E la violenza sulle donne continua
Carolina, Lucia, Rosaria, Angelica, Yamila, Fabiana. Nomi. Di donne. Nomi come ce ne sono milioni di altri. Nomi che se non fossero legati dallo stesso destino non avrebbero alcun significato, se non quello del nome proprio di persone. E sono solo alcuni degli ultimi casi. Casi di violenza. Violenza sulle donne.
La violenza consumata contro le donne è definita di “genere” (che comprende anche quella contro i minorenni), cioè identità di genere, femminile e maschile, e considerata una violazione dei diritti umani.
Esiste la cosiddetta violenza domestica, compiuta in particolar modo fra le quattro mura di casa, attraverso minacce, vessazioni psico-fisiche, persecuzioni, percosse, abusi sessuali, fino a raggiungere l’omicidio. Le ragazze minorenni sono sottoposte all’incesto. Va citato, inoltre, per dovere, il “femminicidio”: uomini che usano violenza alle donne in quanto tali, cioè perché facenti parte del mondo femminile. In alcuni paesi, come l’India e la Cina, è identificato nell’aborto selettivo, dove le donne sono costrette a dare alla luce solo i figli maschi, in quanto più accettati dalla società.
Già dall’antichità la donna è stata succube dell’uomo e della sua prevaricazione, costretta al solo adempimento delle incombenze domestiche, senza avere il diritto allo studio, e il cui matrimonio, organizzato dal padre, aveva la sola funzione di assegnare alla donna sostegno e protezione. La moglie era considerata soltanto come “possesso del marito” e ad essa non era concesso il controllo giuridico della sua persona, dei suoi figli, dei suoi averi. Solo negli anni settanta fa capolino, in Europa, il “femminismo”. Il movimento delle donne ha iniziato a stimolare l’opinione pubblica contro la violenza di genere, sia per lo stupro sia per la violenza domestica. Ha, inoltre, sollevato la questione della famiglia patriarcale dove il ruolo dell’uomo era quello di “padre-padrone”, non essendo più disposte a sottostare a qualsiasi forma di violenza fuori e in famiglia. A questo sono anche seguiti i primi “Centri antiviolenza”, e le “Case delle donne” come rifugio per accogliere le donne oggetto di violenza.
Solo nel 1993, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta una risoluzione per l’eliminazione della violenza contro le donne, che viene descritta come «Qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata».
Ma, purtroppo, l’amara constatazione, ad oggi, è che a nulla servono dichiarazioni o intenti, la donna è sempre oggetto dei malumori maschili. Di quei maschi che, probabilmente, nella loro infanzia sono stati abusati, vessati. O di quelli che in famiglia hanno visto la madre trattata come oggetto dal padre. Persone insicure e senza stima di sé, con in mente il modello del “macho” cui tutto è dovuto e concesso, in modo particolare l’esercizio dell’autorità padronale verso quella che è considerata l’anello debole della catena sociale. Solo con l’esercizio della violenza questo tipo di uomo pensa di essere “uomo”, di sfiorare quell’onnipotenza che a noi comuni mortali non è concessa. La sensazione di godere del potere di vita e di morte di un proprio simile riempie l’Ego, rende un senso di gratificazione incontenibile.
L’ostilità nei confronti del genere femminile è presente ogni giorno sotto varie forme, più o meno palesi. La discriminazione di genere si trova negli atteggiamenti di certi uomini quando, per un qualsiasi motivo, si lasciano andare ad esternazioni che annullano il lavoro fatto fino ad oggi, ma non ancora compiuto, a favore del gentil sesso. Basta pensare alle invettive ed epiteti indirizzati alle donne al volante, alle “proposte” che ricevono in locali di ritrovo o anche per le vie cittadine.
Data la storia passata, dove le donne erano considerate esclusivamente come oggetto di piacere, e come ancora oggi certi uomini perseverano a considerarle tali, probabilmente l’uomo non vuole accettare la loro emancipazione, seppur incompleta. Dunque, considerandole ancora come oggetto sessuale, il maschio crede di poter esercitare il suo dominio in tal senso, in quanto, se dovesse avere un normale approccio paritario, ciò potrebbe provocare il lui un senso di inferiorità e una conseguente mancata soddisfazione di “possesso”.
Un quarantennio è trascorso con l’ottenimento di buoni risultati in materia di “protezione” femminile, e l’istituzione, nel 1996, dell’apposito Ministero delle Pari Opportunità. Ancorché esistono ancora momenti in cui la discriminazione nei confronti della donna, che deve subire il dolore dell’umiliazione, è segno inequivocabile della resistenza del maschio ad abbandonare questo “antico” modo di pensare. La violenza sulle donne, tuttavia, è dibattuta da non molti anni, le politiche che contrastano questo genere di violenza sono ancora poche. Mancano campagne di sensibilizzazione, ricerche e progetti di formazione. Paesi industrializzati e in via di sviluppo hanno le stesse responsabilità in tema di vessazioni femminili, considerate endemiche. Vittime e aggressori fanno parte di tutte le classi sociali, culturali e ceti economici. E, quel che è peggio, solo una minima parte delle donne fatte oggetto di violenza riesce a denunciare il fatto, a “scoprirsi”; causa la vergogna che provano per quanto hanno subito e perché, anche se non può apparire vero, soggette ad un marcato senso di colpa, come se loro fossero le sole e uniche responsabili.
La speranza risiede nei ricambi generazionali, che susseguendosi possono disperdere poco alla volta il materiale inquinante, sostituendolo con uno strato di sostanza rigenerante, che rende fertile il terreno della tolleranza, della solidarietà, del rispetto. Dove crescono soltanto fiori. Biancospini.