Vita di Enrico Fermi e come l’America entrò in possesso della bomba atomica
Il 29 settembre, di oltre un secolo fa, nasceva Enrico Fermi. Era il 1901 e la Fisica, con i ragazzi di via Panisperna, avrebbe vissuto i suoi momenti più emozionanti, ma anche quelli più drammatici. Emozionanti furono gli studi sulla meccanica quantistica, la radioattività, il decadimento beta, le interazioni deboli, la scoperta dei neutroni lenti; drammatiche furono le applicazioni dei risultati teorici ottenuti in fisica nucleare, che hanno portato alla realizzazione della bomba atomica, con le conseguenze che tutti conosciamo. Enrico Fermi, accanto a Oppenheimer e a Einstein, è stato uno dei protagonisti di quell’impresa che avrebbe deturpato una volta per tutte il volto della scienza contemporanea.
Paragonato a Galileo, Enrico Fermi è stato uno scienziato brillante, dall’inusuale senso comune, che è riuscito a dimostrare talento non solo nella ricerca teorica, ma anche in quella pratica: era un fenomenologo, uno scienziato teorico, ma legato ai fenomeni. La velocità in laboratorio lo aveva portato ad arrivare prima di tutti, anche se non a torto (e capiremo perché) ai suoi allievi diceva: “Non siate mai i primi, cercate di essere secondi”.
Autodidatta, a quattordici anni, quando ancora frequentava il liceo classico, divorò un trattato di novecento pagine, gli Elementorum physicae mathematicae di Andrea Caraffa, trovato su una bancarella a Campo de’ Fiori, a cui seguì la lettura del Traité de Mécanique di Poisson, che gli fu utile nella preparazione del concorso di ammissione alla Scuola Normale di Pisa. Il tema da lui svolto sui Caratteri distintivi dei suoni e le loro cause mostrava una così profonda conoscenza della matematica da far sbalordire la commissione che gli preannunciò un futuro da scienziato: Enrico Fermi non era più solo un curioso liceale. Benché preferisse gli aspetti teorici a quelli pratici, nel 1922 si laureò in Fisica a soli ventun anni con una tesi sperimentale sui raggi X.
Grazie al “Padreterno” Orso Mario Corbino – professore di Fisica e direttore dell’Istituto di Fisica di Roma, oltreché senatore – Enrico Fermi ottenne due borse di studio recandosi prima a Göttingen nel 1922, dove incontrò uno dei padri della meccanica quantistica Max Born, e poi l’anno successivo a Leida, dove conobbe Albert Einstein, che nel 1905 aveva fatto il suo ingresso trionfale nella storia della scienza con la sua Teoria della relatività. Teoria di cui in filosofia fu subito avvertita la portata rivoluzionaria: la rivista Scientia – fondata nel 1906 da Federigo Enriques che invitò Einstein a Bologna per tenere tre conferenze – dava inizio a una vivace discussione sulle implicazioni filosofiche ed epistemologiche della nuova fisica relativistica, pubblicando contributi anche di fisici italiani come Corbino.
Einstein – affermava Enriques – aveva saputo ridare “fiducia nella ragione, proprio in quest’ora tenebrosa in cui essa sembra sommergersi nel cozzo delle passioni oscure”; non così, evidentemente, la pensava la fisica italiana, ottocentesca nel suo stile, che avversò le nuove teorie della relatività e della meccanica quantistica, tanto che il professore e direttore della sezione di fisica dell’Enciclopedia Italiana, Michele La Rosa, scrisse: “Porto una nota assai stonata nel coro solenne di esaltazione che da tutto il mondo si è levato verso il nuovo Verbo. Chi si provi a spogliare la teoria della ricca veste matematica e a tradurre in linguaggio concreto, cioè in idee e concetti, i mirabolanti risultati nascosti nelle formule abbaglianti, non riesce ad altro che a provar le vertigini; e più che per le spaventevoli demolizioni che la teoria ha largamente seminato nel campo dei concetti più generali, di quei concetti che erano la base stessa della nostra conoscenza, per il vuoto affannoso e orribile che essa lascia al suo posto”.
