La guerra nella Storia: dalla Grecia alla Siria
“L‘idea più stravagante che possa nascere nella testa di un politico è quella di credere che sia sufficiente per un popolo entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero per fargli adottare le sue leggi e la sua costituzione. Nessuno ama i missionari armati; il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di respingerli come nemici”. Sembrano frasi pronunciate in questi giorni, in realtà risalgono al 1792: in piena Rivoluzione, dal club dei giacobini, Robespierre lanciava i suoi moniti contro la volontà di dichiarare guerra all’Austria, sostenuta dai girondini, il “partito della guerra”. E già l’anno prima aveva avvertito del pericolo l’Assemblea legislativa: “La guerra è sempre il principale desiderio di un governo potente, che vuol divenire ancor più potente. Non ho bisogno di dirvi che è proprio durante la guerra che […] il governo copre con un velo impenetrabile i suoi latrocini e i suoi errori. Vi parlerò invece di ciò che tocca direttamente i nostri interessi. È proprio durante la guerra che il potere esecutivo dispiega la sua terribile energia ed esercita una specie di dittatura, la quale atterrisce la libertà. È durante la guerra che il popolo dimentica le deliberazioni che riguardano i suoi diritti civili e politici”.
Il resto è storia nota: Robespierre fallì nel suo intento e prevalse la linea bellicista di Brissot e Dumouriez; dopo una serie di sconfitte, l’esercito francese riuscì a riprendersi ottenendo alcune inaspettate vittorie, come quelle di Valmy e Jammapes, cui seguirono nel 1793, dopo l’abolizione della monarchia, il processo e la condanna a morte di Luigi XVI. E di qui, attraverso la fine del Terrore, il Termidoro, il Direttorio e il Consolato, si aprirono le porte all’Impero di “Bonaparte liberatore”, secondo una celebre orazione di Foscolo, con il quale – scrive Luciano Canfora – “la guerra che portava libertà e democrazia al resto d‘Europa si trasformò in guerra di conquista ammantata da un sempre meno credibile paravento ideologico”. Questo è solo uno dei tanti, fallimentari, esempi, che documentano la pretesa di Esportare la libertà (la Rivoluzione nel caso francese), tema a cui Canfora, coniugando analisi storiche e contemporanee, con correttezza filologica e rigore storiografico, ha dedicato nel 2007 un piccolo ma denso pamphlet.
È uno dei tanti, dicevo, perché i primi protagonisti di questa storia sono i greci, in particolare gli ateniesi che, dopo aver liberato i greci d’Asia dalla minaccia persiana, assunsero il ruolo di “Stato–guida” imponendo, a quelli che ormai erano diventati sudditi, controllo e repressione. La prima a ribellarsi fu l’isola di Samo che, dopo una lunga guerra, dovette arrendersi alla forza dell’“impero” ateniese, così la piccola Melo, finché Sparta, raccolti i malumori verso Atene, poté presentarsi come l’unica grande potenza in grado di “ri–portare la libertà ai greci”. Ci vollero trent’anni prima che questo avvenne, prima che Atene passasse il testimone a Sparta (che riuscì nell’impresa solo con l’aiuto finanziario dei persiani), e ci volle una guerra, la “grande guerra del Peloponneso”. Il terzo esempio che porta Canfora riguarda l’Unione Sovietica che, tra il 1942 e il 1943, sbarrò la strada, a Stalingrado (dal 1956 Volgograd), all’invasione nazista, conquistando un prestigio imprevedibile per aver “portato la libertà” all’Europa, poi entrato in crisi con la sanguinosa repressione ungherese del 1956, lucidamente analizzata da Jean-Paul Sartre nel Fantasma di Stalin: “L‘URSS non ha colonizzato né sfruttato sistematicamente le democrazie popolari. La verità è che le ha oppresse per otto anni. Poteva cercare di conquistarsi la loro amicizia, e invece deliberatamente, per pessimismo e per disprezzo, ha preferito la costrizione […] non ha saputo né voluto infrangere il suo guscio di abitudine alla diffidenza per adattarsi alla nuova situazione ed assumere la leadership dell‘Europa centrale. […] Questi alleati oppressi, rovinati, trattati come gente infida sono diventati sempre meno sicuri”.
