Nella fiction Braccialetti rossi i piccoli malati sono eroi da imitare, e le corsie dell’ ospedale diventano fiabesco palcoscenico, innalzandosi a metafora della vita stessa
La fiction Braccialetti rossi, la cui regia é di Giacomo Campiotti, ha finora sfiorato i sette milioni di telespettatori, raccogliendo un’ampia fascia di pubblico giovanile, e diventando un vero e proprio fenomeno mediatico. Ispirato alla versione della tv spagnola Pulseras rojas, a sua volta un doppiaggio dell’originaria catalana Polseres Vermelles, il format della fiction é stato acquistato anche da Steven Spielberg, in vista di un adattamento americano della miniserie, che si intitolerà The Red Band Society.
Gli episodi si svolgono nel reparto pediatrico di un ospedale, e narra le vicende di sei piccoli pazienti (età compresa fra gli undici e sedici anni), che decidono di formare un gruppo, il cui segno distintivo é un braccialetto di plastica rosso, lo stesso che viene indossato durante un intervento chirurgico. I personaggi, Leo (Carmine Buschini) e Vale (Brando Pacitto), seppur molto diversi caratterialmente (essendo il primo più impulsivo e determinato, e il secondo più riflessivo ed introverso) hanno tratti in comune con lo scrittore e regista (nonché ingegnere) barcellonese Albert Espinosa, che ha ideato la fiction, scrivendo anche un libro autobiografico. Albert, che oggi ha quarant’anni, da ragazzo ha trascorso un lunghissimo periodo lottando contro una forma di tumore osseo, l’osteosarcoma, che lo ha costretto a molte ospedalizzazioni e a ripetuti cicli di chemioterapia. Anche lui, proprio come Leo e Vale, ha dovuto amputare una gamba e ha organizzato, la sera prima dell’intervento, una festa di ‘addio‘, danzando per l’ultima volta grazie a un’infermiera, che nella fiction viene invece sostituita da una coetanea malata di anoressia, Cris (Aurora Ruffino).
La fiction “Braccialetti rossi” si concentra anche su coloro che, nel suo libro, Espinosa definisce gli appartenenti al cosiddetto ‘mondo giallo‘, una dimensione che consiste nell’incontro con persone speciali, con cui condividiamo un pezzetto di vita, che ci arricchiscono con uno scambio di confidenze e di abbracci, ovvero con ciò che negli ospedali, come scrive l’autore, viene sostituito da distaccate e mortali ‘pacche sulle spalle‘. Il ‘giallo‘, ovvero l’amarillos, che ha le stesse iniziali dell’amicizia (amistad) e dell’amore (amor), é colui che possiamo incontrare in qualsiasi momento e circostanza della nostra vita ma che, nel contesto del ricovero, é il nostro compagno di stanza, ovvero colui (o colei) che ha il privilegio di darci la buonanotte (quindi accompagnarci al nostro ‘abbandono‘) e di assistere al nostro risveglio la mattina, un momento che significa rinascita e che vale più di mille discorsi. Il ‘giallo‘ é colui che compare nella nostra vita quasi per caso, un po’ come un fiore che sboccia all’improvviso e, così come é arrivato a un certo punto svanisce, e questo ci riempie di gioia, perché significa che la vita si sta rinnovando, anche se implica una perdita. Si parla, quindi, anche dei tanti ‘no‘ che la vita stessa ci impone, ma solo per giungere nel regno di altre possibilità, per potenziare qualità che mai ci saremmo immaginati di avere e, soprattutto, per continuare a vivere anche per coloro che non ce l’hanno fatta.
Nell’ambito della fiction “Braccialetti rossi” (che nulla ha a che fare con un morboso e squallido reality, irrispettoso dell’altrui sofferenza) tutto diviene possibile anche che chi é comparsa, nella vita diventi protagonista del racconto. I rigidi ruoli gerarchici e le regole dell’ambito ospedaliero vengono carnevalescamente, o meglio, adolescenzialmente, messi in discussione. Si esce di nascosto (seppur sempre per motivi nobili), si dipinge sui muri dell’asettico reparto oncologico, si partecipa a una partita di poker clandestina, si organizza una gara nell’ambito della cucina. Albert Espinosa a questo proposito evidenzia l’importanza dei contrasti, che divengono curativi, poiché servono a combattere quella noia che uccide più della malattia stessa:
L’infanzia, l’adolescenza o l’età adulta devono essere vissute anche se sei malato. Ma per poterlo fare ci vuole la pista su cui correre, il palcoscenico sul quale uscire. A volte negli ospedali manca il contrasto, e nella vita l’unione degli opposti è fondamentale; sono convinto che abbia qualcosa di magico. (Albert Espinosa, Braccialetti rossi. Il mondo giallo. Salani Editore, 2008, p. 90)
L’idea introdurre il colore, il comico, il dissacrante all’interno degli algidi ospedali pediatrici (ma non solo) venne introdotta negli anni Ottanta dal medico statunitense Hunter Doherty Adams, per tutti noto come ‘Patch‘ Adams, ideatore della ‘clownterapia‘. ‘Patch‘ Adams partiva dal presupposto che il senso dell’umorismo, non aiuta solo lo spirito, ma compie all’interno dell’organismo dei mutamenti positivi (come ad esempio il rilascio di endorfine e l’inibizione del cortisolo), che contribuiscono al processo di guarigione stesso.
