Lucio Garofalo, in risposta a un dirigente scolastico, affronta la crisi della scuola derivante dall’autonomia scolastica: dalla riforma Moratti alla riforma Gelmini
Di recente ho letto un post scritto da un Dirigente Scolastico, il quale oppone una serie di obiezioni critiche alle mie esternazioni sull’autonomia scolastica. Onestamente, confesso di aver riscontrato spunti interessanti e validi per sviluppare ed approfondire ulteriormente il mio ragionamento. Per cui provo ad esplicitare meglio le mie posizioni. Sarà probabilmente dovuto al caso o alla mala sorte, diciamo pure così, ma sta di fatto che, malgrado il mio intervento lasciasse trasparire una pessima immagine della scuola, numerosi colleghi hanno esplicitamente approvato il mio pezzo apparso su vari siti web.
Per precisare meglio alcuni concetti sarò costretto ad addentrami nel merito delle questioni, facendo dei precisi e circostanziati riferimenti alle mie esperienze professionali pregresse. Eviterò di raccontare alcuni episodi particolari, evitando opportunamente di fare nomi e, soprattutto, cognomi. Mi scuso in anticipo se sarò alquanto esteso nella esposizione, ma temo che sia inevitabile dilungarmi oltremisura.
La scuola dove ho insegnato per vari anni era “appestata” dalla figura paternalista e dal ruolo accentratore e monocratico della preside, con tutte le conseguenze più deleterie che ne derivavano a livello interpersonale: cumuli di ipocrisie, veleni, rancori personali, abusi, angherie, prepotenze, furbizie, finti vittimismi, opportunismi e dualismi esasperati ad arte (per la serie “divide et impera”, una formula cara ai potenti di ogni tempo e luogo) e quant’altro ho sempre biasimato e continuerò a deprecare con tutte le forze in mio possesso, trattandosi di comportamenti assolutamente sleali e disdicevoli. Tutti sanno cosa sono le “vendette trasversali”. Con questo termine, nel gergo mafioso, si indicano le ritorsioni punitive perpetrate a danno di congiunti o affini dei cosiddetti “infami”: siano essi pentiti, delatori o funzionari dello stato, insomma chiunque sia bollato come un nemico o un traditore dalle cosche mafiose. Per estensione iperbolica si potrebbe affermare che le “vendette trasversali” non sono una prerogativa esclusiva delle associazioni di stampo mafioso e camorrista, ma si iscrivono nel codice di comportamento “tipicamente umano”. Con la differenza che, altrove, in ambienti non tecnicamente malavitosi, per realizzare propositi di vendetta si ricorre a sistemi meno cruenti, come l’ipocrisia ed altre forme di perfidia sistematica, il discredito lesivo volontario, il pettegolezzo velenoso o, peggio, le molestie e i maltrattamenti psicologici, l’emarginazione e l’indifferenza collettiva, ma non per questo, ossia per il fatto di non essere fisicamente brutali, si tratta di atteggiamenti meno riprovevoli e più accettabili.
Una volta ho discusso animatamente con una preside, di cui taccio opportunamente il nome; durante l’acceso confronto sono emerse profonde divergenze d’opinione rispetto ai termini, ai tempi e alle modalità organizzative, ai destinatari e alle finalità educative di un progetto, nella misura in cui contrastavano in modo stridente con l’ipotesi pianificata. Il capo d’istituto insisteva per promuovere il classico dibattito, oltretutto senza contraddittorio, utile solo ad ottenere visibilità mediatica e a riscuotere eventuali consensi da spendere politicamente. Come in altre circostanze, sono entrato in rotta di collisione con la mentalità propria di chi dichiara in partenza di concedere “carta bianca”, ma poi cerca di manipolare a proprio piacimento le persone, trattate in modo paternalistico alla stregua di burattini, come sono adusi molti datori di lavoro delle aziende private. In sostanza, taluni presidi hanno la tendenza ad applicare nel mondo della scuola quelle pratiche a dir poco discutibili apprese dalla peggiore politica. Altro che “super partes”. E’ evidente che in un contesto ambientale come quello dipinto con tinte inevitabilmente oscure, qualsiasi iniziativa pedagogica e culturale che si distingua per l’originalità, portata avanti in modo pulito, coerente e disinteressato, con onestà e trasparenza, con impegno, intelligenza e passione creativa, rischi di essere inquinata e mortificata da chi persegue solo finalità utilitaristiche in maniera cinica e spregiudicata. E’ curioso, ma inevitabile, scoprire che la maggior parte degli esseri umani si comporta alla stregua dei polli di Renzo, che si beccano tra loro mentre dovrebbero solidarizzare, quantomeno per il comune destino che li attende. Personalmente non so dire se si tratti di una questione di origine genetica, connessa alla cosiddetta “natura umana”, o se sia un problema di ordine culturale, riconducibile a fattori materiali e spirituali, dunque anche al processo educativo, alla formazione etica ed intellettuale, alle abitudini sociali indotte dal sistema economico e politico in cui si è inseriti dalla nascita. In ogni caso, è certo che taluni dirigenti “giocano” a dividere, ossia intervengono proprio su questo atteggiamento di reciproca avversione e competizione, non importa se innato o indotto.