Uno degli ultimi capitoli di questa storia, che come abbiamo visto si ripete sempre uguale nei secoli, è dedicato al racconto delle vicende afghana e irachena. L’Afghanistan, al centro del “grande gioco” tra Russia, Cina e Inghilterra, fu dapprima invaso nel 1979 dai sovietici, con la scusa di liberarlo dalla dittatura filocinese presto rimpiazzata da una fazione filosovietica, per poi essere occupato nel 2001, dopo gli attentati dell’11 settembre, dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di porre fine al regime dei talebani e distruggere la rete terroristica di Al-Qaida guidata da Osama Bin Laden. Emblematico è anche, nel 2003, l’attacco all’Iraq di Saddam Hussein, accusato dagli Stati Uniti di possedere armi chimiche e di distruzione di massa, invenzione studiata a tavolino poi sostituita, ancora una volta, con la necessità di “esportare la libertà” e la democrazia: tentativo ovviamente fallito (e di cui ancora oggi si pagano le conseguenze), che ha gettato l’Iraq in una situazione di guerra civile (Obama ha fatto ritirare le truppe americane nel 2010). Protagonisti indiscussi di queste vicende, gli Stati Uniti si sono imposti come i nuovi greci: dopo la dissoluzione dell’URSS, hanno dominato gli equilibri mondiali, intervenendo – nota Canfora –non più indirettamente, ma direttamente in tutte le aeree di interesse, attraverso il ricorso retorico alla difesa della libertà e dei diritti umani, concentrandosi solo su quegli “Stati canaglia”, che “non solo appaiono macchiati del peccato basilare della ‘non libertà’ ma si industriano di turbare la serenità del ‘mondo libero’ attraverso lo strumento del ‘terrorismo‘.
Oggi, il rischio che si ripeta uno scenario già visto è reale. Mentre scrivo, non si sa ancora cosa succederà veramente in Siria, la situazione è confusa, ed è assai difficile che una soluzione venga studiata al G20 di San Pietroburgo presieduto dalla Russia di Putin, al quale anche il sovrano dello Stato del Vaticano ha inviato una lettera per evitare la via militare. Via che è stata ipotizzata (e che si fa sempre più concreta) dagli Stati Uniti, appoggiati solo da Francia e Turchia, che – da guardiani del mondo e da tutori della libertà e della democrazia – intendono l’intervento in Siria come un attacco lampo, mirato, finalizzato unicamente a impedire l’uso, da parte di Assad, delle armi chimiche, considerate (giustamente) un crimine morale contro l’umanità. Quella siriana è una crisi molto complessa, legata certamente alle primavere arabe, ma che si inserisce perfettamente nel quadro della delicata ed esplosiva situazione mediorientale: e che non può essere affatto risolta con le armi, soprattutto da chi ha ricevuto un premio Nobel per la Pace. Chi pretende di essere custode di certi valori democratici universali dovrebbe saperli applicare in ogni situazione. La democrazia ci dice anche che non si può rispondere alla violenza con la violenza, e che per garantire “l‘autonomia di tutti gli Stati” – scrive Kant in quel suo piccolo gioiello del 1795 Per la pace perpetua – “nessuno Stato può intromettersi con la violenza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”, anche se precisa che “non bisogna far rientrare in questa categoria il caso in cui uno Stato per discordie intestine si divida in due parti, ognuna delle quali rappresenta per sé uno Stato particolare, che pretende la totalità; qui il prestare aiuto a una delle parti non potrebbe essere imputato a uno Stato come ingerenza nella costituzione di un altro (poiché qui c’è solo anarchia). Finché però questa lotta interna non sia ancora decisa, questa intromissione di potenze esterne sarebbe un‘offesa dei diritti di un popolo alle prese soltanto con la sua malattia interna, e indipendentemente da ogni altro, darebbe essa stessa scandalo”.
Poi, ammesso che si decida per una soluzione militare, non è chiaro come un attacco che si vuole di avvertimento – anche se l’avvertimento più che ad Assad sembra indirizzato all’Iran – possa impedire un ulteriore uso delle armi chimiche. Occorre quindi elaborare una soluzione diversa, politica e diplomatica, per non correre il rischio che un attacco di guerra che si prevede lampo esploda in un conflitto mortale di portata regionale, difficile da controllare (attacco che, si badi bene, si può e si deve criticare senza difendere ed esaltare, come fa qualcuno, regimi come quello di Assad!). Tuttavia, di fronte all’insistenza americana, e alla sua pretesa di presentarsi ancora una volta come “superpotenza del Bene” in virtù di un patto sacro con Dio, viene da chiedersi se dietro l’attacco, quasi sicuramente legittimato dal Congresso, ma non dalle Nazioni Unite (spesso considerate un impiccio burocratico), non ci sia dell’altro, magari una vocazione imperialistica mirata a garantire interessi di potenza, che è poi stata quella che si celava sotto la bugia delle armi di distruzione di massa – ombra che pesa sulle attuali decisioni di Obama, il “guerriero infelice”, come l’ha definito il Time. Non bisogna abbassare la guardia. La storia – non solo recente, ma anche antica – ha mostrato chiaramente che dietro la retorica della libertà e dei diritti umani, dietro ogni pretesa di imporre con la forza la democrazia, si celano logiche di potenza: in realtà, dietro la “libertà per i greci”, si nascondeva, da parte di Atene, un “ferreo meccanismo di freno e di controllo, oltre che di repressione nei confronti dei greci già “’liberati’”; dietro la falsa immagine di “spada della Rivoluzione”, si mascherava in Napoleone una lucida politica di potenza finalizzata all’espansione dell’“Impero francese”… Forse, dopo secoli di guerre, è ora di prendere atto che il mito di “esportare la libertà” – per ritornare a Canfora – è definitivamente fallito.