Intervista al Prof. Antonio Maria Rinaldi* su Euro, Europa, Unione Europea, crisi economica
Innanzitutto grazie per la cortese intervista che concede a Corretta Informazione. Recentemente è uscito il suo libro “Europa Kaputt“, preceduto da “Il fallimento dell’Euro“. La prima domanda, dunque è: perché l’euro è fallito? Ed è stato un fallimento voluto? Eventualmente, da chi?
La mia prima esperienza “letteraria” è avvenuta due anni fa con “Il fallimento dell’euro” in cui ho voluto esternare tutto il mio disappunto nei confronti della costruzione monetaria europea perché, ormai, si stavano iniziando a intravedere gli enormi disagi che quest’aggregazione aveva comportato, non solo in Italia, ma nella gran parte delle economie dei paesi euro-dotati. Questo proprio perché l’origine stessa della moneta comune è stata l’origine di una scelta politica e non tecnica. Sappiamo benissimo che siamo giunti a una convergenza monetaria essenzialmente per decisione della Francia e della Germania dopo la caduta del Muro di Berlino per dare un nuovo assetto economico e per riallineare gli equilibri che si erano modificati dopo la caduta del Muro: cioè la parte dell’est Europa. Si è voluto procedere con una scelta politica un po’ affrettata e si è, soprattutto, affidato a un meccanismo (i famosi meccanismi di convergenza previsti dal Trattato di Maastricht e i successivi) quest’aggregazione monetaria non tenendo conto, nella maniera più assoluta, di alcune caratteristiche insite dei vari Paesi, tra i quali anche l’Italia. Anzi, l’Italia è stato il paese che si è più svantaggiato da questa unione, proprio perché i parametri a supporto della costituzione della nuova moneta e del suo mantenimento erano dei presupposti che andavano contro le sue “logiche economiche“. Sappiamo benissimo che, storicamente, noi abbiamo sempre avuto un debito pubblico elevato e uno dei parametri è proprio il rapporto deficit/Pil. Inutile entrare nelle polemiche, ma pensiamo, ad esempio, al famoso 3% del deficit che non ha nessun fondamento scientifico se pensiamo che fu scelto da Mitterand quando era Primo Ministro in Francia per tenere buoni e a bada i suoi ministri, e tirò fuori questo 3% perché gli ricordava la Trinità. Basta andare a vedere su Google e ci sono dichiarazioni di alti dirigenti del Ministero che, purtroppo, confermano questo fatto. L’Unione Europea, evidentemente, ha ritenuto che, avendo Mitterand escogitato questo 3%, ci fosse dietro chissà quale considerazione economica. Invece era solo un escamotage per non farsi assillare dai propri ministri a sforare i bilanci. Già capiamo, dunque, che siamo partiti con il piede sbagliato. Sicuramente l’Italia ha molte colpe, moltissime, ma ci stiamo accorgendo che questo disagio è anche degli altri Paesi, a partire dalla Francia.
In un’intervista rilasciata a Rischio Calcolato, Lei ha affermato che, così come il Professor Paolo Savona, crede che l’Italia abbia un PIANO B. In cosa consisterebbe, secondo lei, questo Piano B?
