Il 29 maggio la Camera dei deputati ha approvato una proposta di legge sul cosiddetto “Divorzio breve“. Di cosa si tratta?
Dopo lo tsunami delle europee, sui temi della famiglia anche il Parlamento prova a cambiare verso. Lo scorso 29 maggio, infatti, la Camera dei deputati ha approvato quasi all’unanimità una proposta di legge che modifica la disciplina sul divorzio. Dopo una “pausa di riflessione” di “soli” 44 anni, il Parlamento italiano finalmente si appresta a modificare la Legge Baslini-Fortuna del 1970, che eliminò dal nostro ordinamento il principio dell’indissolubilità del matrimonio.
La parola ora spetta al Senato che, se approverà il testo della Camera, metterà fine al lungo braccio di ferro tra politica e società civile su questa controversa materia. Da una parte i cittadini che hanno da sempre rivendicato il diritto inalienabile sulle scelte relative alla propria sfera personale ed affettiva; dall’altro lo Stato che continua ad essere convinto che la tutela della famiglia passi attraverso un rigido controllo della legge sul divorzio. Le statistiche, tuttavia, evidenziano che questo approccio, a lungo termine, ha finito per disincentivare il matrimonio, mentre le domande di divorzio sono aumentate in maniera esponenziale negli anni. Solo nel 2011 (dati Istat) ogni 1000 matrimoni si sono registrate 311 separazioni e 182 divorzi.
A dispetto di questi numeri l’on. Alessandra Moretti, una delle deputate più vicine al Presidente Renzi nonché relatrice del provvedimento sul “divorzio breve” alla Camera, nella sua relazione nell’Aula di Monte Citorio ha dichiarato: “…Con il provvedimento sul divorzio breve noi vogliamo affermare un principio, quello della salvaguardia della cultura della famiglia, che deve sopravvivere anche laddove la coppia non riesce più a stare insieme”. Insomma, il Parlamento prova ad allentare la stretta ma non molla il guinzaglio. Infatti, coloro che con l’approvazione della legge sul divorzio breve hanno sperato in una svolta epocale, dovranno attendere ancora un po’ prima di tirare un sospiro di sollievo.
Attualmente, in Italia le coppie che vogliono ottenere il divorzio devono necessariamente passare attraverso la separazione legale. È la legge a stabilire, nonostante la volontà manifesta dei coniugi o di uno solo di essi, che devono trascorrere tre anni (fino al 1987 erano 5 anni) prima di ottenere una sentenza (in caso di separazione giudiziale) o l’omologazione (in caso di consensuale), che li sciolga dal vincolo familiare. Trascorso questo periodo, il giudice convoca le parti per accertare se vi sia la possibilità di una riconciliazione, ovvero non esistano più le condizioni per una comunione materiale e spirituale. Ma il calvario non finisce qui. Per tornare ad avere lo status di persone “libere” è necessaria una seconda causa per ottenere il giudizio di divorzio, che può essere chiesto terminato l’iter della separazione. Solo quando la sentenza di divorzio sarà passata in giudicato cesseranno tutti gli effetti civili del matrimonio.
Ecco cosa cambierà se la riforma del “divorzio breve” dovesse divenisse legge al Senato. I tempi della separazione verrebbero portati dagli attuali tre anni a uno per le separazioni giudiziali e a sei mesi per quelle consensuali. Il calcolo del periodo della separazione inizierebbe a decorrere dal momento della notificazione o dal deposito del ricorso della domanda di separazione. Lo scioglimento della comunione legale verrebbe anticipato al momento in cui il presidente del Tribunale autorizzi i coniugi a vivere separati, o alla data di sottoscrizione del verbale di separazione. Qualora i coniugi fossero in regime di comunione la domanda di divisione dei beni potrà essere chiesta congiuntamente a quella di separazione o divorzio, mentre attualmente il presupposto per poterla richiedere è la pronuncia definitiva di separazione. In pratica questa riforma, che sarebbe più corretto chiamare “separazione breve”, lascerebbe in vigore la separazione legale (attualmente vigente oltre che nel nostro Paese in Polonia, Malta e Irlanda del Nord) ma ne ridurrebbe il periodo; lascerebbe inalterato l’istituto del divorzio, e quindi l’onere della seconda causa; non inciderebbe sul carico pendente delle cause iscritte al ruolo (attualmente 539.878); non abbatterebbe i costi esorbitanti, che negli anni hanno fatto del divorzio un vero e proprio business per gli addetti ai lavori.
Un po’ di numeri potranno chiarire la situazione. La Commissione Europea per l’efficienza della Giustizia (Cepej) ha attribuito all’Italia la maglia nera per i tempi troppo lunghi delle cause matrimoniali. La media nazionale è di 538 giorni per una separazione e 453 per una causa di divorzio. Secondo un calcolo, il costo medio di ogni singolo procedimento relativo alle sole spese statali è di 815 euro, mentre quello per l’assistenza legale, dall’inizio del procedimento alla sentenza di divorzio, varia da 3.000 a 13.000 euro (dati Eurispes).
Secondo i dati Istat nel 2011 sono state 88.797 le separazioni e 53.806 i divorzi. Si spiega così la discrepanza tra il numero delle sentenze di separazione e quelle di divorzio. È evidente che molte coppie ottenuta la sentenza di separazione, sono disincentivate a proporre un’ulteriore causa ove non sussista l’esigenza di contrarre un nuovo matrimonio o in presenza di un’altra unione. A cagione di queste evidenze negli ultimi venti anni si è verificato un boom delle coppie di fatto, che ha costretto il legislatore a riconoscere loro quei diritti che un tempo erano prerogativa dello status matrimoniale, modificando radicalmente l’aspetto della società. Tutto questo pur di non adeguare ai tempi la Legge n. 898 approvata nel lontano 1970.
È chiaro che in Italia la riforma della legge sul divorzio ha sempre fatto venire il mal di pancia a molti politici. Il problema che rischia ancora una volta di far mettere da parte il buon senso è quello di considerare questa riforma esclusivamente sotto l’aspetto dei valori morali. È risaputo che il divorzio, con la divisione dal nucleo familiare e la preoccupazione della crescita dei figli in comune, è una causa di stress psicologico molto grande e già di per sé un deterrente. Per questo la scelta finale dovrebbe risiedere nelle ragioni intime di ogni nucleo familiare e non nelle aspettative sociali di uno Stato. Forse è proprio per questo che il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, lo scorso 23 aprile, durante l’esposizione della relazione programmatica del suo dicastero in Commissione Giustizia al Senato, ha annunciato l’intenzione del Governo di presentare un provvedimento per modificare l’attuale disciplina del divorzio con una “procedura di negoziazione assistita da un avvocato”. Sarà possibile, in questo modo, ottenere lo scioglimento del vincolo coniugale tramite un accordo extragiudiziale concluso tra gli avvocati, come avviene in Francia, fatta eccezione nei casi di presenza di figli minori o portatori di handicap.
Una necessità giustificata dall’eccessivo carico pendente dei processi civili. Sono 5 milioni e mezzo di cause che costano allo Stato ben 2,6 miliardi di euro, di cui il 16.5% sono cause di divorzio che incidono sulla giustizia civile per circa 440 milioni all’anno. La questione, quindi, vista sotto una diversa ottica, appare tutta nella sua drammaticità e, messa da parte la questione morale, ci potrebbero essere buone speranze nei prossimi mesi di un emendamento governativo a qualche decreto che ribalti interamente la situazione. Una soluzione auspicata da tanti, un tentativo di affossare la famiglia per molti altri.