GIUSTIZIA, DIVORZIO BREVE, IMMIGRAZIONE, 8XMILLE, FINANZIAMENTO PARTITI. NELLE PIEGHE DI OGNI SINGOLO QUESITO DEI REFERENDUM RADICALI
Sino al 15 settembre 2013 è possibile firmare per i dodici quesiti referendari, anche presi singolarmente, promossi in primis dai Radicali Italiani. Ci si può recare presso i banchetti allestiti dal comitato promotore nelle maggiori città italiane, ma anche e soprattutto nell’ufficio predisposto all’interno del proprio comune di residenza. Come sempre, l’obiettivo è raccogliere le 500.000 firme richieste dall’Art. 75 della Costituzione per indire un referendum abrogativo. In seguito sarà l’Ufficio centrale per il referendum, secondo le disposizioni della legge 352/1970, a sottoporre le richieste referendarie ad un primo controllo di legittimità, che non si limita a verificare la validità delle firme, ma deve inoltre esaminare la natura dell’atto oggetto della richiesta, che deve essere una legge o un atto avente forza di legge, unificare quesiti che presentino “uniformità o analogia di materia” e decidere se interrompere il procedimento referendario nel caso in cui il Parlamento provveda ad una modifica radicale della norma in oggetto, ad esempio abrogandola, facendo propria in questo modo l’istanza referendaria. In un secondo momento vi sarà un controllo della Corte Costituzionale, che emetterà un giudizio di ammissibilità sulla richiesta, verificando che non vada ad intaccare leggi che non possono essere sottoposte a questo istituto giuridico. Superato questo doppio controllo, il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, dovrà indire il referendum in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Nel caso si dovesse andare a scioglimento anticipato delle Camere, il referendum si terrebbe l’anno seguente.
Entrando nello specifico di questa campagna referendaria radicale, possiamo notare che i 12 quesiti intervengono su varie materie dell’ordinamento giuridico italiano, dalla magistratura alle carceri, dall’8Xmille all’immigrazione. Possiamo suddividerli in due grandi gruppi: “giustizia” e “diritti civili” – vi sono pure due distinti comitati promotori – ma le firme vanno apposte singolarmente ad ogni quesito, che pertanto ora esamineremo uno per uno.
GIUSTIZIA
Quesito giustizia 1: responsabilità civile dei magistrati – abolizione della “clausola di salvaguardia”
Si intende abrogare il secondo comma dell’articolo 2 della Legge del 13 aprile 1988 n. 117, nota anche con il nome di Legge Vassalli, sulla responsabilità civile dei magistrati. Questa legge è intervenuta a seguito del referendum del 1987 che abrogò gli articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile, che riprendeva l’articolo 783 e seguenti del Codice del 1865. Di fatto, prima del 1987 i giudici potevano rispondere solamente in caso di dolo, frode, concussione e diniego di giustizia, ma erano irresponsabili per colpa e persino per colpa grave. La distinzione tra dolo, colpa e colpa grave è fondamentale: il dolo è la volontà di tenere il comportamento dannoso, con la coscienza della sua idoneità a recare danno, quindi violazione cosciente e volontaria della legge da parte del magistrato; la colpa è la semplice negligenza, imprudenza o imperizia; la colpa grave del magistrato sia invece ha quando per una “negligenza inescusabile” il giudice viola gravemente la legge, oppure se afferma l’esistenza di un fatto incontrastabilmente escluso dagli atti del procedimento (o viceversa), oppure ancora se emette un “provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione”. Dalla sola responsabilità per dolo, con la Legge Vassalli viene introdotta anche per il giudice quella per colpa grave. Inoltre vengono disciplinate le modalità di risarcimento del danno, che, a meno che non si tratti di un fatto del magistrato che costituisca reato, va chiesto allo Stato, il quale poi, a sua volta, esercita un’azione di rivalsa contro il giudice, che può rispondere sino ad un terzo del suo stipendio annuo.
