La disoccupazione in ascesa nonostante l’ottimismo del governo Letta
L’ottimismo esasperato del Decreto del Fare del governo Letta è solo un abbaglio, i dati sulla disoccupazione italiana parlano di altro: anzi il tasso di disoccupati tocca il picco storico del 12,2%.
A maggio 2013 i senza lavoro sono cresciuti di oltre 55 mila unità rispetto al mese di aprile e, rapportando le statistiche all’anno precedente, l’Istat evidenzia un dato ancora più drammatico: 480.000 lavoratori in meno. Insomma, totalmente più di 3 milioni di disoccupati, dato che accomuna sia uomini che donne.
I tristi dati citati già sono emblematici di una situazione al limite della sopportazione, con intere generazioni prive di prospettive e obbligate ad emigrare per cercare fortuna e lavoro altrove. Basti pensare alla disoccupazione giovanile al 40%. È di qualche giorno fa l’appello del Presidente della Repubblica Napolitano all’annosa questione della disoccupazione giovanile che deve diventare il fulcro dell’azione di Governo, richiamato ad occuparsi di problemi reali, evitando schermaglie inutili tra PD-PDL (vedi legge elettorale, commenti sulle sentenze della magistratura su Berlusconi e via dicendo).
In questo periodo di crisi che si ripercuote su sé stessa, ampliandosi ed ampliandone le conseguenze negative sulla forza lavoro, le ricadute sul morale (oltre che sul portafogli) di colui che ha perso il lavoro sono enormi. Prendiamo spunto dalle cifre per capire come influenzano la vita quotidiana degli individui che si trovano in questo status. Le cause che hanno portato il malcapitato di turno alla disoccupazione possono essere svariate e già studiate dal Legislatore, che poi però non si è soffermato sui rimedi per limitare il fenomeno o alleviare il malessere della massa multiforme dei disoccupati.
Lo stesso governo Letta che ha cantato vittoria per aver ottenuto 1 miliardo e mezzo in più da Bruxelles (dai Fondi Interstrutturali) cozza contro l’enormità di tali cifre e l’esiguità dei mezzi per affrontarle.
Quello che però gli attuali governanti ignorano, o meglio non considerano (se non quando la cronaca evidenzia casi di suicidi di disperati sul lastrico, siano ex dipendenti che imprenditori), è come passa la giornata (per altri lavorativa) il disoccupato. Subito dopo qualche giorno dall’amaro destino che gli è capitato inizia a fare i conti con il senso di incertezza, precarietà, indifferenza da parte delle istituzioni che lo considerano solo un numero da inserire nella percentuale rilevata dall’Istat; vedi la sua vita stravolta nelle abitudini quotidiane consolidate nel tempo.
La giornata della maggior parte dei disoccupati è scandita da giorni sempre uguali a sé stessi, dettati dalla ricerca pedissequa di offerte lavorative (su Internet o sui Social) che non rispecchiano mai il loro profilo professionale, soprattutto se hai passato i 40 anni; categoria questa poco considerata dall’attuale Governo (come se tra i 30 e i 50 anni si perdesse ogni diritto a rientrare nel mercato del lavoro): perché se hai sino a 30 anni c’è l’apprendistato (o i tirocini formativi) con gli sgravi contributivi per l’azienda che ti assume, cosi come se hai più di 50 anni.
All’occhio del disoccupato non sembrano più tornare quelle mattinate lavorative fatte di pensieri e doveri (rimpiange ad esempio i giorni che ha maledetto il collega o mandato a quel paese il capo per averlo obbligato a fare una cosa che riteneva superflua); si accorge che la sua mattina va via lenta e monotona e assolutamente identica a quella del giorno prima, “piena di vuoti” e sempre in attesa che qualcosa o qualcuno risponda alle centinaia di curriculum che ha mandato in giro nell’etere o di persona e che non hanno mai avuto riscontro.
Insomma, la situazione è drammaticamente rilevante e la lentezza elefantiaca dei governanti italiani ed europei della zona Euro accentua situazioni al limite della rivolta sociale: basti pensare che nemmeno nel 1977 (l’anno più sanguinoso degli anni di piombo) c’erano così tanti disoccupati, soprattutto tra i giovani. Una verità storica e numericamente terribile, se si pensa a cos’era quella stagione.