Il “Papa” Fermi – che nel 1926 vinse, insieme a Enrico Persico, la prima cattedra di Fisica Teorica istituita da Corbino – riuscì a portare la fisica italiana a livelli internazionali, radunando attorno a sé il gruppo di ricerca dei “ragazzi di via Panisperna” (dal nome della via dove si trovava l’Istituto, ora parte del complesso del Viminale), cui nel 1934 si aggiunsero Bruno Pontecorvo e Oscar D’Agostino, costituito sin dall’inizio dal “Cardinal vicario” o “Venerato Maestro” Franco Rasetti, dalla “Divina Provvidenza” Giulio Cesare Trabacchi, dal “Cardinal de propaganda fide” Enrico Persico (l’amico-rivale di Enrico Fermi raccontato in Coriandoli nel deserto di Alessandra Arachi), dallo “Spirito Santo” o “Grande Inquisitore” Ettore Majorana, che scomparve misteriosamente, e dagli “Abati” Emilio Segrè ed Edoardo Amaldi (uno dei fondatori del CERN di Ginevra).
Nacque così la prima scuola di fisica italiana, che nel 1929 agli studi sulla Fisica atomica, ormai esauriti, sostituì quelli sulla Fisica nucleare: fu proprio Enrico Fermi a mettere in discussione il modello di nucleo, costituito non, come si pensava allora, da elettroni e protoni, ma da protoni e neutroni. Ma l’anno decisivo, sulla scia della scoperta della radioattività da parte dei coniugi Curie, fu il 1934, in cui il gruppo di Enrico Fermi, bombardando l’uranio con neutroni, pensò di aver individuato due nuovi elementi radioattivi (chiamati “esperio” e “ausonio”): in realtà essi non esistevano, e ciò che i ragazzi avevano osservato, senza accorgersene, era proprio la fissione nucleare – suggerita a Enrico Fermi da Ida Noddack! – la cui spiegazione teorica fu data da Lise Meitner e la cui dimostrazione sperimentale si ebbe nel 1938 con Otto Hahn e Fritz Strassman, anche se fu soltanto Hahn a ricevere il premo Nobel per la Chimica nel 1944.
Fermi aveva mancato una delle scoperte più importanti del Novecento, tanto che all’ingresso dell’Institute of Nuclear Studies di Chicago fece costruire la statua di un uomo curvo raffigurante “uno scienziato che non è riuscito a scoprire la fissione”. Ma si sarebbe riscattato la mattina del 20 ottobre 1934, quando, solo in laboratorio, decise di modificare all’ultimo momento l’esperimento, giungendo così alla scoperta dei neutroni lenti che gli valse, nel 1938, il premio Nobel per la Fisica.
Il 1938 fu un altro anno di svolta, innanzitutto perché mise in luce i controversi rapporti che Enrico Fermi ebbe con il fascismo – a differenza di quelli fedeli che intrattenne con Mussolini un altro grande scienziato del tempo e sostenitore di Fermi, Guglielmo Marconi, morto l’anno precedente. Inizialmente sembrò esserci una adesione più o meno esplicita dettata anche da motivi utilitaristici: Enrico Fermi era stato anche nominato da Mussolini membro della Reale Accademia d’Italia (istituita in opposizione a quella dei Lincei) e si era iscritto al Partito Nazionale Fascista. Ma, dopo, a causa dell’assenza di fondi e della promulgazione delle leggi razziali (la moglie di Enrico Fermi, Laura Capon, era ebrea) si rese conto di non poter più continuare a svolgere la sua attività in Italia. L’occasione si presentò il 10 dicembre, Enrico Fermi era a Stoccolma per ritirare il Nobel; “il fatto che, invece di indossare l’uniforme fascista o quella dell’accademico d’Italia, portasse il frac e che, invece di fare il saluto fascista, stringesse la mano al sovrano svedese, determinò una vera ondata di indignazione”, ricorda Amaldi.
Dal momento che non vi erano più le condizioni per ritornare in Italia, la famiglia Fermi – scrive la Capon in Atomi in famiglia – prese la decisione di emigrare negli Stati Uniti, che lo avrebbero accolto e celebrato come un vero genio, dandogli la cittadinanza nel 1944 e riservandogli un posto di docente presso la Columbia University e l’Institute of Nuclear Studies dell’Università di Chicago. Quello americano fu il periodo più oscuro dell’attività scientifica di Enrico Fermi, in cui egli si sarebbe trovato faccia a faccia con la Storia, la più drammatica che ci sia mai stata consegnata: quella che portò alla costruzione della bomba atomica. Una storia che impose un nuovo modo di fare scienza, e che richiese una nuova formulazione dei rapporti tra scienza e politica e anche tra scienza e morale.