Tolta questa premessa, che cosa rappresenta il comma in questione su cui pende il referendum radicale? Si tratta della cosiddetta clausola di salvaguardia “dell’interpretazione del giudice, base giuridica di quella giurisprudenza, per alcuni, troppo creativa e politicizzata”, come afferma in un ottimo articolo esplicativo Michela De Santis, anche se la Commissione Europea ha avviato una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, che dovrebbe armonizzare le proprie norme introducendo anche la responsabilità per “manifesta violazione del diritto” nazionale, visto che esiste già la responsabilità dello Stato per manifesta violazione del diritto europeo. Fatto sta che nel Regno Unito, pur facendo parte dell’Unione Europea, così come in altri paesi di common law anglosassone e di equity, compreso Cipro, vi è una sorta di immunità assoluta per i magistrati.
L’abrogazione della clausola di salvaguardia potrebbe andare in una direzione di certezza del diritto, ossia la possibilità di prevedere razionalmente le conseguenze giuridiche di un determinato comportamento o fatto e porrebbe maggiormente l’accento sulla responsabilità del giudice, piuttosto che sulla sua indipendenza – come sostiene Elisa Tira nella rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti – modificando il bilanciamento delicato ora vigente. Le proposte di soppressione di questo comma, segnala una delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, “pongono seriamente in rischio i principi di autonomia ed indipendenza della Magistratura e la diffusività dell’esercizio della giurisdizione” dei vincoli stringenti nell’esercizio dei poteri affidatigli dalla Costituzione. I magistrati, senza una tale clausola di salvaguardia, “potrebbero essere indotti, al fine di sottrarsi alla minaccia della responsabilità, ad adottare, tra più decisioni possibili, quella che consente di ridurre o eliminare il rischio di incorrere in responsabilità, piuttosto che quella maggiormente conforme a giustizia”.
Quesito giustizia 2: responsabilità civile dei magistrati – abolizione del vaglio di ammissibilità della domanda di risarcimento del danno da parte del tribunale
Anche questo quesito referendario riguarda la Legge Vassalli, ma qui si vorrebbe sopprimere l’intero articolo 5 che prevede, spiega la dottoressa De Santis, “un giudizio di ammissibilità, per alcuni eccessivamente preclusivo (e anch’esso politicizzato), del tribunale competente che deve preventivamente valutare, oltre al rispetto dei termini, la non manifesta infondatezza della domanda”. Abrogare questo articolo eliminerebbe pertanto questo giudizio preliminare del tribunale competente.
Quesito giustizia 3: rientro nelle funzioni proprie dei magistrati fuori ruolo
La terza richiesta referendaria verte su un complesso di norme che regolano il collocamento dei magistrati “fuori ruolo” nella pubblica amministrazione, che nell’ottobre 2008 risultavano pari a 232, stando alla risposta dell’allora sottosegretario Caliendo all’On. Di Pietro, il quale chiedeva “di fornire alla Commissione [Giustizia] dati dai quali si possa evincere se sia o meno razionale consentire a 232 magistrati di essere fuori ruolo nonostante l’organico della magistratura non sia coperto”. Con l’abrogazione di tutte queste leggi, il i promotori del referendum intendono limitare, se non eliminare del tutto, il fenomeno dei magistrati “fuori ruolo”, reintegrandoli nelle loro funzioni proprie, per avere una giustizia più efficiente e veloce ma, soprattutto, per porre fine alla “commistione tra alta amministrazione e magistratura”. Tuttavia, in questo modo, la pubblica amministrazione potrebbe perdere alcuni dirigenti con competenze specifiche acquisibili solo dopo aver esercitato per anni una carriera in magistratura, si pensi come esempio ad alti funzionari del ministero della giustizia, che dovrebbero cedere il posto a non magistrati.