Paolo Savona è stato mio professore sin dai tempi dell’Università a metà degli anni ‘70, è un mio onore, e per questo so benissimo che è stato sempre profondamente critico nei confronti dell’aggregazione monetaria europea, soprattutto con i mezzi e i metodi che sono stati adoperati. Scherzando dico sempre che il Prof. Savona è critico nei confronti dell’euro da quando ancora si chiamava ECU, il famoso acronimo unità di conto europeo. Ebbene, è chiaro che una classe politica consapevole dovrebbe avere nel cassetto un Piano B per un’uscita ordinata dall’euro. Anche perché ci siamo resi conto che gran parte delle problematiche che hanno investito la sopravvivenza dell’euro sono problematiche che provengono dall’esterno: abbiamo visto l’influenza della crisi americana com’è stata devastante nei confronti dei Paesi dell’area monetaria europea. Lo vediamo proprio nel caso dell’Italia, per quanto possa essere stata brava a fare i propri “compiti“, e lo è certamente stata dato che sono due o tre anni che abbiamo un avanzo primario fra i migliori in assoluto in Europa, mentre la stessa cosa non la può dire, ad esempio, la Francia. Chiaramente, però, poi dopo non riusciamo a essere “virtuosi” perché abbiamo un costo per il sostentamento del debito che ci assorbe circa 2.5/2.7 punti annui del Pil e, quindi, la “virtuosità” che abbiamo nei confronti del deficit del disavanzo, vengono immediatamente annullati dal costo del debito. Altrimenti saremmo più che “virtuosi“. Il problema è che siamo soggetti agli tsunami che provengono dall’estero e, quindi, se dovesse verificarsi qualche problema a livello finanziario – non voglio evocare la Lehman Brothers, ma qualcosa di analogo – noi saremmo aggrediti oltremodo da parte dei mercati finanziari, con una pressione incredibile sui nostri titoli e, a quel punto, noi dovremmo entrare nell’ordine di idee di attuare un Piano B. D’altronde il Piano B esiste, esiste eccome!, e ci sono dei segnali inequivocabili che lo fanno capire. Innanzitutto c’è il Trattato di Lisbona perché l’articolo 50 dice che un paese dell’Unione può recedere dall’Unione Europea: quindi fa trasparire, in maniera più che ovvia, che sono previsti dei “patti segreti” per poter uscire anche dall’euro. Perché, altrimenti, come sarebbe conciliabile il fatto di poter uscire dall’Unione Europea, ma dover conservare la moneta unica? È chiaro, dunque, che, sin dai tempi del Trattato di Maastricht, è prevista la possibilità di poter uscire dall’unione monetaria. D’altronde nel dicembre 2011 il Prof. Savona mise al corrente l’aula della telefonata che ebbe con l’allora Ministro dell’Economia Tremonti che gli confermava dell’esistenza di un Piano B, dopo che Savona aveva scritto diversi articoli sui giornali nazionali sull’argomento. Tremonti lo confermò. Ma è ovvio, è normale, fa parte della strategia di sicurezza nazionale, così come esistono dei piani militari contro invasioni generiche. Anzi, sarei preoccupato se questo non ci fosse. D’altronde, la stessa esperienza del Prof. Savona al Centro Studi della Banca d’Italia con Guido Carli negli anni ’60 e nei primi anni ’70 fa ritenere che la stessa Banca d’Italia abbia sicuramente predisposto un credibile e serio Piano B per un’uscita ordinata dall’euro perché non possiamo affidarci all’improvvisazione se dovesse succedere qualcosa di irreparabile. È normale, è auspicabile che esista un Piano B come, d’altronde, lo hanno tutti i Paesi dell’area euro. Ci mancherebbe!
Se Lei dovesse spiegare con poche parole cos’è l’euro a un normale cittadino, che parole userebbe?
Premetto che ho un’enorme fiducia nei confronti dei cittadini anche perché sono sì un economista, ma un economista dell’economia reale e, per questo, mi confronto quotidianamente con le persone e mi sono reso conto che il cittadino comune, l’uomo della strada, è molto più preparato di tanti che si dicono economisti o che ritengono di dover dire la loro opinione sui fatti economici. I cittadini hanno capito perfettamente qual è la situazione. Gli italiani sono certamente rimasti affascinati dall’idea di appartenenza all’Unione Europea e la stessa moneta unica rappresenta un traguardo più che nobile, solo che purtroppo da un punto di vista tecnico è stato utilizzato il peggiore dei modi possibile e si è trasformata in una specie di gabbia dove, purtroppo, abbiamo potuto constatare che c’è un solo Paese, la Germania, che se ne sta avvantaggiando oltremodo. Io sono un grandissimo estimatore della Germania e del suo popolo, io contesto solo il fatto che essa abbia imposto un modello economico che non è replicabile ed esportabile agli altri Paesi. Va bene per la Germania, ma non può andare bene per Paesi come l’Italia o la Spagna, per non parlare degli altri Paesi ancora più periferici del nostro. Noi, infatti, siamo ancora la seconda impresa manufatturiera, dopo la Germania, dei 27 (tra poco 28) Paesi dell’Unione Europea e aver affidato la nostra economia a questo