Recensione e riflessioni sul film “C’è chi dice no” di Giambattista Avellino
C’è chi dice no, questo l’imperativo che titola il film della regia di Giambattista Avellino, uscito al cinema l’8 aprile 2011. Un comando forte, al negativo, che si propone di combattere, almeno utopisticamente, la piaga del precariato e della raccomandazione. Una storia purtroppo ancora più pungente e scottante a due anni di distanza dalla sua produzione, una trama imbevuta di testimonianze non verosimili, ma spaventosamente vere e attendibili.
Tre sono i personaggi di C’è chi dice no, tre campioni esemplificativi estratti a sorte tra le milioni di vicende testimoniabili nel bel paese: Max, Irma e Samuele. Questi si incontrano ad una rimpatriata di classe, dopo essersi persi di vista per molti anni, e si accorgono ben presto di essere gli unici “sfigati” in mezzo a tanti figli di papà che hanno preferito proseguire la scia paterna assicurandosi un mestiere ben retribuito e già avviato. Dunque, i nostri tre protagonisti chiacchierano a lungo e condividono insieme la stessa sorte, aver perso il posto di lavoro perché soffiato all’ultimo da un raccomandato.
Ecco allora l’idea, il colpo di genio e cioè fare stalking ai segnalati, minacciarli, spaventarli e farli vivere nell’angoscia, proprio come loro hanno reso drammatica, a loro volta, la vita delle loro vittime. Ovviamente, ciascuno dei tre non deve vendicarsi direttamente del proprio sopraffattore ma deve occuparsi del carnefice dell’amico per sviare eventuali sospetti su di lui. L’obiettivo è quello di costringere il soggetto incompetente e raccomandato a concedere spontaneamente la sua occupazione a chi la meritava sul serio. Risultato raggiunto in due casi su tre. Infatti Max è addirittura ambito da due direttori di giornale grazie alla mediazione della figlia di uno dei due. Irma, promettente dottoressa, riottiene il suo incarico perché la segnalata era perfino ignara di non essere giunta a quella posizione sociale con le sue stesse forze, ma solo in qualità di compagna di un figlio di papà. Questa donna dall’accento straniero ha il coraggio di gridare che all’estero vale il merito, che lei ha tutte le carte in regola per ambire ad un lavoro dignitoso. Tuttavia è sconcertante la spontanea e pacata risposta del suo compagno che replica con una constatazione tanto veritiera quanto agghiacciante. Ossia che è normale ottenere un impiego grazie a conoscenze e raccomandazioni. “In Italia funziona così!”.
Che i vizi degli italiani siano “incalliti” e duri a morire è innegabile, ma altrettanto lo è il fatto che nessun esecutivo, nessun partito, sia riuscito davvero a cambiare “il sistema”. Il governo Letta si è prefissato come priorità assoluta, da porre all’ordine del giorno, la questione drammatica della disoccupazione giovanile ma, per il momento, la situazione rimane stagnante. Come si dice anche nel film, siamo noi stessi parte integrante del sistema. E dovremmo essere noi per primi, individualmente, a dire di no alle logiche del potere.
Dunque per cambiare lo stato dei fatti, dobbiamo diventare più austeri e disciplinati come i nostri concittadini europei o ribellarci in modo rivoluzionario, senza badare al protocollo? È stata la seconda opzione ad essere scelta dai nostri tre personaggi. Una via ardua, impervia, scomoda. Questa decisione è stata pagata a caro prezzo da pensatori coraggiosi come Max, Irma e Samuele. Questi, pur avendo costituito una sorta di massoneria “I pirati del merito”, sono stati letteralmente “fregati” dal sistema molto più potente di loro.
Fare scandalo all’università pubblicando un video che incriminava i cosiddetti baroni dell’università, non è servito a niente. Tutti e tre sono rimasti senza lavoro, puniti legalmente per aver osato parlare.
Il silenzio dei mezzi di comunicazione non è gratuito, ma il potere non bada a spese per far tacere voci scomode. L’ignoranza comune non è attribuibile alla gente, ma alla cattiva informazione che raramente si piega al dovere dell’onestà e della correttezza. Poco importa se per colpa di questo sistema ogni giorno chiudono i battenti tante aziende e fabbriche, se gli imprenditori preferiscono porre fine alla loro esistenza piuttosto che assistere al tracollo dei loro progetti coltivati a suon di sacrifici. La sopravvivenza del sistema conta più del benessere dei cittadini.
Così risuonano soavi le note di C’è chi dice no di Vasco Rossi: “C’è qualcuno che non ha rispetto per nessuno”, e ancora a seguire continua “c’è chi dice no…io non mi muovo!”. Una canzone forse non scritta appositamente per la questione della raccomandazione ma che ben si adatta pure a tale problema. Calza a pennello con la necessità di tirare fuori la grinta per difendere il sacrosanto diritto al lavoro e, in casi estremi, persino con le unghie e con i denti. Dire di no alla corruzione e alla raccomandazione è un dovere civile perché le rivoluzioni storiche non si sono mai attuate grazie alla rassegnazione e alla sottomissione. Quindi C’è chi dice no è un motto da salvare e da diffondere.