Il prof. Franco Mandelli, presidente dell’A.I.L., scrive:
Grazie al nostro ‘Teatro e non solo…’ c’è un giorno all’anno in cui si rimescolano le parti, un giorno in cui si é buoni o cattivi solo per gioco, un giorno speciale, in cui i ruoli fissi di ognuno vengono gioiosamente messi da parte. (Franco Mandelli, Ho sognato un mondo senza cancro, Ed. Sperling & Kupfer, 2010, p. 190)
Ogni elemento del gruppo, un po’ come avviene in una rappresentazione teatrale, ha un ruolo che lo definisce: il leader, il vice-leader, il bello, il furbo, l’imprescindibile, la ragazza. Pur tuttavia, il senso di solidarietà mantiene, e anzi rinforza in meglio, la complessità dei caratteri individuali. Su questo ‘palcoscenico‘, dai tratti un po’ fiabeschi, l”imprescindibile‘ diventa colui che é più fragile , ovvero Rocco (Lorenzo Guidi), un bimbo rimasto in coma in seguito a un salto dal trampolino più alto di una piscina. Al centro della scena si pone il letto di questo piccolo ricoverato, dal quale i ragazzi si allontanano quando avventurosamente agiscono e intorno al quale si raccolgono quando riflettono. Si crea quindi anche un ponte fra l’ovattato interno dell’ospedale e il tendenzioso esterno di esso.
Il prof. Franco Mandelli, oltre alla recitazione, evidenzia anche l’importanza della scrittura creativa:
Poter scrivere , esternare attraverso le parole scritte, le proprie ansie, paure, gioie, speranze , è qualcosa che a volte serve più di tante terapie. Per questo è nato, nel 1991, Il Chiacchierone, giornalino interamente redatto dai bambini del reparto di ematologia pediatrica. Il titolo non é casuale, visto che lo scopo é proprio quello di chiacchierare, ridere, scherzare e insieme riflettere, sì, ma in modo colloquiale, leggero, potendo dire e scrivere ciò che si vuole, condividendolo con gli altri. (Franco Mandelli, op.cit., p.192)
Il piccolo Rocco è in uno stato di incoscienza, ma paradossalmente partecipe, perché diventa voce narrante, raccontando le sue personali impressioni, e rielaborando ciò che avviene intorno a lui, proprio come se scrivesse sul giornalino descritto dal prof. Mandelli. Ma non solo. La sua anima, sospesa in un surreale limbo, comunica con Tony (Pio Piscicelli), lo ‘scugnizzo‘ napoletano ricoverato per via di un incidente in motocicletta, in una forma di esperienza sensitiva e paranormale. Su questo piano, che procede parallelamente alla cruda concretezza della sala operatoria, Tony riesce a percepire l’addio e gli ultimi messaggi di Davide (Mirko Trovato), che non riuscirà a superare un delicato intervento al cuore. Perfino il passaggio dalla vita alla morte ci proietta verso una dimensione fantastica, dove gli affetti scomparsi ci vengono incontro per accompagnarci verso la Luce.