modello economico ci consuma come una candela. Noi abbiamo, invece, bisogno di rifarci a dei modelli economici diversi. D’altronde, molti hanno interpretato male l’Unione Europea pensando, la gran parte ingenuamente, che significasse la trasformazione del concetto di concorrente in partner. Così facendo, però, noi abbiamo fornito delle armi formidabili nelle mani dei nostri concorrenti. Faccio un esempio che vale per tutti: oggi se non ci fosse la moneta comune euro, ma avessimo tutti quanti in dotazione le nostre valute nazionali, la Germania rapporterebbe il marco nei confronti del dollaro a non meno di 1.75/1.80 contro gli 1.32 dell’euro. Cosa vuol dire? Vuol dire che, rispetto ai fondamentali economici dell’economia tedesca, la valuta euro è una valuta estremamente sottovalutata, mentre invece gli altri Paesi, a iniziare dal nostro che, ripeto, siamo la seconda impresa manufatturiera e, quindi, esportatori per propensione, avere questo tipo di euro significa esserci dotati di una valuta estremamente sopravvalutata. Questo, naturalmente, fa soffrire la nostra economia, perché se avessimo ancora la Lira noi non ci rapporteremmo a questi livelli nei confronti del dollaro, che non è soltanto la principale valuta del mondo, ma è anche la valuta con cui noi compriamo le nostre materie prime. Certamente se avessimo la Lira compreremmo le materie prime a un prezzo più elevato, è vero, ma proprio perché l’Italia è un grandissimo Paese di “trasformazione” dove diamo spesso un valore aggiunto enorme alle materie prime stesse, è un prezzo marginale nella formazione del costo finale, poiché abbiamo la capacità di incrementare il valore in maniera molto significativa e, quindi, il valore della materia prima ha un significato molto marginale nella formazione finale del prezzo.
Se la situazione politica, economica e sociale dovesse rimanere quella che è attualmente, come vede il futuro per un giovane universitario o per un giovane lavoratore? E quale consiglio si sentirebbe di dargli?
Io sono costantemente a diretto contatto con i giovani perché insegno in due università, la Gabriele D’annunzio di Chieti-Pescara e la Link Campus di Roma, e dico sinceramente che ci sono moltissimi ragazzi preparati e mi piange il cuore, dopo che hanno studiato e fatto il loro percorso formativo universitario, vedere che tornano da me dicendomi: “Professore, ma cosa devo fare? Io ho studiato tanto, lei lo ha visto, mi ha dato bei voti. Ho fatto sacrifici, ma adesso però non riesco ad avere nessun tipo di accesso“. Leggo negli occhi di questi ragazzi la loro delusione. Io li aiuterei volentieri tutti ma, purtroppo, sono solo un modesto docente universitario e non ho questa possibilità, ma gli dico di tenere duro perché, prima o poi, qualcosa dovrà succedere e mi dispiace che la loro massima aspirazione sia quella di andare all’estero per potere avere uno straccio di lavoro che sia, almeno, attinente alla loro preparazione. Questa è l’amarezza con cui, purtroppo, mi confronto sempre. Io dico che la classe politica dirigente non ha capito una cosa: non ha capito che deve, nella maniera più assoluta, ribadire gli interessi dell’Italia e degli italiani, esattamente come fanno gli altri Paesi. Noi abbiamo avuto un concetto di Europa troppo idealistico, non rendendoci conto che invece gli altri hanno comunque continuato a fare i propri interessi, e farli anche molto bene. C’è un caso che mi piace ricordare: la decisione, cioè, della Corte costituzionale tedesca in merito alla decisione di aderire, da parte della Germania, ai programmi di sostegno ai titoli dei debiti sovrani dell’area euro. Ebbene, al di là della tecnicità, la Corte ha ribadito un concetto fondamentale, cioè che la Germania subordina l’ordinamento dell’Unione europea a quello nazionale, prima c’è l’ordinamento e gli interessi nazionali e poi il diritto europeo. In questo modo ha certificato, di fatto, quello che avevamo capito da tanto, cioè che la Germania considera l’Unione Europea, non con spirito di aggregazione, ma con un semplicissimo criterio contabile: se ci conviene lo facciamo, altrimenti no. Ed è esattamente l’inverso di quello che stanno facendo altri Paesi, a iniziare dal nostro, e mi piace ricordare l’articolo 11 della Costituzione italiana che ribadisce il concetto che l’Italia è disponibile a cedere porzioni di sovranità, ma a pari condizioni. Noi, invece, abbiamo sempre ceduto in maniera unilaterale e non abbiamo mai verificato se queste cessioni erano supportate da pari vantaggi. Sarebbe il caso che i politici, di qualsiasi colore, se ne rendessero conto e facessero qualcosa: non bisogna avere paura di sbattere i pugni a Bruxelles, anche perché gli altri lo fanno e ci riescono e, in particolare, la Germania e la Francia. Noi, invece, non abbiamo ancora capito e siamo ancora nel sogno europeo, ma sappiamo benissimo che si sogna solo quando si dorme e, quando si dorme, come dice il detto, non si prendono pesci.