Inoltre, non ritengo sia una colpa ascrivibile ai docenti se taluni dirigenti scambiano l’autonomia scolastica per una sorta di tirannia personale, se la legge prevede incentivi economici per promuovere le attività progettuali extracurricolari soprattutto in termini di laute percentuali a beneficio dei presidi, o se esistono molteplici tipologie di fondi aggiuntivi da cui è possibile attingere per sovvenzionare l’ampliamento e l’arricchimento dell’offerta formativa delle scuole autonome. A tale riguardo chiarisco subito, a scanso di eventuali equivoci, che non sono contrario, a priori, ai progetti di qualità e di valore. Quello delle “attività aggiuntive” a carattere non obbligatorio, ossia gli impegni progettuali extra-curricolari, è un altro tema molto serio avvertito dal corpo docente.
Nel campo della didattica e dell’istruzione scolastica, i criteri di quantità e qualità sono in genere difficilmente conciliabili tra loro, nel senso che l’una esclude l’altra. In genere la quantità di tipo “industriale” rischia di inficiare la qualità creativa di un progetto. Ciò è vero a maggior ragione in un sistema educativo, laddove i progetti sono prodotti in serie, praticamente standardizzati. In tal modo le singole istituzioni scolastiche rischiano di diventare vere e proprie “fabbriche di progetti”, ovvero “progettifici scolastici”. Con inevitabili ripercussioni negative sulla qualità e sul successo formativo dei giovani allievi. Per non parlare dei continui, imbarazzanti strappi alle regole, delle reiterate e inopinate violazioni di norme e diritti sanciti dalla legge, delle frequenti scorrettezze e furbizie commesse all’interno delle singole scuole, derivanti da invidie, rivalità personalistiche ed altre meschinità che sono gestite male all’interno di un paradigma dirigista ed accentratore, in virtù di una leadership pateticamente ed artificiosamente paternalista. Stendiamo dunque un velo pietoso: le scuole sono ormai ridotte ad essere progettifici privi di qualità. E’ evidente che i progettifici scolastici sono deplorevoli non per una presa di posizione aprioristica o astratta, ma per motivi di ordine pratico. Nulla mi impedirebbe di avallare i progetti di qualità, purché siano discussi e realizzati seriamente, ma nel contempo sono cosciente che i casi virtuosi sono eccezioni assai rare. Invece, i progettifici scolastici si caratterizzano negativamente anzitutto per l’assenza di creatività e trasparenza, per elementi di inefficacia e inadeguatezza degli interventi, per una mancata rispondenza ai bisogni formativi e socio-culturali degli studenti, mentre obbediscono solo a logiche mercantili ed affaristiche. Non è un caso che si chiamino progettifici in quanto si configurano proprio come fabbriche di progetti che sacrificano la qualità per privilegiare e premiare soprattutto la quantità industriale.
Ribadisco ancora una volta che non sono affatto contro i progettifici per rivendicazioni ideologiche astratte, ma per ragioni molto concrete legate alla mia esperienza diretta. Vengo ora alla questione cruciale della scarsa trasparenza nella gestione politico-finanziaria e della democrazia collegiale, che versa in condizioni di estrema decadenza. Dall’emanazione nel 1974 dei Decreti Delegati che istituirono varie forme e strumenti di democrazia collegiale nella scuola, la partecipazione alla vita e al funzionamento degli organi collegiali si è progressivamente ridimensionata e deteriorata, fino ad essere sancita solo sulla carta. Oggi il potere decisionale detenuto ed esercitato all’interno degli organi collegiali (Consigli di Istituto, Collegi dei docenti, Consigli di classe, interclasse e intersezione) esclude sempre più la maggior parte delle famiglie, degli studenti, del personale docente e non docente. In pratica l’esercizio del potere politico-decisionale nelle singole realtà scolastiche è riservato a una ristretta cerchia oligarchica formata dal Dirigente scolastico e dai suoi più stretti e fidati collaboratori.
