Chi sono gli antipatici? Ce lo racconta Oriana Fallaci
Gli antipatici sono persone comunemente note per essere sgradite, impertinenti, di cattiva compagnia, insomma possibilmente da evitare. Eppure Oriana Fallaci è stata in grado di renderci tali personaggi perfino “simpaticissimi”, nella sua raccolta di interviste, appunto “Gli antipatici”, pubblicata da Rizzoli nel 1963.
Pur riuscendo a creare un’intesa speciale con l’intervistato, pur corteggiandolo e a volte deridendolo in modo celato e indolore, la Fallaci ammette di avere a che fare con personalità troppo appariscenti per i suoi gusti. “La loro celebrità è così vasta, così rumorosa, così esasperante che ci ossessiona, ci tormenta, ci soffoca al punto da farci esclamare: Dio che rompiscatole! Che antipatici!”. Dunque personaggi che si rendono insopportabili anche per il semplice fatto che non si faccia che parlare di loro, di alimentare il “gossip” sulla loro vita, soprattutto quella privata. Dai colloqui con la giornalista, in realtà, si capirà che molte credenze e dicerie su personaggi famosi sono, in fondo, leggende, caricature che tuttavia fanno comodo alla visibilità e alla popolarità dell’interessato. Si tratta di mostri sacri del cinema, dello spettacolo, dello sport, della nobiltà. Parliamo ad esempio di Don Jaime de Mora y Aragón, Nilde Iotti, Federico Fellini, Arletty, Baby Pignatari, Catherine Spaak, Gianni Rivera, Afdera Fonda Franchetti, Antonio Ordoñez, Cayetana d’Alba, Anna Magnani, Giancarlo Menotti, Salvatore Quasimodo, Jeanne Moreau, solo per citarne qualcuno.
Gli antipatici sono interviste pubblicate di volta in volta sull’“Europeo” per cui la Fallaci era un’inviata speciale, spedita in ogni parte del mondo per raggiungere i suoi desiderati ed eccentrici personaggi, a volte davvero stravaganti. Va da sé che non sia stato facile ottenere da loro un’intervista o per lo meno non in un primo momento e non senza fatiche. Esemplare, in questo senso, è stata la ricerca disperata di Federico Fellini, tanto gentleman quanto aguzzo ingannatore, giocoliere di parole, capace di far penare persino una sagace e perspicace giornalista quale Oriana Fallaci. Quest’ultima, dopo aver fissato l’appuntamento in una camera d’albergo al “Famous italian director” (com’era definito all’epoca Fellini con suo immenso compiacimento), è costretta ad attenderlo invano fino all’una di notte, quando deciderà di partire senza aver raccolto nessuno straccio di dichiarazione. Fellini sembra avere sempre una giustificazione plausibile, perdonabile, ora un impedimento materiale, ora una partenza improvvisa. Tant’è che alla fine i due si mettono d’accordo per ritrovarsi sullo stesso aereo per Milano. Inutile dire che egli manca anche a quest’appuntamento. Superfluo aggiungere che la Fallaci non sa e non vuole reprimere il suo astio per un regista tanto tiranno e lunatico. Il risultato? Un’infuriata esasperata di Fellini contro le lamentele della giornalista. Soltanto dopo varie tiritere, il regista si placa per lascarsi andare a una piacevole chiacchierata con il suo “tesorino, amorino, Orianina, bambina” come la chiama lui quando deve farsi perdonare.
Tutti questi preamboli ci sono noti perché la Fallaci li descrive all’inizio di ogni colloquio, espone le sue personali impressioni sul soggetto esaminato, le sue aspettative, le conclusioni e a volte le delusioni. Lei sa bene che il giornalismo dovrebbe fondarsi su quel comandamento inoppugnabile che è l’oggettività, ma se ne infischia esplicitamente. Per lei l’imparzialità è impossibile. “L’obiettività è ipocrisia, presunzione: poiché parte dal presupposto che chi fornisce una notizia o un ritratto abbia scoperto il vero del Vero».
Tra l’altro, la giornalista non nasconde neanche i suoi giudizi impietosi su certi personaggi. Descrive Hitchcock come una foca piena di lardo, insensibile alle donne, mostruoso, un uomo che gode a provocare angoscia e spavento nel suo prossimo. Un regista che sa di aver trovato la formula del successo nella tecnica della suspense. Tutta l’ammirazione e l’eccitazione che la Fallaci avvertiva dentro di sé prima di incontrarlo, svaniscono bruscamente non appena sonda in modo più capillare la personalità di Hitchcock. Ecco, lui è proprio un antipatico, nel vero senso della parola. E come darle torto. Come non odiare almeno un pochino un regista capace di compiacersi se qualche assassino imita le stesse tecniche omicide proposte nei suoi film.