Lei, così come tanti economisti, italiani e non, dichiara che l’Euro ormai è fallito. Siamo, però, di assistere a una “calma apparente estiva“, rotta soltanto dalla condanna di Silvio Berlusconi. Questa situazione, però, ritiene che possa essere interpretata come una “calma prima della tempesta” e foriera di disordini sociali?
Questo è un pericolo che, purtroppo, condivido pienamente perché abbiamo visto come la situazione si stia depauperando giorno dopo giorno. Abbiamo visto, fra l’altro, che c’è una situazione di estremo disagio a qualsiasi livello. Vediamo e sentiamo ogni mese che, purtroppo, i dati macroeconomici dell’Italia sono sempre in declino. Vediamo che la disoccupazione aumenta, per non parlare di quella giovanile che ormai si avvicina al 40% e in alcune aree italiane, inutile dirlo, siamo ormai all’80% (gli economisti fanno sempre riferimento alla famosa poesia di Trilussa, La Statistica, quella che dice che ogni italiano mangia un pollo l’anno, ma poi, nella pratica, sappiamo che qualcuno ne mangia diversi e qualcuno, invece, non ne sente neanche l’odore). Questo è ciò che avviene in Italia, anche se i media ci bombardano quasi quotidianamente dicendoci che ci sarebbe la ripresa. Io la chiamo la ripresa del trimestre successivo. Ormai sono anni che ce lo stanno dicendo, ma una cosa è certa: i consumi diminuiscono, ed è notizia di questi giorni che il gettito IVA è diminuito del 6%. Ce ne rendiamo perfettamente conto perché siamo cittadini che vivono la realtà quotidiana, vediamo che purtroppo la situazione in Italia peggiora. Peggiora perché nessuno è in grado di spezzare in maniera forte questo giogo a cui ci siamo affidati. Nessuno ha la capacità, la forza e la lungimiranza di dire: “Cari signori, abbiamo tutti lo spirito europeo e siamo tutti per il bene del continente, ma abbiamo completamente sbagliato il sistema di aggregazione“. Dovremmo entrare nell’ordine di idee, senza rinunciare alla mission europea che può essere perseguita per altre strade, di ritornare ognuno alla propria valuta, perché questo darebbe la possibilità di poter gestire, com’è avvenuto in passato, autonomamente la propria economia in maniera ottimale. Anche perché abbiamo visto che la gestione comune purtroppo non è possibile perché, e l’abbiamo visto soprattutto negli ultimi anni, ci sono aree che diventano sempre più ricche e aree che diventano sempre più povere. Queste cose non le dico io ma sono note, tutta la letteratura economica in merito alle Aree Valutarie Ottimali (le AVO) lo dice da sempre: non si è mai verificato nella storia che un’area valutaria con le caratteristiche simili a quella dell’Unione Europea abbia avuto successo. Purtroppo è così. La postfazione di Alberto Bagnai al mio ultimo libro, “Europa Kaputt“, lo dice in maniera magnifica. Riconoscere i propri errori è un atteggiamento adulto. Non significa una sconfitta, significa riconoscere che si sono fatti degli errori e questo significa essere adulti, essere maturi. Dire: c’abbiamo provato, era una via obbligata, forse, all’inizio, per trovare nuovi equilibri dopo la caduta del Muro di Berlino ma, purtroppo, quegli ideali e quegli obiettivi non sono stati raggiunti. Vogliamo continuare e ostinarci? Questi sono gli effetti. Noi non siamo disponibili. Noi vogliamo rivedere il nostro Paese nel suo giusto ruolo e, siccome siamo perfettamente convinti che l’Italia e gli italiani siano un grandissimo Paese e un grandissimo popolo che hanno delle potenzialità enormi se ben gestite e ben indirizzate, pensiamo che esistano vie diverse per poterle raggiungere. Non è certo questa. D’altronde, quello che mi dispiace e rattrista è che tutti quanti i presidenti del Consiglio, appena ottenuta la fiducia da parte del Parlamento, compiano tutti quanti all’unisono lo stesso rito: vanno alla Corte di Berlino a ribadire la fedeltà, facendo due errori enormi: primo, riconoscono sempre più la leadership tedesca e, soprattutto, certificano in questo modo la bontà della politica economica da loro imposta che, invece, non va bene. La stabilità dei prezzi e il contenimento dell’inflazione, che