I fisici intuirono subito le potenzialità pratiche della fissione, che avrebbe potuto essere utilizzata “come una possibile sorgente di energia nucleare” per la costruzione di un’arma. La loro preoccupazione era data dal fatto che i tedeschi – si pensava, in particolare, a Heisenberg, autore del famoso principio di indeterminazione – avrebbero potuto realizzarla per primi, quindi che la Germania hitleriana, che intanto stava occupando mezza Europa, avrebbe potuto entrare in possesso di un’arma così distruttiva. In realtà i tedeschi non ne avevano compreso le implicazioni ed erano ben lontani dal costruirla. Tuttavia, convinto da Leo Szilard, Albert Einstein scrisse il 2 agosto 1939 una famosa lettera al Presidente americano Roosevelt nella quale, di fronte alla presunta minaccia nazista, veniva sottolineata la possibilità di realizzare un’arma atomica: “Alcuni recenti lavori di E. Fermi e di L. Szilard, che mi furono presentati manoscritti, mi convincono che l’elemento uranio possa essere usato come nuova e importante fonte di energia nell’ immediato futuro. […] Questo nuovo fenomeno condurrebbe anche alla costruzione di bombe, ed è immaginabile che bombe estremamente potenti di un nuovo tipo possano perciò essere costruite. Una singola bomba di questo tipo, trasportata da una imbarcazione e fatta esplodere in un porto, potrebbe distruggere molto facilmente l’intero porto insieme a una parte del territorio circostante”.
La pressione esercitata da alcuni scienziati indusse Roosevelt a dare il via alle ricerche. Così nel 1939 prese avvio, a Los Alamos, uno dei più importanti progetti scientifici del Novecento, il cosiddetto “Progetto Manhattan”, posto sotto la direzione scientifica di Robert Oppenheimer. Nato come semplice progetto di ricerca, si trasformò – dopo l’attacco giapponese a Pearl Arbour nel 1941 – in un vero e proprio progetto politico-militare finalizzato alla realizzazione della bomba, che arrivò a mobilitare, in estrema segretezza, migliaia di uomini e mezzi. È chiaro che il ruolo di Fermi nella costruzione della bomba – per cui nel 1946 ricevette la Medal Merit dal Congresso degli Stati Uniti – fu condizionato dagli eventi innescati dalla seconda guerra mondiale: e fu un ruolo determinante, perché la sua pila atomica – assemblata a Chicago nel 1942 – costituì il primo esempio di reattore nucleare in grado di produrre una reazione a catena controllata: segnava, insomma, l’inizio dell’era atomica, e la possibilità di realizzare la bomba atomica era sempre più vicina.
Dopo la resa della Germania e la morte di Hitler nel 1945, i dubbi degli scienziati impegnati nel progetto crebbero a tal punto che Szilard, con una petizione, tentò di convincere il nuovo Presidente americano Truman (succeduto a Roosevelt) a sospendere il progetto “per motivi morali”. James Franck fu anche incaricato di redigere un documento (“Rapporto Franck”) circa l’utilizzo dell’arma in cui egli ne sconsigliava l’uso contro il Giappone. Ma la decisione era già stata presa. Truman aveva creato un’apposita commissione, l’“Interim Committee”, affiancata da un comitato scientifico composto da quattro scienziati del “Progetto Manhattan” tra i quali Fermi e Oppenheimer. Per Enrico Fermi, che non firmò la petizione di Szilard e non condivise il “Rapporto Frank”, la bomba andava usata, perché soltanto un attacco atomico contro il Giappone avrebbe posto fine al conflitto: “Noi in quanto uomini di scienza […] non rivendichiamo una particolare competenza nella soluzione dei problemi politici, sociali e militari che sorgono dalla scoperta dell’energia atomica. Ma, dal momento che l’arma può essere usata per salvare vite americane e che non siamo in grado di proporre alcuna dimostrazione tecnica suscettibile di porre fine alla guerra, non vediamo alcuna alternativa accettabile all’impegno militare diretto”. Pertanto, i lavori a Los Alamos non si interruppero e, anzi, continuarono con sempre maggiore impegno: e infatti il 16 luglio, nel deserto di Alamogordo, la prima bomba atomica al plutonio (The Gadget) fu fatta esplodere con successo nel primo test sperimentale alle 5.30 del mattino (Trinity Test). Un’ora dopo l’esplosione Enrico Fermi, indossata una tuta protettiva, salì su un carro armato per verificarne gli effetti che furono impressionanti. Le bombe prodotte nei laboratori di Los Alamos furono quattro. Il 6 e il 9 agosto 1945 una bomba all’uranio, Little Boy, e una al plutonio, Fat Man, distrussero rispettivamente Hiroshima e Nagasaki costringendo il Giappone ad arrendersi e il 2 settembre dello stesso anno a firmare un armistizio. Furono uccise migliaia di persone, e altre ne moriranno per effetto delle radiazioni.