Ancora. La giornalista deve lottare con quasi tutti gli intervistati perché si rifiutano di lasciare dichiarazioni sapendo di essere registrati dal quel “pappagallo” del magnetofono. Questo “coso” come lo definiscono loro, li innervosisce, li intimidisce, li rende irritabili. Ovviamente la Fallaci non si smuove facilmente e li costringe a parlare comunque, anche se ciò rende l’intervista un assemblaggio di frasi scollegate che lei deve pazientemente ricostruire come un collage. Questo è il caso, in particolar modo, di Porfirio Rubirosa, conosciuto come il grande seduttore.
Per giunta, davvero commovente è il faccia a faccia con Natalia Ginzburg, vedova di Leone Ginzburg, morto a trentaquattro anni, dopo essere stato torturato dai nazisti. Natalia ci insegna che il dolore lascia sempre le sue tracce anche in una donna che, come lei, non è più capace di piangere. “Non guariremo più da questa guerra. Non saremo più gente tranquilla. Una volta sofferta l’esperienza del male, non si dimentica più”. La vicenda della Resistenza rievoca in Oriana i suoi opprimenti ricordi da bambina, quando faceva da spola tra un partigiano e l’altro e viveva con il terrore che di essere scoperta dai tedeschi. Le osservazioni della Fallaci sono perle di riflessione che si soffermano sulla polarità tra due donne vissute nello stesso spaccato storico. Oriana non riesce a trattenere le lacrime e fa un duro sforzo per rimanere una giornalista “tutta d’un pezzo”. Natalia, pur parlando della sua esperienza personale, non si lascia andare a sentimentalismi e racconta tutto in modo distaccato, come se quei ricordi non appartenessero a lei.
Forte è l’impegno della Fallaci affinché non si dimentichi. Forte è il suo astio per tutti quei giovani disinteressati verso un passato così recente che ha permesso loro di vivere in un benessere vergognosamente svogliato e smemorato. Naturalmente qui Oriana ha dovuto fare una precisazione, e cioè che, mai come in questa intervista, l’appellativo di antipatica poco, anzi pochissimo, si addice alla signora Ginzburg.
Il magnetofono della giornalista ingurgita tutte le parole, le esitazioni e le debolezze delle sue “vittime” di turno. Tant’è che nella trascrizione si ritrovano estratti di conversazione per nulla attinenti con le domande dell’intervistatrice. Pezzi di telefonate con gente estranea alla conversazione, lamentele degli intervistati, ora per un’incombenza, ora per un’interruzione, ma tutto è studiato per rendere vera e percepibile la conversazione, per dipingere i soggetti pure nella loro vita quotidiana. Inoltre, la giornalista si diverte a sottolineare certi ticchi linguistici dei suoi “antipatici”, ad esempio: ”Ecco. E poi niente. Ecco”. Oppure una certa ripetizione nelle risposte come quelle offerte dalla duchessa d’Alba che su tutte le nobildonne sa commentare soltanto con “molto carina, molto gentile”. Alcuni vizi linguistici, però, sono indice anche di ossessioni psicologiche, ad esempio è il caso di Salvatore Quasimodo che, ancora sconcertato per aver ricevuto un premio Nobel, non può fare a meno di inserire la parola “nobel” in due frasi su tre.
Quante storie si possono conoscere leggendo queste interviste e quante personalità si possono interpretare affidandosi all’estro creativo e allo spirito di osservazione della Fallaci. Uno stile piuttosto che un altro può fare la differenza sulla biografia di un autore, in certi casi può decidere le sorti della sua memoria e trarne un giudizio positivo o negativo a seconda dei casi. Certe riflessioni della giornalista disseminate in questa raccolta -ora finalmente ripubblicata dalla Bur Rizzoli– non dovrebbero essere poste nell’oblio.
Ecco una perla di saggezza della Fallaci ricavata dalla sua esperienza a tu per tu con i suoi antipatici: “Avevo compreso che nel mestiere di scrivere non esistono insegnamenti o consigli, bisogna scrivere soli, senza imitare nessuno, attingendo scoperte dai nostri errori e dalla nostra fatica che è la fatica più solitaria del mondo”. Anche l’antipatia può riservare sorprese e, a volte, può dare i suoi frutti.