è il loro chiodo fisso, non si sposa con i modelli economici degli altri Paesi. Un esempio per tutti: cosa ce ne facciamo noi di un’inflazione che è ormai all’1.1% se poi, per poterla perseguire, ci ritroviamo con una disoccupazione ai massimi? Noi ai tempi dell’inflazione a due cifre avevamo, però, la disoccupazione ai minimi, perché il nostro modello prevedeva questo effetto. Purtroppo ci siamo affidati al modello tedesco, sapendo benissimo che da noi non erano replicabili tutte le riforme e tutta la disciplina che, invece, era stata compiuta preventivamente in Germania. Ma questo non significa dannarsi, è un esperimento che purtroppo è andato male, abbiamo ancora uno spazio di sovranità che ci consente di tornare indietro, utilizziamolo! L’ostinazione, invece, di rimanere in questa condizione ci ucciderà ulteriormente.
Ritiene che attualmente esista una forza politica in grado di canalizzare una battaglia contro l’euro? E come valuta le recenti posizioni di Beppe Grillo e del suo movimento?
Innanzitutto tengo a precisare che sono indipendente: non ho fatto parte e non faccio parte di nessun tipo di coalizione politica. Ho notato, chiaramente, che ultimamente ci sono stati diversi partiti politici, a cominciare dal Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, ma anche il Pdl (o Forza Italia?) di Berlusconi e la stessa Lega che si sono espressi in maniera estremamente critica nei confronti dell’euro. Però, con la stessa sincerità, debbo dire che sono tutti interventi “spot“, non sono finalizzati in maniera precisa. Si leggono dei comunicati, poi per 15 giorni non si sente nulla e, magari, dopo si ritorna sull’argomento. Per poter, invece, affrontare seriamente quest’argomento è necessario avere delle idee estremamente chiare e perseguirle. Attualmente, dico la verità, questo disegno preciso ancora mi sfugge.
L’Europa corre, secondo Lei, un reale pericolo democratico dato che, attualmente, la maggior parte delle forze politiche anti-euro e anti-UE si rifanno, nella maggior parte dei casi, a ideologie di estrema destra, dal Front National francese ad Alba Dorata in Grecia?
Questo è un problema molto serio e si rifà ai concetti espressi precedentemente. Quando ho detto che questo modello economico imposto dalla Germania non va bene per gli altri Paesi, è perché il modello prevede il contenimento dei prezzi, cioè dell’inflazione. Perché? Perché i tedeschi, proveniendo dall’esperienza della Repubblica di Weimar che fu dilaniata dall’iper-inflazione, pensano che essa abbia spianato la strada all’ascesa del Nazismo. L’errore, però, è proprio qui: non è stata l’inflazione a favorire l’avvento del Nazismo, ma sono state le politiche deflazionistiche per contenere l’inflazione. E le politiche deflazionistiche, ricordo, sono: il taglio della spesa pubblica in maniera lineare, licenziamenti, taglio del welfare e del sociale. Cioè le stesse politiche proposte attualmente dai vari governi dell’area euro e vediamo che, laddove sono state proposte con maggiore forza, come ad esempio in Grecia, hanno prodotto la nascita di partiti estremistici, che è esattamente ciò che è avvenuto negli anni ’30 in Germania dopo la Repubblica di Weimar. Hitler andò al potere proprio per la protesta nei confronti delle politiche deflazionistiche. La storia si ripete sempre e io dico: attenzione, perché chi non conosce la storia è condannato a riviverla. Ne vale la pena? Stiamo attenti, siamo nel 2013, ma anche questo è un enorme pericolo che dobbiamo valutare. D’altronde, anche dall’altra parte non è che la democrazia è esaltata: vediamo, infatti, che l’Europa è in mano a un’oligarchia autoreferenziale composta da personaggi non eletti direttamente dai cittadini, ma da accordi sottobanco fra Stati e di scarsissimo profilo. Tutta la Commissione Europea, purtroppo, è infatti governata da persone che non è che abbiano avuto nei rispettivi Paesi delle grandi storie alle proprie spalle, né politiche né tantomeno tecniche e professionali, ma ce li ritroviamo però a gestire delle situazioni estremamente complesse e ne vediamo, poi, i risultati.
