta non è stata ancora imboccata. Non solo. Per finanziare l’acquisto di questi prodigiosi macchinari i soldi da qualche parte bisognava pur trovarli e l’ennesima grandiosa idea è stata quella di alzare le accise dei carburanti a partire dal 2014. Avete capito bene, da gennaio prossimo aumenterà ancora la benzina per far comprare alle aziende nuovi macchinari, per gettito totale stimato in 75 milioni di euro nel 2014.
L’altra parte dei finanziamenti verrà attinta, invece, dalle maggiori entrate provenienti dall’aumento dell’IRES, cioè la maggiorazione della cosiddetta Robin Tax. Attualmente questa tassa viene pagata dalle aziende con ricavi superiori a 10 milioni di euro e un reddito imponibile superiore ad un milione di euro. Per ricavare altri 75 milioni di euro il Governo ha abbassato le soglie, portando i ricavi a 3 milioni di euro e il reddito imponibile a 300 mila euro, senza rendersi conto che andrà a penalizzare aziende che non hanno fatturati poi così elevati. Ma andiamo avanti. Tra i tanti articoli degni di nota c’è quello relativo ai fondi comunitari. L’esecutivo è dovuto intervenire poiché, per qualche strana ragione, il nostro Paese non riesce a spendere i soldi che l’Unione Europea ha messo a disposizione per i Fondi strutturali e di coesione territoriale. Sembra quasi un paradosso. I vari governi continuano a ribadire che i soldi non ci sono e, quindi, tutto è destinato a rimanere così com’è. Poi, quando i Fondi ci arrivano senza troppe fatiche dall’Unione Europea, non li spendiamo. E non stiamo parlando di cifre di poco conto ma di ben 30 miliardi di euro che devono essere spesi entro il 2015. Diversamente, non solo l’UE si riprenderà i Fondi non utilizzati, ma provvederà a sanzionare i progetti in corso d’opera che, a causa delle solite e inspiegabili lungaggini burocratiche nostrane, non sono stati ultimati. È stato lo stesso ministro per la coesione territoriale a fine maggio a ricordare al Parlamento l’enorme ritardo, appena al 40% dell’obiettivo di spesa raggiunto con la scadenza del 2015 alle porte. Ed anche questa volta il Sud arranca, essendo riuscito ad utilizzare solo il 35,7% della spesa totale.
Riaprono, inoltre, in tutta Italia i cantieri, ad esempio per ultimare il corridoio tirrenico meridionale A12, la costruzione della linea C della metropolitana di Roma, o il finanziamento del programma “6000 campanili”, destinato ai comuni sotto i 5 mila abitanti per interventi infrastrutturali di adeguamento e a cui sono destinati 100 milioni di euro, ma non mancano anche interventi di edilizia scolastica. Al via anche una serie di interventi per manutenzione di strade, ponti, viadotti di competenza dell’Anas, con risorse che in seguito saranno stabilite dal Ministero per le infrastrutture con apposito decreto. È un peccato che nessuno abbia pensato di attingere da quei 28 milioni di euro che l’ANAS ha tanto scrupolosamente risparmiato nel 2012, lasciando però le strade nazionali in condizioni pietose. Non mancano, infine, i fondi per la cinematografia, il Fondo per gli impianti sportivi e ulteriori stanziamenti per l’EXPO2015.
Un intervento importante, che sicuramente interesserà molti italiani, riguarda la modifica della disciplina sulle modalità di riscossione delle imposte, per venire incontro alle esigenze dei contribuenti che non dispongono di liquidità monetaria. Un duro colpo per il corpo armato di Equitalia, costretto ad allargare le maglie del loro operato. Vediamo cosa cambia. È consentita la rateizzazione del debito fino a 120 rate, anziché le attuali 72, in un arco di tempo che può arrivare a 10 anni, prorogabile in casi di gravi difficoltà economiche, di altri 10 anni. Per poter accedere a questo beneficio gli ispettori devono comunque e preventivamente valutare l’effettiva impossibilità di pagamento del contribuente e la solvibilità in base al prospetto di rateizzazione. Il numero delle rate non pagate, a fronte delle quali il beneficio della rateizzazione decade, è stato portato ad 8, anche non consecutive. Viene, finalmente, stabilità l’impignorabilità sulla prima e unica casa di abitazione, mentre per gli altri immobili si può procedere all’espropriazione solo quando il debito iscritto al ruolo supera i 120 mila euro (fino a ora questo limite era di 20 mila euro). Infine, per quanto riguarda i beni pignorati, il contribuente può provvedere alla vendita in proprio, purché ciò avvenga entro cinque giorni dalla data stabilità dell’asta pubblica. Un gran bel passo in avanti per arginare lo strapotere di Equitalia, anche se qualcosa in più si poteva ancora fare. Gli interessi che l’istituto di riscossione chiede ai contribuenti sul debito rasenta l’usura e porta a pagare cifre spropositate in confronto al debito iniziale. È stato chiesto da più parti di calcolare la rateizzazione sul calcolo del debito iscritto al ruolo, con le eventuali sanzioni di mora, ma senza ulteriori maggiorazioni da parte dell’istituto di riscossione (tassi di interesse). Non a caso Federitalia, associazione antiusura di Parma, in questi mesi ha portato in giudizio Equitalia per aver applicato su molte cartelle esattoriali interessi sugli interessi che hanno superato la soglia consentita dalla legge. In pratica Equitalia è accusata di usura. Non male per un istituto di riscossione a totale controllo pubblico.
Al momento il testo del provvedimento è al vaglio delle Commissioni della Camera dei deputati. Sono stati presentati, com’era presumibile, oltre 2300 emendamenti in Commissione Bilancio ma, secondo un bizzarro e tutto nuovo sistema di “economia procedurale interna”, la Commissione stessa, con l’accordo dei vari capigruppo, ha “sfoltito” questa enorme mole di emendamenti in base a criteri non proprio chiari, mettendo spalle al muro ancora una volta i deputati che tentano di fare il loro lavoro. Ma ecco che ieri le Commissioni Bilancio e Affari Costituzionali approvano un emendamento, a firma Ignazio Abrignani (Pdl), Nico Stumpo (Pd) e Martina Nardi (Sel), che di fatto cancella la norma sull’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco sopra i 5 mila abitanti. Così l’emendamento “salva poltrone”, che a colpo d’occhio non sembra proprio pertinente con il rilancio economico del Paese, si è aggiudicato il voto positivo bipartisan dei deputati, nonostante il voto contrario dei rappresentanti dei 5stelle. Da lunedì il decreto approderà in Aula per l’approvazione e, viste le diverse tirate d’orecchie che provengono dalle varie categorie interessate, non è escluso che il Governo possa dare una ritoccata al provvedimento presentando un maxi emendamento. A parte questo, l’unica cosa certa, stando così le cose, è che con questo decreto del fare i politici hanno fatto proprio di tutto.