Quesito giustizia 4: limitare il ricorso alla custodia cautelare
Questo quesito concerne l’istituto della custodia cautelare, disciplinata dal Codice di Procedura Penale approvato con il DPR del 22 settembre 1988 n. 447. Si intende abrogare l’ultima parte del comma 1, lettera c, dell’articolo 274, che regola i casi in cui può essere disposta la carcerazione preventiva, cui oggi si può ricorrere quando a carico dell’imputato sussistano gravi indizi di colpevolezza, e risultino inadeguate tutte le altre misure (ad esempio il “divieto di espatrio, l’obbligo di presentarsi negli uffici di polizia giudiziaria, il divieto di dimorare in un determinato luogo o invece l’obbligo di dimorarvi”) in relazione a “situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova”, timori fondati di fuga e “concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. Oltre a ciò, la norma contestata: quando sussiste il concreto pericolo che questi commetta delitti “della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni”. Con l’abrogazione di questa parte il ricorso alla custodia cautelare sarebbe ridimensionato. Va notato che gli istituti di pena del nostro paese hanno il tasso più alto, tra i paesi dell’Unione Europea, di carcerazione preventiva: ben 4 detenuti su 10 non hanno avuto una condanna definitiva di colpevolezza. Spesso inoltre, rileva l’avvocato Gaetano Pecorella, la custodia cautelare è uno strumento di pressione psicologica sull’imputato per farlo collaborare con la giustizia, il magistrato può subire a sua volta pressioni dell’umore dell’opinione pubblica e, nel caso di ingiusta detenzione, ha luogo un risarcimento, con costi ingenti per le casse dello Stato. Quindi un ridimensionamento di questo istituto potrebbe contribuire a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, con qualche timore, tuttavia, che ci possa essere la reiterazione di gravi delitti da parte dell’imputato.
Quesito giustizia 5: abolizione dell’ergastolo
Va premesso che i Radicali nel 1981 promossero un referendum analogo, sul quale gli elettori si espressero in larga parte per il mantenimento dell’ergastolo. Allora vigeva ancora la pena di morte, seppur in contesti eccezionali militari, che non si sono mai più verificati nel Secondo dopoguerra. Questa volta ci riprovano, confidando in una maggiore sensibilità in materia. In Italia dal 1992 si possono distinguere due tipi di ergastolo, quello normale (che concede al condannato dopo meno di trent’anni la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale) e quello ostativo, per criminali ritenuti estremamente pericolosi, come capi mafiosi responsabili di omicidi. La Corte Costituzionale ha sempre dichiarato che la pena dell’ergastolo è conforme alla Carta fondamentale, che pure vuole che le pene siano orientate alla rieducazione del condannato. Il dibattito è tornato anche nell’opinione pubblica, anche grazie alla pubblicazione di libri, ad esempio quello della giornalista Francesca de Carolis “Urla a bassa voce”, con una prefazione di don Ciotti. A Roberto Saviano, abolizionista, ha risposto Marco Travaglio, favorevole al mantenimento di questo istituto. Per ultima, una sentenza della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo “ha affermato il principio per cui l’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata o di revisione della pena è una violazione dei diritti umani, poiché l’impossibilità della scarcerazione è considerata un trattamento degradante ed inumano contro il prigioniero, con conseguente violazione dell’art. 3 della Cedu”, come ha riportato Valerio Medaglia per il Fatto Quotidiano. Quindi di fatto l’ergastolo quale pena perpetua e irrevocabile è già stata abolita, però il quesito referendario assume una portata simbolica.