Se molti economisti, e non solo, concordano sul fallimento dell’euro, diverse sono però le proposte per il suo superamento. Quali sono le sue proposte in merito?
La storia ci insegna che qualsiasi trattato, qualsiasi accordo a livello internazionale, può essere rivisto, annullato, ripudiato, riscritto. Chi dice, dunque, che ormai abbiamo firmato dei trattati, non dice delle cose corrette. Per poter uscire dall’euro, naturalmente, ci sono vari sistemi: io vorrei evitare, perché sarebbe la cosa più tragica, che ciò avvenga in maniera scomposta, cioè a causa di eventi finanziari esterni che inducano qualche Paese a prendere questa decisione. Uscire dall’euro deve essere, invece, qualcosa di programmato, anche perché in questo modo si potrebbero cogliere le migliori opportunità per la nazione che decida di uscire. Tra l’altro, sappiamo bene da molti rapporti di banche d’affari internazionali che l’Italia, dopo un periodo certamente di aggiustamento, sarebbe il Paese ad averne i maggiori vantaggi. Allora, la domanda che faccio io è questa: ci conviene permanere nell’euro in questa situazione dove c’è un depauperamento costante o prendere la decisione di uscita dall’euro prendendo, magari, all’inizio, sicuramente uno “schiaffone“, ma poi risorgiamo alla grande? Questa è una valutazione da fare, anche perché ci stiamo rendendo conto che questo tipo di impostazione delle regole europee ci ha fatto diventare, di fatto, una colonia tedesca e, per questo, sarebbe il caso di valutare l’opportunità di ritornare ad autodeterminarci riprendendoci la sovranità monetaria. Quando diciamo, infatti, di ritornare alla Lira, questo non vuol dire solo riavere in tasca le nuove lire, che comunque sarebbe una moneta completamente diversa dalla vecchia Lira che abbiamo ormai abbandonato il 31 dicembre 1998 con la determinazione dei cambi fissi, perché l’area euro significa un’unione di cambi fissi e, ricordo, che ad esempio nei confronti del marco noi abbiamo il cambio fisso da 14 anni a 989,999. Per questo ci troviamo in questa situazione. Ma, tornando al discorso di prima, sarebbe il caso di autodeterminarci, perché è molto meglio sbagliare con la propria testa che fare errori molto molto più grossi con la testa degli altri. Questo è ciò che pensiamo e professiamo nel campo dell’università. Abbiamo vicino molte persone che la pensano allo stesso modo: per ora ci esprimiamo con interviste, convegni e non di più. Speriamo che qualcuno ci dia voce, perché pensiamo che non sia un’idea da scartare, anzi tutt’altro da valutare, il fatto di ritornare all’autodeterminazione e alla sovranità monetaria che, ripeto, non significa soltanto ritornare alla moneta di provenienza, ma di poter compiere una politica economica esattamente tarata alle esigenze del Paese e con l‘euro, purtroppo, noi non stiamo facendo nel modo più assoluto gli interessi del nostro Paese e della nostra industria.
Lei ritiene che l’uscita dall’euro necessiti anche l’uscita dall’Unione Europea e dal mercato unico dei beni e dei capitali, cioè dal Liberoscambismo? E come valuta le proposte di alcuni di un ritorno ad alcune forme di protezionismo?
