Pickett e Wilkinson, autori del saggio “The Spirit Level“, tornano sul tema della diseguaglianza per mostrare come le ricerche scientifiche più recenti diano a loro ragione
Kate Pickett e Richard G. Wilkinson nel 2009 hanno pubblicato il saggio The Spirit Level, che ha registrato circa 200 mila copie vendute nella edizione originale, cui sono seguite 23 traduzioni in lingua estera, compresa quella in italiano per Feltrinelli dal titolo La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici. Il domenicale The Observer del 9 marzo ha ospitato un articolo in cui gli autori, a cinque anni di distanza, tornano sul tema per mostrare come le ricerche scientifiche più recenti stiano comprovando le tesi del libro.
Per i due, entrambi epidemiologi, il successo “inaspettato” – potremmo dire quasi virale – del loro saggio è dovuto principalmente “al caso”, anche se notano che dalla pubblicazione di The Spirit Level a oggi l’attenzione sulle diseguaglianze sia aumentata. Come esempio portano il Movimento Occupy, sorto nel 2011 e divenuto oggetto di attenzione mediatica soprattutto con le manifestazioni di piazza a Zuccotti Park presso Wall Street, luogo simbolo della finanza. A proposito delle crescenti diseguaglianze, pure l’attuale pontefice Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, ha scritto senza mezzi termini che “l’inequità è la radice dei mali sociali” e “finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema”.
Pickett e Wilkinson – che ora girano il mondo per conferenze e dibattiti, confrontandosi anche con le maggiori istituzioni mondiali – affermano che la diseguaglianza sia in grado di influenzare anche il modo in cui ci rapportiamo con gli altri. “Quasi tutti i problemi che sono più comuni in fondo alla scala sociale sono maggiormente diffusi nelle società più inique” – affermano i due, citando tra i sintomi la diffusione di “malattie mentali, tossicodipendenze, obesità, scarsa vita sociale” e sottolineando che “gli effetti della diseguaglianza non si limitano ai poveri”. In tal senso, il professor Ichiro Kawachi dell’Università di Harvard, noto in ambito accademico per questo campo di ricerche, definisce la diseguaglianza un’“inquinante sociale”. Nelle società più diseguali i problemi sanitari e sociali risultano essere anche “dieci volte maggiori“, questo perché la diseguaglianza “colpisce una fetta molto ampia della popolazione”.
Le accuse dei “sostenitori politici della diseguaglianza” – o, meglio, di coloro che, a partire da una concezione di ineguaglianza sociale, giustificano la diseguaglianza economica, se vogliamo distinguere i due termini – comunque non si sono fatte attendere, perché c’è chi scorge in questi studi alcune “idee mostruose” che si reggerebbero sul nulla. Pickett e Wilkinson, d’altro canto, difendono la bontà del loro modello mostrando come sia negli USA, sia in Cina, le zone con meno disparità siano più sane delle altre. Ma soprattutto portano a loro sostegno le conferme empiriche sempre maggiori in ambito psicosociale sulla diseguaglianza interiorizzata. In alcuni studi emerge che “le persone straordinariamente sensibili sono disprezzate e considerate inferiori”, che la diseguaglianza fa aumentare gli abusi sui minori e che il bullismo è più diffuso “nelle scuole dei paesi con più diseguaglianze” a causa della maggiore competizione sociale. Nelle società più inique sono si registra una presenza più consistente di casi di disturbi mentali; ciò è dimostrato da “ulteriori studi specifici sulla depressione e la schizofrenia”. Inoltre, a detta dei due studiosi, la classifica dei redditi può costituire un predittore dello sviluppo di malattie, migliore del dato del reddito nel suo valore assoluto, cioè quello monetario.
Se spesso la difficoltà nel “rompere il ghiaccio tra le persone” va a discapito di un auspicabile “rafforzamento della vita comunitaria”, è possibile constatare che maggiori diseguaglianze danno origine a maggiori ansie e timori del giudizio altrui. Di qui le reazioni, che possono essere molto variegate, dal terrore del contatto sociale al narcisismo più sfrontato. Forse è però in ambito economico che gli studi sulla diseguaglianza hanno avuto “una maggiore risonanza”. Questi hanno evidenziato che l’iniquità nella distribuzione dei redditi riduce i periodi di espansione economica ed espone l’economia a cicli più frequenti di bolle speculative con conseguenti tracolli di grave intensità. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale consiglia di agire sia sulla riduzione della diseguaglianza, sia sulla crescita economica a lungo termine, perché costituirebbero “due facce della stessa medaglia”. Secondo quanto riportano i due saggisti, “gli esperti dello sviluppo fanno notare come la diseguaglianza comprometta la riduzione della povertà”. Per giunta, si ritiene che anche gli effetti sull’ambiente non vadano sottovalutati, perché una competizione sociale crescente “intensifica il consumismo”.
Vi sono segni di controtendenza? Pickett e Wilkinson citano come esempio le “fairness commissions”, traducibili in italiano come “commissioni di equità”, istituite da alcune amministrazioni locali britanniche. Queste commissioni – nate da una proposta contenuta proprio nel saggio dei due scienziati – vedono la collaborazione di consiglieri, professionisti, insegnanti, talvolta anche religiosi, e hanno giocato un ruolo decisivo nel garantire il salario di sussistenza a molti lavoratori. Tuttavia si è ancora lontani dal frenare quell’1% più abbiente che nell’arricchirsi continua a correre più velocemente del resto della società.
Le ricerche dell’associazione internazionale Equality Trust fondata da Pickett e Wilkinson – altra idea sorta nel loro libro – hanno calcolato che in Gran Bretagna “le cento persone più ricche possiede il 30% della ricchezza delle famiglie” e che nelle società quotate al FTSE 100 il “rapporto di retribuzione di circa 300 a 1” tra i vertici società e il lavoratore che guadagna meno non accenna a diminuire. Questo perché pagare chi è subordinato un terzo del centesimo forse è il modo più efficace per dirgli che è “quasi inutile”.
In conclusione, i due studiosi affermano che ora tocca ai politici “riconoscere che ridurre la diseguaglianza significa migliorare il benessere psicosociale dell’intera società”.
Allego qui di seguito qualche altra immagine tratta da “The Spirit Level” (2009)