Esaminiamo il caso emblematico di un organo essenziale come il Collegio dei docenti. Un tempo il Collegio dei docenti era la sede deputata a discutere di argomenti più elevati, vale a dire tematiche di tipo psico-pedagogico, per cui gli insegnanti più aperti, curiosi, motivati, culturalmente preparati e coscienti, avevano modo di confrontarsi e di maturare sotto il profilo intellettuale e professionale. Oggi i Collegi dei docenti sono ridotti ad essere centri di ratifica puramente formale e di adesione acritica alle delibere assunte altrove dai Dirigenti e dai loro staff di collaboratori. L’avallo avviene in genere mediante procedure antidemocratiche che esautorano e mortificano la dignità e la sovranità decisionale dei Collegi stessi. Questi sono ormai il luogo più alienante e passivizzante in cui al massimo si affrontano questioni finanziarie, senza fornire la dovuta trasparenza informativa e normativa, senza riferire alla platea collegiale tutti i dati, le notizie ed i parametri relativi al budget effettivo di spesa delle singole scuole. Insomma, i Collegi avallano spesso e volentieri senza nemmeno conoscere fino in fondo l’oggetto reale posto all’ordine del giorno all’attenzione degli organi collegiali: si pensi, ad esempio, alle somme e ai fondi economici aggiuntivi, in taluni casi piuttosto cospicui, stanziati ad esclusivo vantaggio e sovvenzionamento di un’esigua minoranza di colleghi che, guarda caso, finisce per coincidere esattamente con la cerchia che fa capo al cosiddetto “staff dirigenziale”, tanto per usare una terminologia assai cara ai “presidi-manager” e tipica del triviale gergo aziendalista che oramai imperversa nelle scuole.
Da troppi anni la scuola pubblica italiana risente di un deficit crescente di collegialità e dialettica democratica. In modo particolare, gli spazi di libertà e partecipazione si sono ridotti, subendo colpi letali inferti dai precedenti governi senza soluzione di continuità.Con l’istituzione dell’autonomia scolastica e l’applicazione della legge n. 53/2003 (meglio nota come “riforma Moratti”, a cui ha fatto seguito l’opera di affossamento compiuta dalla Gelmini, affiancata in questo disegno demolitore dal ministro Brunetta) è stata introdotta una dei ruoli di stampo oligarchico, imponendo un’impostazione autoritaria e creando una profonda divisione gerarchica nel quadro delle relazioni umane e professionali tra i lavoratori della scuola. In particolare, all’interno del corpo docente si è prodotta una netta disparità di redditi e funzioni non corrispondenti a meriti o capacità reali, a qualifiche professionali o specifiche competenze, innescando un processo di mercificazione delle mansioni didattiche e un effetto di aziendalizzazione (oltretutto maldestra) degli ordinamenti e dei rapporti interni, caratterizzati in termini di comando e subordinazione, che hanno logorato ed azzerato la democrazia collegiale.
Negli ultimi anni abbiamo sperimentato come l’avvento dell’autonomia scolastica e l’attuazione della “riforma Moratti” non abbiano sortito esiti positivi in termini di apertura delle scuole alle reali esigenze del territorio. La formulazione giuridica dell’autonomia non ha stimolato le scuole ad esercitare un ruolo di traino culturale rispetto al contesto sociale di appartenenza. In troppi casi le istituzioni scolastiche assumono posizioni di sudditanza psicologica verso i poteri egemoni a livello locale: mi riferisco anzitutto alle Pubbliche Amministrazioni, che si dimostrano incapaci o restie a finanziare le iniziative progettuali di arricchimento qualitativo dell’offerta formativa. A ciò si aggiunga un imbarbarimento dei rapporti umani, per cui si assiste a conflittualità sempre più frequenti. Tale degenerazione è una conseguenza dell’autonomia, che non ha generato equità ed efficienza, ma ha creato solo irrazionalità, contrasti, assenza di certezze, violazione di norme e diritti, premiando gli atteggiamenti più arroganti e furbeschi, esasperando le rivalità e gli egoismi più venali. In questo disegno restauratore e disgregatore sono palesi le responsabilità politiche dei precedenti governi che hanno avviato la demolizione della scuola pubblica e della democrazia partecipativa, per cui il precedente governo Berlusconi ha avuto la possibilità di infliggere il colpo letale al diritto costituzionale all’istruzione grazie alla controriforma varata dal ministro Gelmini.
In tal modo lo stato di confusione, disorientamento, la crisi delle norme democratiche e sindacali, si sono accentuati, acuendo le contraddizioni intestine al mondo della scuola. Spero che queste ulteriori riflessioni siano chiare ed esaurienti, ancorché non esaustive.