Quesito giustizia 6: separazione delle carriere dei magistrati
Su questo punto si scatenano i confronti più accesi, che vedono solitamente i magistrati contrapposti agli avvocati, la cui maggioranza sarebbe favorevole alla separazione delle carriere tra magistratura inquirente (pubblico ministero) e giudicante, perché non ritengono giusto che chi “ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere, pur essendo indagato o imputato da un ex collega di funzioni”, per citare nuovamente l’avvocato Pecorella. I magistrati invece temono che questo possa squalificare la funzione propria del pubblico ministero, che diverrebbe un mero “avvocato della polizia”. In Italia dal 1989 si è passati da un sistema di processo penale di tipo inquisitorio a uno di tipo misto con caratteri accusatori. Questo ha comportato la soppressione della figura del giudice istruttore, che in un sistema inquisitorio lavora a fianco di quello che emette la sentenza, con l’obiettivo comune di far emergere la verità. Nell’attuale sistema invece vi è il pubblico ministero, che deve avviare l’azione penale ed è rivestito di un ruolo di accusa, nell’interesse pubblico, mentre il giudice assume un ruolo di imparzialità tra l’imputato e il PM. Quindi si pone l’interrogativo se sia meglio separare le carriere dei due tipi di magistrati. Argomenti a favore sono l’esigenza di rendere il nostro sistema pienamente accusatorio; una maggiore imparzialità della magistratura giudicante; limitazione dei rapporti personali tra giudici e PM. Argomenti contrari sono il rischio che il PM, nella difesa di una posizione di accusa, possa perdere di vista il fine ultimo del processo, ossia la scoperta della verità; la soggezione del PM ad altri poteri, come quello esecutivo, potrebbe minarne l’indipendenza; si perderebbero inoltre occasioni di crescita professionale che sorgono con l’esercizio di funzioni diversificate. Entrambe le posizioni muovono motivazioni fondate e ben argomentate: una figura autorevole come quella di Giovanni Falcone si espresse abbastanza favorevolmente, così come il Consiglio nazionale forense, invece l’attuale vicepresidente del CSM Michele Vietti si mostra contrario, e con lui Bruno Tinti, ex magistrato, ora avvocato e scrittore che si occupa di tematiche giudiziarie. Se la separazione delle carriere potrebbe essere dunque una opportunità, occorrerebbe però una riforma, sarebbe meglio costituzionale, che vada a ridefinire il ruolo dei due tipi di magistratura, garantendone in primo luogo l’indipendenza e l’autonomia. Quindi probabilmente un referendum abrogativo non è lo strumento più opportuno per intervenire su questa materia delicata, ma potrebbe sollecitare parlamento ed esecutivo a lavorare verso una direzione piuttosto che un’altra.
DIRITTI CIVILI – “cambiamonoi”
Quesito diritti 1: divorzio breve
Questo quesito è di semplice spiegazione. Attualmente, ai sensi della legge divorzile n. 898/70, per poter presentare la domanda “di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio”, ossia di divorzio, occorre ordinariamente che la separazione si sia protratta “ininterrottamente da almeno tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale”. La stessa legge ammette peraltro alcune particolari eccezioni, ad esempio per il matrimonio che non sia stato consumato, in cui si può avere scioglimento immediato. Tuttavia, nella maggior parte dei casi occorrono questi tre anni di separazione obbligatoria, che il quesito referendario intende abolire, con la finalità di alleggerire i tempi burocratici e i costi che gravano su cittadini e tribunali. Pertanto sopprimendo il primo capoverso dell’articolo 3, numero 2), lettera b) della legge sul divorzio si aprirebbe la possibilità di richiedere il divorzio contestualmente alla separazione. Si parla del cosiddetto “divorzio breve”, già introdotto in alcuni paesi quali la Spagna, con esiti controversi, tra cui l’aumento di rotture conflittuali. Possiamo segnalare tuttavia che i tre anni di separazione obbligatoria, se in alcuni casi può essere occasione di riconciliazione, con conseguente giovamento per la stabilità affettiva familiare, in altri casi rischia al contrario di incrinare ulteriormente i rapporti già di per sé tesi tra i coniugi, anche perché la mediazione familiare – che secondo l’Avv. Giulia Degiorgi si rivela essere uno “strumento efficace di risoluzione delle controversie familiari” – pur essendo stata introdotta con la legge 8 febbraio 2006 n. 54, in Italia non è obbligatoria, come invece una proposta di legge vorrebbe rendere. La stessa ipotesi di obbligatorietà della mediazione familiare, tuttavia, non è esente da critiche. Il divorzio breve quindi avrebbe alcuni vantaggi dal punto di vista economico e burocratico, ma problematici dal punto di vista sociale.
