Dal 7 marzo 2015, è stato introdotto, tramite il Jobs Act, il contratto a tutele crescenti, che ha dato una svolta all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per quanto riguarda il tema del licenziamento. Il contratto a tutele crescenti è una nuova forma di contratto che sostituisce la forma del contratto a tempo indeterminato. Chi viene assunto, deve firmare il contratto a tutele crescenti, che è come il contratto a tempo indeterminato, ma presenta delle differenze sulle norme riguardo il licenziamento.
Il contratto a tutele crescenti si applica ai neoassunti a tempo indeterminato, che sono stati assunti dal 7 marzo 2015, oppure ai lavoratori che vengono assunti a tempo indeterminato dopo una conversione di contratto dal tempo determinato all’apprendistato. Il contratto a tutele crescenti viene applicato anche ad operai, impiegati oppure quadri e non è valido per i dirigenti. Ma come funziona il contratto a tutele crescenti?
Contratto a tutele crescenti: novità 2019 sul licenziamento
Prima del nuovo tipo di contratto e prima del Jobs Act, se un impiegato veniva licenziato, era previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che venisse reintegrato, nel caso l’azienda avesse almeno 15 dipendenti, se licenziato in maniera illegittima.
Dopo il Jobs Act e con l’istituzione del nuovo Contratto a tutele crescenti, l’impiegato non ha più il diritto di essere reintegrato nuovamente nel posto di lavoro, ma ha solo il diritto di ricevere un indennizzo di natura economica (sempre solo nel caso di licenziamento illegittimo), che è direttamente proporzionale all’anzianità dell’impiegato: ecco perché si chiama “a tutele crescenti”.
Ci sono delle eccezioni e sussistono nel caso di licenziamento discriminatorio, ovvero per motivi religiosi, politici, di sesso di età o per partecipazione ad attività sindacali;nullo, ovvero inflitto durante periodi di tutela, come il primo anno di matrimonio, durante la gravidanza, nel periodo che va dalla nascita fino al primo anno del figlio o durante il periodo di congedo parentale; intimato o inefficace,ovvero fatto solo in forma orale; in difetto di giustificazione, ovvero per motivi di richiami per una disabilità fisica o psichica del lavoratore: in questi quattro casi, varrà ancora il vecchio emendamento, perciò il lavoratore sarà reintegrato nell’azienda.
Il contratto a tutele crescenti va a sostituire ogni altro tipo di contratto: un’azienda, al momento dell’assunzione, potrà fare il contratto a tempo a tutele crescenti, il contratto a tempo determinato o l’apprendistato.
Ciò serve a garantire il livello minimo del salario ai lavoratori, il versamento dei contributi obbligatori ed aumentare il livello di occupazione.
Contratto a tutele crescenti e tempo indeterminato dopo i primi tre anni: cosa dice la legge?
Col decreto del 4 marzo 2015 e l’introduzione del contratto di lavoro a tutele crescenti si prevede una nuova declinazione del contratto a tempo indeterminato e ciò prevede alcuni benefici per l’azienda.
Un’azienda che ha intenzione di assumere un impiegato con contratto a tutele crescenti, ha diritto ad un’agevolazione fiscale durante i primi tre anni del rapporto di lavoro. Questo potrebbe invogliare le aziende ad assumere per almeno tre anni un impiegato, ma potrebbe portare ad un licenziamento alla fine di questi tre anni.
Dopo i primi tre anni di contratto di lavoro a tutele crescenti, il contratto di lavoro deve cambiare in un contratto a tempo indeterminato, molto più costoso all’azienda, perciò si potrebbe incorrere ad una rescissione del contratto di lavoro, finito il periodo di tre anni.
Contratto a tutele crescenti e decreto Naspi 2019
Il Naspi è la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego. L’obiettivo è quello di fornire un sostegno al reddito dei lavoratori che hanno un rapporto di lavoro subordinato o che abbiano perso involontariamente il lavoro e si applica ai casi di disoccupazione verificati dal primo maggio 2015.
Il decreto Naspi è destinato ai lavoratori dipendenti, compresi i dirigenti ed i dipendenti pubblici a tempo indeterminato, agli apprendisti ed ai lavoratori che hanno sottoscritto un contratto di lavoro subordinato dopo il primo maggio 2015.
Al decreto Naspi possono accedere i lavoratori che hanno perso il lavoro involontariamente e chi è in disoccupazione.
Per accedere al decreto Naspi, bisogna avere alcuni requisiti: 13 settimane di contribuzione negli ultimi 4 anni (con gli eventuali contributi versati) e un periodo di 30 giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l’inizio di disoccupazione. I periodi possono essere stati maturati anche durante un congedo parentale o durante un periodo di maternità obbligatoria, un periodo di lavoro all’estero in paesi comunitari o convenzionati, un periodo di astensione per malattia di figli minori di 8 anni e giornate di lavoro agricolo.
La Naspi prevedere un’indennità mensile di disoccupazione. L’indennità mensile viene versata ogni mese per un numero di settimane pari alla metà delle settimane contributive presenti negli ultimi quattro anni.
L’indennità mensile è pari al 75% della retribuzione media mensile imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni; nel caso la retribuzione sia inferiore ad un certo importo stabilito dalla legge, l’importo viene rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’Indice Istat (nel 2019, il valore è di 1224, 44 euro).
Se, invece, la retribuzione media è superiore all’importo del riferimento annuo, la misura dell’importo è pari al 75% dell’importo di riferimento annuo stabilito dalla legge, a cui va aggiunto il 25% della differenza fra la retribuzione media mensile e l’importo stabilito dalla legge. Comunque l’indennità non può superare il limite massimo stabilito dalla legge, l’importo massimo cambia ogni anno e quello del 2019 è di 1328,76 euro.
L’indennità può essere riscossa tramite un accredito sul proprio conto corrente bancario o conto corrente postale, su libretto postale o tramite un bonifico presso l’ufficio postale nel CAP di residenza o domicilio di chi lo richiede.
L’importo viene sospeso in caso di rioccupazione con contratto di lavoro subordinato di durata non superiore ai sei mesi o in caso di nuova occupazione in paesi dell’Unione Europea o paesi con cui l’Italia ha stipulato delle convenzioni bilaterali.