Bisogna valutare le diverse opzioni e, d’altronde, noi abbiamo visto che nell’ambito dell’Unione Europea ci sono 28 Paesi che ne fanno parte, ma soltanto 17 adottano l’euro. Il caso classico è la Polonia, il Paese più vicino da un punto di vista industriale all’Italia, che continua, e in maniera anche piuttosto orgogliosa, a mantenere la propria valuta, lo Zloty, che, fra l’altro, negli ultimi anni si è svalutato del 30% nei confronti dell’euro. Questo gli ha dato la forza per poter essere competitivo e, nonostante la crisi a livello globale, riesce ancora ad avere dei livelli di crescita del proprio Pil rispetto al declino dei paesi della zona euro, a cominciare dall’Italia. D’altra parte, però, continua a far parte dell’Unione Europea prendendosi i vantaggi da questa unione. È chiaro che l’appartenenza all’Unione Europea significherebbe anche una rivisitazione delle regole del mercato comune che, in questo momento, vanno sempre più verso una convergenza nei confronti della moneta unica. Bisognerebbe rivedere, quindi, anche il concetto di partecipazione al mercato comune, che è una cosa diversa dall’Unione Europea. Il mercato comune, infatti, è una cosa e l’Unione Europea è un’altra.
Alcuni critici della moneta unica e della politica europea associano la fine dell’euro e dell’Unione Europea a politiche di Deglobalizzazione. Qual è la sua opinione su tale concetto?
È un concetto molto importante. Si invoca tanto la Globalizzazione, ma per l’Italia cosa ha significato la Globalizzazione? Per noi, purtroppo, ha significato soltanto la delocalizzazione di importanti insediamenti industriali in Italia. Le fabbriche che delocalizzavano in altri Paesi, dalla Romania alla Cina, lo facevano per poter avere un contenimento dei costi che, invece, non gli consentiva la permanenza sul territorio nazionale. Poi, questa produzione delocalizzata serviva, guarda caso, per importare in Italia questi beni a dei prezzi inferiori. Il tutto, però, con il sacrificio di numerosi posti di lavoro, visto che non era certo prevista la mobilità del personale, visto che non credo che molti lavoratori sarebbero stati disponibili a trasferirsi in Cina o in Romania per percepire degli stipendi un terzo, un quarto, un quinto di quelli percepiti in Italia. Bisogna, quindi, anche rivedere il concetto di Globalizzazione perché noi, purtroppo, l’abbiamo intesa in questo modo. Altri Paesi, invece, hanno avuto certamente dei vantaggi perché hanno visto la Globalizzazione come l’insediamento di grandi aree industriali per la conquista di altri mercati. La Volkswagen, ad esempio, ha costruito gli stabilimenti in Cina, non per importare poi i prodotti in Germania, ma per conquistare quei mercati. Il fatto, quindi, di avere quegli insediamenti significava tarare il costo del prodotto finale su quei mercati. Noi, invece, abbiamo fatto l’opposto: abbiamo delocalizzato per poter importare in Italia e avere prezzi inferiori e questo ci ha, purtroppo, messo nelle condizioni di avere un’ulteriore “decrescita” interna. Inoltre, il fatto di appartenere a un’area valutaria che non è certo ottimale come l’euro, ha indotto i Paesi a compiere delle svalutazioni interne, che passano dai salari. La Germania lo ha fatto preventivamente, con la riforma del mercato del lavoro, l’Italia no, anche perché lì esistevano certi presupposti che non sono presenti nel nostro paese. Torniamo, quindi, al discorso che il modello adottato dalla Germania e imposto non è replicabile, poiché non ha funzionato non solo nei confronti dell’Italia, ma anche in tutti gli altri Paesi dell’area europea. Va bene solo per loro, ma a discapito di tutti quanti gli altri.
Siamo arrivati all’ultima domanda. Lei ritiene questa crisi esclusivamente economica oppure, come alcuni l’hanno definita, la ritiene una crisi sistemica? E, per questo, insieme all’euro e all’Unione Europea, bisognerebbe rimettere in discussione anche il concetto, in voga negli ultimi anni, del primato dell’economia sulla politica?