Quesito diritti 2: immigrazione – abolizione reato di clandestinità
Introdotto con il “pacchetto sicurezza” nel Testo Unico sull’immigrazione, l’articolo 10-bis prevede il reato di clandestinità, di competenza del Giudice di Pace, che sanziona il “fare ingresso” o il “trattenersi” in Italia in violazione alle normative vigenti con una ammenda pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro (somma difficilmente sostenibile nell’immediatezza anche per la maggior parte della polo azione italiana, figuriamoci da un immigrato irregolare), commutabile in una espulsione per almeno 5 anni. Il reato non si configura qualora si tratti di un respingimento alla frontiera, se il clandestino viene identificato nel momento in cui stava lasciando il suolo italiano, oppure ancora se egli avanza una richiesta di asilo internazionale. Se tuttavia oltre alla clandestinità, il fatto costituisce “più grave reato”, ad esempio il traffico di esseri umani, lo straniero irregolare ha capi di imputazione differenti da quelli del 10-bis. I pubblici ufficiali (tra cui anche medici e insegnanti) sono tenuti a denunciare ogni reato del quale vengono a conoscenza, compreso questo, a meno che non vi sia “una norma che prevede la possibilità di permanenza in Italia per uno straniero irregolare”, ad esempio quella che consente ad una persona in stato di gravidanza di richiedere un permesso. Questo specifico reato è stato introdotto nell’intento di rendere maggiormente efficaci i provvedimenti di espulsione e di contrastare l’immigrazione clandestina.
Incorrono nel reato di clandestinità, pertanto, gli immigrati extracomunitari che entrano illegalmente sul suolo italiano o che sono già stati espulsi, ma oltre ad essi anche i cittadini comunitari allontanati dallo territorio dello stato e chiunque non abbia un permesso di soggiorno valido, fosse anche scaduto da un giorno. Le conseguenze di questo articolo si fanno sentire maggiormente proprio su quei milioni di immigrati regolari che vivono nel terrore quotidiano di non avere in borsa quel pezzo di carta, pure lautamente pagato, ogni sei mesi, oppure che esso scada prima che la burocrazia italiana abbia provveduto a rinnovarlo. Inoltre rende molto più difficile l’emersione delle situazioni di sfruttamento, perché “nessun lavoratore irregolare marchiato come criminale dal reato di clandestinità oserà avvicinarsi ad un commissariato né ad una caserma per fare denuncia nei confronti del datore di lavoro”, come spiega l’Avv. Alessandra Ballerini. Questo reato controverso oltretutto ha dimostrato una scarsa efficacia, anche perché se il soggetto irregolare raramente è in grado pagare l’ammenda, pure lo Stato ha difficoltà nel sostenere i costi di un rimpatrio, quindi si limita in molti casi a consegnargli un “foglio di espulsione” per intimarlo a lasciare il territorio italiano. E le cifre sono irrisorie: a fronte ci circa cinquecentomila immigrati clandestini, nel 2012 sono stati aperti nei tribunali solamente 172 fascicoli, 55 dei quali definiti. A conti fatti, 12 sentenze di condanna e 18 patteggiamenti, quindi solo per lo 0,006% degli irregolari presenti sul suolo italiano, una cifra analoga ai morti in un anno a causa di incidenti stradali sul totale della popolazione italiana. Comunque sia, la Corte Costituzionale ha sino ad ora rigettato le questioni di legittimità riguardo questo articolo, ritenendolo conforme alla Legge fondamentale, poiché la clandestinità non sarebbe “un «modo di essere» della persona, ma uno specifico comportamento trasgressivo di norme vigenti”.
Quesito diritti 3: immigrazione – abolizione
Connesso con il quesito referendario precedente, anch’esso interviene sul Testo Unico sull’immigrazione, ma questa volta agli articoli 4-bis e 5-bis. Il primo concerne l’accordo di integrazione, reso però attuativo dal D.P.R. numero 1979/2011 e da alcune circolari ministeriali del 2012 (che si possono trovare qua e qua). Il 4-bis afferma abbastanza sinteticamente che la stipula di tale accordo, articolato per crediti, è “condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno”. Inoltre segnala che la perdita dei crediti deve comportare anche la revoca del permesso, con conseguente espulsione del cittadino straniero. Il D.P.R. citato qua sopra ha definito meglio i punti dell’accordo, che deve essere stipulato in duplice lingua in prefettura o in questura (a seconda dei casi della richiesta) dagli “stranieri di età superiore ai sedici anni che entrano per la prima volta entra in Italia e presentano istanza di rilascio del permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno”. Il cittadino straniero e lo Stato si impegnano vicendevolmente a raggiungere specifici obiettivi di integrazione.
