Il 4 aprile il grande filologo e semiologo Cesare Segre, scomparso il 16 marzo a Milano, avrebbe compiuto 86 anni
Cesare Segre è scomparso pochi giorni fa, a Milano, alla vigilia dei suoi 86 anni. Ho qui, accanto a me, due suoi libri; due libri non casuali, indicativi dalle copertine – cui Giulio Einaudi mostrava sempre grande attenzione – di due periodi diversi: il primo, I segni e la critica, è del 1969 ed è, a mio parere, uno dei suoi scritti più interessanti; il secondo è Critica e critici del 2012, il suo ultimo volume, ideale chiusura di una serie iniziata nel 1969 e proseguita con opere come Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria? (1993) e Ritorno alla critica (2001).
Ed è nel segno di questa parola, “critica”, che credo vada letta la sua opera – che spazia dalla filologia alla semiotica, dalla riflessione sulla lingua a quella stilistica – per cui a febbraio gli era stato dedicato un prestigioso “Meridiano”, omaggio finale alla sua lunga carriera di studioso dei “boschi narrativi” – per rubare il titolo a un libro di Umberto Eco. Cesare Segre di boschi letterari ne ha studiati tanti, e li ha anche raccontati con ironia, come in Dieci prove di fantasia (2010): da sempre interessato allo studio della prosa italiana e della sua storia, pubblica nel 1963 uno dei suoi libri più importanti, Lingua, stile e società, in cui coniuga l’interesse per i testi medievali e rinascimentali con quello per la cultura e la società. E fondamentali rimangono le sue edizioni critiche della Chanson de Roland, delle Satire e (con lo zio Santorre Debenedetti) dell’Orlando furioso di Ariosto.
Ma per comprendere dall’inizio il suo percorso biografico e intellettuale, possiamo leggere lo stesso Cesare Segre che, nel 1999, mette mano (sempre per Einaudi) a “una specie di autobiografia”, Per curiosità, già dal titolo espressione della sua discrezione ed eleganza, che era anche stilistica: “irraggiungibile – scrive Gian Luigi Beccaria – il suo modo lucido, asciutto, di esporre con semplicità concetti complessi, senza sfoggi di erudizione”. Da lui sappiamo che nasce nel 1928 a Verzuolo (Cuneo) da famiglia ebraica.
Quando il fascismo approva le leggi razziali è quasi un ragazzo e, per sfuggire alla deportazione nei campi di concentramento dove perderà molti familiari e amici, è costretto a rifugiarsi sotto falso nome in un collegio di Salesiani. Di qui, il suo rapporto con un tema che in questa autobiografia trova ampio spazio, quello della Shoah, considerata come un “termometro dell’etica collettiva europea” – che certamente influenza la sua concezione della “centralità dell’etica nell’attività letteraria” e, quindi, il problema della responsabilità dell’autore, la cui opera non ha, secondo Cesare Segre, una “vita propria”, cioè “non può prescindere dalla realtà nella quale viene elaborata”. Completati gli studi a Torino, dove segue i corsi di glottologia e storia della lingua italiana di Benvenuto Terracini con cui si laurea nel 1950, quattro anni dopo ottiene la libera docenza in filologia romanza insegnando prima all’Università di Trieste e poi in quella di Pavia – vivacissimo centro culturale dedicato agli studi filologici e letterari (si pensi al Fondo Manoscritti di autori Moderni e Contemporanei fondato dall’instancabile Maria Corti), ma anche semiotici e strutturalisti.
Quanto alla semiotica, nel 1953 Ferruccio Rossi-Landi pubblica una monografia su Charles Morris, probabilmente il primo libro sul tema, ma – come ricorda la Corti nel suo Metodi e fantasmi (1969) – è Aldo Rossi a far entrare per la prima volta questa disciplina in Italia recensendo, a metà degli anni Sessanta, la rivista francese Communications (n. 4) e offrendo un resoconto del primo convengo internazionale di semiologia a Kazimierz (Polonia), in cui “diede la prima panoramica degli studi semiologici europei, e in particolare russi” (da non dimenticare poi, sulla stessa linea, l’antologia curata nel 1969 da Faccani e da Eco sui Sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico). Ma saranno proprio la Corti e Cesare Segre (che, oltre a essere Accademico della Crusca, sarà anche presidente dell’International Association for Semiotic Studies) a diffondere le nuove istanze semiotiche e lo strutturalismo, dando alle stampe nel 1965 un’inchiesta (allegata al Catalogo generale del Saggiatore) su Strutturalismo e critica, nel 1966 (insieme a D’Arco Silvio Avalle e Dante Isella) la rivista Strumenti critici, e infine nel 1970 I metodi attuali della critica in Italia.
Strutturalismo che (occorre ricordarlo) spesso non si riesce a distinguere dalla semiotica (o semiologia, come viene ancora chiamata) – disciplina che affonda le sue radici nell’antichità, che trova la sua fondazione con Saussure e Peirce, e che torna al centro del dibattito culturale proprio con i mitici Eléments de sémiologie (1964) di Barthes. E sarà sempre Cesare Segre uno dei protagonisti di questo nuovo panorama culturale Fra strutturalismo e semiologia – come recita il sottotitolo del suo fondamentale volume del 1969 – nel quale l’anno precedente si era inserita anche La struttura assente di Eco.
È anche vero che negli anni Novanta (in un’intervista al Corriere) Cesare Segre dichiarerà la sua delusione per lo stato della semiotica in Italia: “Ho l’impressione che molta semiotica sia troppo superficiale, priva di basi teoriche e storiche. Non ho mai accettato la semiotica come moda o come metodo elementare. Per questo credo che sia importante, prima di fare analisi semiotiche, possedere gli strumenti filologici e linguistici”. Qui Segre non solo rivendica le ragioni della semiotica letteraria, i cui studiosi “sono esclusi dalla disciplina, almeno sul piano universitario” per lasciare spazio a “raggruppamenti astratti che privilegiano la filosofia del linguaggio e la linguistica, senza tener conto degli sviluppi migliori della semiotica in Italia”; ma ci avverte di una crisi – e non è un caso che Kant e l’ornitorinco di Eco sarà accolto nel 1997 come un saggio in difesa di una disciplina che alcuni considerano al tramonto.
Ho visto l’ultima volta Cesare Segre a Torino, al Salone del Libro. Era il 2012, e ricordava Giulio Einaudi nel centenario della nascita; quell’Einaudi, sua casa editrice di sempre, a cui ha consegnato pagine memorabili, che continueranno a essere lette come contributo fondamentale alla storia della critica e della cultura.
P.S. Mentre scrivo un altro grande frequentatore di boschi narrativi se ne va: anche lui filologo, critico letterario, Ezio Raimondi è scomparso a Bologna. Aveva 89 anni, ne avrebbe compiuti 90 il prossimo 22 marzo. Condivideva con Cesare Segre il valore della critica e il nesso tra etica e letteratura: Un’etica del lettore s’intitola appunto un suo piccolo libro del 2007; ma è forse nel suo ultimo testo Le voci dei libri (2012) che si respira tutta l’essenza di quello che ci ha lasciato.