È sicuramente un problema di crisi finanziaria, ma è anche un problema di leadership. In Europa ci siamo resi conto, per nostra sfortuna, che non esiste una leadership da poter contrapporre a quella tedesca. I tedeschi sono sicuramente bravi, gliene do ampiamente atto, ma si trovano in questa condizione proprio perché non c’è nessun altro che possa proporre qualcosa di alternativo. Abbiamo visto, infatti, che negli ultimi anni c’è stato un ricambio politico in tutti i Paesi dell’Unione Europea, tutti i governi hanno dovuto, cioè, cedere il passo alle opposizioni. È avvenuto ovunque tranne che in Germania. Questo significa che esiste un disagio che non è soddisfatto, purtroppo, da proposte politiche alternative e da personalità politiche di alto livello. L’Europa, del resto, è stata fatta dai grandi padri fondatori che, però, purtroppo, non sono stati sostituiti da grandi statisti che potessero contrastare questa deriva a cui stava andando incontro l’Unione Europea. Tale incapacità è dimostrata anche dal fatto che non si è voluto mai dare una regolamentazione a una finanza “virtuale” che non aveva nessun tipo di corrispondenza con l’economia reale dei vari Paesi. Mi riferisco, ad esempio, al mercato dei derivati e vediamo, inoltre, come la maggior parte dei debiti sovrani dell’area euro sono soggetti agli attacchi della finanza speculativa. Per risolvere questo problema l’Unione Europea non ha fatto assolutamente nulla e, per questo, gran parte della responsabilità è anche sua. Questo succede perché non esiste una governance politica di livello che consenta di poter mettere in atto delle regolamentazioni. Per questo l’Italia dovrebbe entrare nell’ordine di idee di avere un Piano B da porre anche come deterrente nei confronti delle pressanti istanze da parte dell’Unione. In poche parole, dirgli: “Guardate che se non fate anche quello che diciamo noi per le nostre esigenze, noi entriamo nell’ordine di idee di valutare l’uscita perché, a queste condizioni, è per noi estremamente penalizzante“. Tutto ciò potrebbe essere fatto solo se ci fosse una classe politica veramente di alto livello e di alto profilo. Il discorso, del resto, è semplice: perché ci siamo attaccati al cosiddetto carro europeo? Perché si pensava che con una tutela di vincoli esterni, la classe politica italiana compisse quegli atti che non sarebbe mai riuscita a fare in maniera autonoma. Questo è stato il motivo vero per il quale l’Italia si è impelagata nel progetto europeo, ma poi ci siamo accorti che, invece, questi vincoli esterni ci hanno praticamente ucciso. Questa è la verità. Se, invece, avessimo una classe politica veramente in grado di poter agire in maniera autonoma, l’Italia riconquisterebbe immediatamente il suo ruolo perché, ripeto, il nostro è un grandissimo Paese e gli italiani sono un grandissimo popolo, ma purtroppo se non lo sai bene indirizzare queste potenzialità non emergono.
* Antonio Maria Rinaldi ha ricoperto numerosi incarichi nel campo finanziario mobiliare, passando dai più prestigiosi istituti bancari alla CONSOB, fino a ricoprire il ruolo di Direttore Generale della Capogruppo finanziaria dell’ENI. Attualmente è docente presso l’università Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara in Finanza aziendale e presso la Link Campus University di Roma in Corporate&Investment Banking e Mercati finanziari&Commercio internazionale. Autore nel 2011 de “Il fallimento dell’euro” e nel 2013 di “Europa Kaputt“. Vincitore del premio giornalistico Lucio Colletti 2013.
Condivido quanto espresso dal Prof. Rinaldi.
Ottimo
articolo. Finalmente la verità sull’€ sta emergendo. In settembre su La7 Luigi Paragone
condurrà una trasmissione sull’inganno dell’€, che ha presentato così: “parlerò
soprattutto di quello di cui in Rai non volevano che parlassi basta vedere da dove vengono i vertici Rai per capire che era difficile parlar male delle banche o fare un programma anti euro”.
Speriamo quindi che in quella trasmissione abbiano spazio il professor Rinaldi, Bagnai, Borghi Aquilini, Lidia Undiemi, e altri che lodevolmente stanno facendo chiarezza sui reali scopi che sono alla base della creazione della moneta unica.