L’uno deve acquisire una conoscenza della lingua italiana pari almeno al livello A2 del quadro comune di riferimento, ad acquisire una conoscenza adeguata dei principi costituzionali, del funzionamento delle istituzioni pubbliche e della vita civile, a garantire l’obbligo di istruzione per i figli minorenni, ad assolvere gli obblighi fiscali e contributivi, ad aderire alla Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione varata nel 2007. L’altro invece dovrebbe assicurare i diritti fondamentali, istruzione e salute in primis, e la pari dignità delle persone, prevenendo razzismo e discriminazione, agevolare gli stranieri a comprendere i principi fondamentali su sui si basa la Repubblica, controllare il rispetto delle norme a tutela del lavoro dipendente e favorire il processo integrativo. Si parte da 16 punti iniziali, con l’impegno di arrivare a 30 entro due anni (prorogabile di un anno). I crediti possono essere incrementati ad esempio con la frequentazione di alcuni corsi formativi, con la scelta del medico di base, con la stipula di contratti di locazione, con lo svolgimento di attività economiche, possono però anche venire decurtati a seguito di sentenze penali o pecuniarie gravi, oppure se non si frequenta un corso gratuito di formazione civica presso le prefetture. L’altro articolo di cui il quesito referendario chiede l’abrogazione è il 5-bis, concernente i contratti di soggiorno per lavoro subordinato con un lavoratore non comunitario. In tali contratti il datore di lavoro deve garantire la “disponibilità di un alloggio per il lavoratore” con dei criteri minimi di abitabilità e “l’impegno al pagamento da parte del datore di lavoro delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel Paese di provenienza”.
Senza tali garanzie, il contratto non costituisce un titolo valido per ottenere il permesso di soggiorno per motivi lavorativi, che sino al 2011 era la tipologia più diffusa, ma ultimamente in drastica diminuzione. Dagli anni novanta ad oggi sono state fatte numerose sanatorie per regolarizzare la posizione dei lavoratori stranieri, tuttavia complice la crisi economica molti immigrati hanno perso il lavoro; anche se ciò non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno, il rinnovo del permesso può avvenire solo dietro se dispone di risorse economiche. Riepilogando, questo quesito vuole abolire sia l’accordo di integrazione, sia i requisiti di garanzia da parte del datore di lavoro che intende assumere un dipendente immigrato. Secondo i promotori, questo faciliterebbe la regolarizzazione di molti lavoratori che tutt’oggi, non avendo contratti garantiti in questo modo, alimentano l’economia sommersa. Al contempo si limiterebbe il potere dei datori di lavoro, che in alcuni casi sfruttano la manodopera degli immigrati e li sottopongono a ricatti del tipo: se non fai questo, ti licenzio e rischi di perdere il permesso di soggiorno. Tuttavia sorgerebbero dei timori su questo quesito, in particolar modo sul fatto che, senza tali garanzie da parte di un datore di lavoro, l’immigrato potrebbe venire sfruttato in misura ancora maggiore, perché non avrebbe assicurata al momento del contratto una sistemazione alloggiativa idonea.
Quesito diritti 4: droghe – abolizione delle pene detentive per il piccolo spaccio
La normativa italiana vigente sulle droghe, fondata sul D.P.R. n. 309/1990, con le modifiche introdotte dalla cosiddetta “Legge Fini-Giovanardi” del 2006, non considera reato la detenzione di sostanza stupefacente (che è un illecito amministrativo, sanzionabile con il ritiro di documenti), però persegue chiunque “vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo” e chiunque “importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene” tali sostanze. Pertanto lascia aperte alcune ambiguità, sulle quali le sentenze giurisprudenziali non paiono avere un orientamento univoco, ad esempio sulla possibilità di produzione di cannabis in minime quantità limitatamente all’autoconsumo. Inoltre non è possibile distinguere tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”, ma si parla di sanzioni minori in caso di reati di lieve entità “per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione” o “per la qualità delle sostanze” (piccolo spaccio) che tuttavia prevedono una multa “da euro 3.000 a euro 26.000” e la “reclusione da uno a sei a anni”, commutabili su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non si debba applicare la sospensione condizionale, in lavori di pubblica utilità della durata pari alla sanzione detentiva irrogata, quindi un tempo che può eccedere i sei mesi massimi previsti dal Dlgs 274/00 all’articolo 54. Con il quesito referendario si sopprime la pena detentiva per i “reati di lieve entità” di ogni tipo di droga, il che equivale ad un alleggerimento delle sanzioni irrogabili. Questa misura dovrebbe andare nella direzione di un ridimensionamento della popolazione in istituti di pena, perché molti piccoli spacciatori finiscono in regime di custodia cautelare, carcerati preventivamente in attesa della sentenza. Tuttavia, come abbiamo visto, la condanna può essere quasi sempre integralmente convertita in lavori di pubblica utilità.