Pentito di aver firmato quella lettera a Roosevelt, Einstein – che con la sua famosa formula (E=mc2) aveva posto le basi teoriche per la costruzione della bomba – si impegnò attivamente nella causa per il disarmo internazionale, affermando che “se avessi saputo che i tedeschi non sarebbero riusciti a costruire la bomba atomica non avrei mai alzato un dito”. Poco prima di morire, nel 1955 firmò, insieme a Bertrand Russell, un manifesto pacifista contro l’utilizzo dell’atomica, che diede vita al Movimento Pugwash premiato nel 1995 con il Nobel per la Pace.
Anche Oppenheimer capì che era stato commesso un grave errore: “Credo che nessuna volgarità, nessuna battuta di spirito, nessuna esagerazione possano estinguere il fatto che i fisici hanno conosciuto il peccato e questa è una conoscenza che non possono perdere”.
Quanto a Fermi, non si pentirà mai: rimarrà sempre convinto di aver fatto il proprio dovere, in difesa della libertà e della democrazia del Paese che l’aveva ospitato, contro il dilagare della minaccia nazista. E infatti in una lettera ad Amaldi scrisse: “Dalla lettura dei giornali di qualche settimana fa avrai probabilmente capito a quale genere di lavoro ci siamo dedicati in questi ultimi anni. È stato un lavoro di notevole interesse scientifico, e l’aver contribuito a troncare una guerra che minacciava di tirare avanti per anni è stato indubbiamente motivo di una certa soddisfazione”. Quando gli proposero di continuare l’attività di ricerca nel campo degli ordigni nucleari realizzando la “superbomba”, la bomba all’idrogeno molto più devastante di quella atomica, egli espresse la sua contrarietà perché consapevole della forza che quel tipo di arma avrebbe potuto sprigionare. Tuttavia sarebbe ritornato a Los Alamos contribuendo alla sua realizzazione.
Infine, ritornò in Italia nel 1949, e poi nel 1954 tenne alcune lezioni alla scuola di fisica di Varenna, suggerendo la costruzione di un calcolatore elettronico. Al ritorno negli Stati Uniti gli fu diagnosticato un tumore allo stomaco, probabilmente causato dalla radioattività. Morì a soli cinquantatré anni, dopo aver scritto le pagine più memorabili della fisica novecentesca, e fu sepolto all’Oak Woods Cemetery di Chicago. Lì riposa l’uomo del quale Amaldi disse: “La sua opera scientifica è così poderosa e geniale, le conseguenze pratiche di alcuni dei suoi lavori sono così importanti e gravi che facilmente chi non abbia avuto la fortuna di conoscerlo è portato a farsi di lui un’immagine molto diversa dal vero. Solo i parenti e gli amici, solo coloro che l’hanno conosciuto sanno che, se da un lato era difficile separare in Enrico Fermi i vari aspetti di scienziato, di ricercatore, di maestro e di uomo, poiché intimamente fusi tra loro, d’altro canto la sua semplicità di gusti e di maniera di vivere, la sua calma serena di fronte ai problemi dalla vita, la sua mancanza di qualsiasi posa o stranezza di carattere furono qualità umane ancora più notevoli per il contrasto con le sue eccezionali qualità di scienziato”.
enrico fermi non si era pentito del risultato causato dalla bomba atomica,a differenza degli altri collaboratori che avevano manifestato sdegno per aver contribuito a un tale disastro. È assai più probabile che inconsciamente, anche lui si era sentito a disagio per quello che la sua scoperta aveva provocato su una popolazione inerme. Questo conflitto, vissuto in solitudine è stata la vera causa della sua malattia, secondo le recenti scoperte della medicina non convenzionale.