Il pubblico giovanile è certamente il target di una colonna sonora che, oltre alle canzoni inedite di Niccolò Agliardi, include le più celebri melodie di Vasco Rossi, Tiziano Ferro e Laura Pausini. Pur tuttavia, se molti ragazzi si sono identificati nei ‘braccialetti rossi‘, ciò significa che i deboli, gli emarginati, i sottaciuti sono soprendentemente diventati eroi da imitare. In un mondo adolescenziale dove ci si toglie la vita per un brutto voto o per un insulto su un social network, questi sei piccoli ricoverati, con grande forza d’animo, e sostenendosi a vicenda, riescono a fronteggiare le più dure prove della vita. L’incredibile forza, e quindi la solo apparente debolezza, di questi ragazzi non è affatto inverosimile. Vanessa, una piccola paziente del prof. Mandelli, ha lottato contro un tumore al sangue dai tredici ai vent’anni, venendone alla fine sconfitta. Pur tuttavia, nel suo diario, scrive:
Con i bambini imparo a conoscere meglio il loro mondo, a voler socializzare, e resto stupefatta di come si interessano della terapia e di come sanno affrontarla. Sembrano persone già adulte e mature. ( Franco Mandelli, op.cit.,.p.172)
Ho detto che la mia vita non la cambierei con nessuna, e che quando morirò sarò completamente guarita. Prima di ciò niente e nessuno mi butterà giù. Ci sono poi altri milioni di motivi per cui oggi, in questo bilancio dei miei vent’anni, affermo con decisione e certezza di essere una ragazza veramente felice e fortunata, come pochi lo sono! (ibidem, p;180)
Nella fiction Braccialetti rossi, dai tratti onirici e poetici, si delinea un’ambientazione senza connotazioni geografiche. Non viene mai menzionato dove la vicenda si svolge (anche se sappiamo che la fiction é stata girata a Fasano, in provincia di Brindisi, nel Centro Internazionale Alti Studi Universitari), vediamo solo un edificio immerso nel verde e a due passi dal mare, come su un’ isola sospesa dal resto del mondo. I ragazzi non hanno bisogno di comunicare attraverso aggeggi meccanici, ed è proprio questo che, per Espinosa, fa la differenza fra le amicizie di un tempo e quelle di oggi:
Ma il concetto di amico, il suo ruolo, non può essere lo stesso nell’epoca tecnologica in cui viviamo, e i rapporti sociali ne risentono. (Albert Espinosa, op.cit., p. 124)
I ragazzi non sono soli, non sperimentano quindi il più grande male dei nostri tempi, ma sono vicini anche fisicamente, sia per un abbraccio che per una presa a pugni. In linea di massima, non hanno bisogno di raggiungersi tramite telefonini o Facebook, con forme virtuali di comunicazione. La posta elettronica e gli SMS vengono addirittura sostituiti dal potere della mente, dalla telepatia, o con degli ormai anacronistici cercapersone. I ‘braccialetti rossi‘, seppur con uno speciale permesso, possono raggiungere e giocare al sole, il che rammenta vagamente quel parco pomeridiano di altri tempi, quando il divertimento era allo stato puro, e non solo parte di doposcuola o di attività extrascolastiche.
In questo spirito di gruppo, che sembra più consono a una gita scolastica che a un ricovero, l’amarezza della realtà non può che irrompere quando meno ce lo aspettiamo e lasciandoci spiazzati. Pur tuttavia la malattia, un po’ come in un goethiano Bildungsroman, fa compiere un cammino educativo, di formazione. È quella scuola della vita che non si impara sui libri. ll piccolo Davide, che inizialmente si pone come un ragazzino scontroso e insofferente (e con un padre che lo riempie di regali per compensare la sua assenza), riesce a far emergere un inaspettato equilibrio, al punto da affrontare prove enormi con serenità, nel timore di preoccupare chi gli vuole bene.
Anche il mondo degli adulti, ovviamente, ha il suo spazio, ma sono loro che, sempre in un suggestivo rovesciamento di ruoli, diventano bambini. Quando Cris esce di nascosto dall’ ospedale per recuperare il regalo che la mamma di Leo gli aveva lasciato prima di morire, si imbatte nel depresso padre del ragazzo e gli infonde una lezione di coraggio. Analogamente, il papà di Davide crescerà solo nel momento in cui, dopo la morte del figlio, diventerà lui stesso un ‘braccialetto rosso‘. È quindi l’adulto che, in un certo qual modo, viene assistito, e non viceversa. L’unico ‘grande‘ che è e resta una specie di saggia figura paterna è il paziente al quale è stato diagnosticato l’Alzheimer, e quindi colui che nello spirito sta ‘tornando bambino‘.
Il merito della fiction “Braccialetti rossi“, chiaramente, è anche quella di aver affrontato argomenti e posto domande che solitamente sono sottaciute, relegate in un angolo. Solo interrogarsi sui protocolli, o riflettere sul fatto che dei ragazzi vengano trasferiti in reparti per adulti, o domandarsi come far convivere costruttivamente piccoli pazienti dalle diverse problematiche (sempre basandosi sulla splendida logica del contrasto, l’anoressica Cris condivide la stanza con l’obesa Olga), sono questioni che aprirebbero un lunghissimo dibattito. Forse è proprio per questo che la fiction ha riscosso assai più consensi che critiche, per il fatto che si è comunque squarciato, seppur anche solo embrionalmente o indirettamente, un velo di silenzio, di ipocrisia.
In una sceneggiatura quindi coraggiosa, che tutto compie tranne che una scontata polemica sociale, le parole tabù non sono ‘morte‘ e ‘cancro‘, ma semmai la micidiale parola ‘denaro‘. Le questioni materiali praticamente non esistono, tranne quando Cris presta a Leo dei soldi per comprare una protesi che gli permetterà di camminare, o quando i ragazzi dovranno lasciare un orologio in pegno a un fioraio per partecipare al funerale del loro amico Davide. In questa fiction non si parla di malasanità, di tagli alla spesa pubblica, di corruzione, di ospedali con strutture migliori rispetto ad altre, oppure di bambini di serie A (ricchi) e di bambini di serie B (poveri). Tutti, sempre entro gli umani limiti, possono curarsi al meglio, senza discriminazioni di alcun tipo. E questa, sicuramente, è l’utopia più bella.