Quesito diritti 5: 8xmille – abolizione del riparto delle scelte inespresse
La Legge 222/85 regola all’articolo 47 il meccanismo dell’8 per mille sul gettito totale IRPEF da destinarsi alle confessioni religiose che hanno sancito rapporti con di tipo concordatario con la Repubblica Italiana oppure allo Stato stesso, secondo il numero delle scelte espresse dai contribuenti. Da ciò si può intuire che il singolo contribuente non dispone della propria quota, ma semplicemente di una “preferenza” su come dovrebbe essere ripartito l’8 per mille delle entrate fiscali complessive. Attualmente però esprime una scelta meno della metà degli italiani. Gli altri, come accade durante le elezioni, lasciano decidere a chi indica la propria preferenza perché vige il riparto delle scelte inespresse, a beneficio di tutte le confessioni religiose, ma proporzionalmente maggiore per quella più indicata, ossia la Conferenza Episcopale Italiana (da non confondersi con lo Stato autonomo della Città del Vaticano). Per questo motivo, anche se poco meno del 37% dei contribuenti indica questa preferenza, la CEI ottiene ben l’85% del gettito dell’8 per mille, pari circa ad un miliardo di euro. Senza sindacare sull’utilizzo di queste risorse che può essere deciso autonomamente da ogni confessione religiosa beneficiaria, questo meccanismo di riparto fu criticato anche da voci autorevoli del mondo cattolico quali l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il quesito referendario intende abolire non l’8xmille in sé, ma semplicemente la ripartizione delle scelte inespresse. I timori di incostituzionalità di tale referendum, che affine ad una materia concordataria accettata da entrambe le parti (Chiesa Cattolica e Stato Italiano) oppure approvata con legge costituzionale, dovrebbero essere abbandonati in quanto si tratta di una legge meramente attuativa, tra l’altro già ripetutamente modificata, del Concordato del 1984. Così come non pare in alcun modo qualificabile come trattato internazionale, la cui ratifica non è sottoponibile a referendum ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione. In conclusione, a meno che la Corte Costituzionale non si esprimerà poi con un’interpretazione fortemente estensiva dei dettami costituzionali, il referendum potrebbe essere legittimamente indetto.
Quesito diritti 6: abolizione del contributo pubblico ai partiti
Il tema del finanziamento pubblico ai partiti è spesso sulla bocca di molte conversazioni, politiche e da bar, con semplificazioni grossolane che spesso scadono nel grottesco. Mentre in Parlamento si stanno vagliando numerose proposte – una fra tutte il disegno di legge approvato dal governo lo scorso maggio che introdurrebbe un contributo del 2xmille e a cui possono essere mosse apertamente alcune critiche – la normativa vigente, dopo una serie di modifiche sedimentatesi negli anni, presenta degli aspetti di notevole complessità, ma che possono essere sintetizzate in alcuni punti fondamentali. Il finanziamento pubblico ai partiti è stato abolito con il referendum 1993, anche se è stato reintrodotto indirettamente sotto forma di rimborso spese elettorali per le forze politiche che abbiano eletto un parlamentare, o un europarlamentare, o un consigliere regionale (o provinciale, nel caso di Trento e Bolzano), oppure che abbiano ottenuto almeno il 2% dei voti validi espressi nelle elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati. La soglia, prima del 2012, era pari a 1%. L’entità del rimborso spese annuale, con la L. 92/2012, è stato ridimensionato: si è passati infatti, in una prospettiva di ulteriore riduzione, da 182 a 91 milioni di euro, dei quali 63,7 milioni sono erogati a titolo di rimborso spese e altri 27,3 milioni sono dati invece in cofinanziamento dello Stato, che versa ulteriori 0,50 € per ogni euro “a titolo di quote associative e di erogazioni liberali” donato ai partiti dai privati, nel limite massimo di 10.000€ per ogni persona fisica o ente erogante.
Nei mesi scorsi, in merito al “caso Lusi”, la Corte dei Conti ha stabilito che i soldi sottratti dall’ex tesoriere della Margherita devono essere resi allo Stato, accogliendo quindi l’interpretazione dei vice procuratori Silvestri e Smiroldo, secondo i quali “i soldi del rimborso elettorale non utilizzati per le finalità specifiche indicate dalla legge 515 del 1993 appartengono allo Stato, nonostante i partiti abbiano erroneamente ritenuto negli anni di poterli tenere per sé, senza alcun vincolo di destinazione”. Mantenendo questo orientamento, si intuisce che il costo che lo Stato sosterrà effettivamente dovrebbe essere ancora più contenuto. Lo scorso autunno è scaduta la delega al Governo per riunire in un Testo Unico, da adottarsi nella forma di Decreto Legislativo, tutta la normativa in materia; attualmente quindi le aule parlamentari stanno lavorando per ridefinire il ruolo dei contributi pubblici ai partiti. A tal proposito, il quesito referendario, nella sua ampia articolazione, è tra le proposte più drastiche, poiché intende cancellare tutti i tipi di rimborso spese e di cofinanziamento, mantenendo allo stesso tempo le detrazioni fiscali per le erogazioni liberali, le norme relative a uso di locali per attività politiche, quelle che fissano tetti massimi alle spese elettorali delle elezioni europee e comunali, quelle sulla trasparenza dei finanziamenti privati e sull’anagrafe patrimoniale dei tesorieri. Sottolineiamo il fatto che questo quesito non riguarda la questione degli stipendi e dei vari “privilegi”, più o meno economici, dei singoli parlamentari, ma interviene semplicemente per eliminare i contributi pubblici ai partiti, molti dei quali sono soliti indebitarsi prima delle elezioni nella certezza che quei soldi verranno loro restituiti. Poiché la discussione in materia è abbondante, lasciamo a voi la risposta se sia alla portata di tutti allestire una campagna elettorale senza poi ottenere un centesimo dallo Stato. Si noti infine che se verrà approvata definitivamente una nuova legge che modifichi radicalmente i contenuti normativi essenziali la normativa vigente, il procedimento referendario potrebbe essere interrotto prima della consultazione popolare.
PARERI
Concludiamo mostrandovi quali partiti sostengono la campagna referendaria. Il Popolo della Libertà sostiene i sei quesiti sulla giustizia, anche se l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi li ha firmati tutti e dodici per permettere ai cittadini di esprimersi; la Lega Nord appoggia quelli sulla responsabilità civile dei magistrati, sui magistrati fuori ruolo, sulla separazione delle carriere dei magistrati, e sull’abolizione dei contributi pubblici ai partiti; il Partito della Rifondazione Comunista e Sinistra Ecologia e Libertà appoggiano quelli su divorzio breve, droghe, 8Xmille, e i due sull’immigrazione; La Lega Nord appoggia quelli sulla responsabilità civile dei magistrati, sui magistrati fuori ruolo, sulla separazione delle carriere dei magistrati, e sull’abolizione dei contributi pubblici ai partiti; il Movimento 5 Stelle, con Beppe Grillo che inizialmente sembrava favorevole e poi ha cambiato idea, non esprime una posizione univoca, lo stesso vale per il Partito Democratico, con l’On. Sandro Gozi e altri che appoggiano i 12 referendum, mentre l’Unità si esprime con toni fortemente critici, per giungere addirittura a spiacevoli episodi di tensione tra gli organizzatori della festa democratica di Cortona e il comitato referendario. Il Partito Radicale e il Partito Socialista Italiano, promotori del referendum, sostengono tutti i quesiti.