Durante le ultime elezioni in Francia i socialisti perdono 155 città ma salvano Parigi, mentre Il Front National di Marine Le Pen diventa il terzo partito del Paese
Lo dicono le ultime elezioni in Francia (amministrative sì, ma non per questo meno importanti di quelle presidenziali): il Paese si sposta a destra. Non fa nemmeno in tempo a lasciarsi alle spalle l’era Sarkozy che già l’UMP, il partito di centro-destra, ritorna in testa derubando alla sinistra ben 155 città. Intanto il Front National di Marine Le Pen sfonda diventando il terzo partito del Paese. E al Partito Socialista di Hollande non resta che accontentarsi di Parigi, conquistata al secondo turno da Anne Hidalgo, unica amara consolazione in un disastro annunciato.
In uno Stato come quello francese che ha sempre oscillato tra monarchia e repubblica, che ha vissuto una Rivoluzione per poi affidarsi a Napoleone, non stupiscono questi veloci e radicali movimenti elettorali, tantomeno il succedersi al governo di due Presidenti così diversi come Sarkozy, eletto nel 2007, e Hollande, all’Eliseo dal 2012. Il primo – avvocato formatosi nel neo-gollismo, anche autore di qualche saggio su religioni e laicità e ultimamente impegnato in faccende giudiziarie – viene additato come simbolo di derive populistiche e plebiscitarie e – secondo il parallelo (a mio parere fondato) istituito da Sofia Ventura, politologa di estrazione liberale, nel suo Racconto del capo (2012) – ricorda il nostro Berlusconi (certo, non bisogna lasciarsi prendere troppo la mano con le analogie per evitare paragoni improbabili come quello che fa Gaetano Quagliariello tra De Gaulle, padre della Quinta Repubblica, e Berlusconi, che non è nemmeno riuscito a farci uscire dalla Prima).
Il secondo invece – convinto socialista benché il padre avesse simpatie di estrema destra vicine a Pétain – si è dall’inizio definito un “présidente normal”, un uomo del popolo, in netta opposizione all’immagine personalistica del suo predecessore e anche del suo collega di partito, ed ex presidente del FMI, Dominique Strauss-Kahn (basti pensare alla discrezione con cui ha gestito la sua vita privata).
Il comportamento sommesso di Hollande ha senza dubbio convinto buona parte dell’opinione pubblica francese contribuendo alla sua vittoria, già profilatasi al primo turno quando Sarkozy (caso unico per un presidente uscente) è stato sconfitto con l’1,6% di voti in meno. Ma a lungo andare questa immagine di basso profilo, che per un certo tempo si era rivelata convincente, ha finito per essere un boomerang, lo ha schiacciato, proprio nel momento in cui una crisi economica di portata mondiale richiedeva rapidità, personalità e forti decisioni.
Così oggi Hollande è il presidente meno popolare degli ultimi cinquant’anni: benché politico di una certa astuzia, non ha sinora saputo interpretare i bisogni dei francesi sui temi delle tasse e della disoccupazione, anche se ha comunque mostrato di essere consapevole del cambiamento, come dimostra l’approvazione da lui fortemente sostenuta dei matrimoni gay. Difficilmente però gli sarà data una seconda opportunità. Ma non tutto è perduto: mancano ancora alcuni anni alla fine della presidenza, dunque il tempo non manca per cambiare rotta, ed è proprio di questi giorni l’annuncio di un rimpasto di governo che ha visto una staffetta tra il Primo ministro Ayrault e il ministro dell’Interno Valls, popolare, carismatico e deciso, come si è visto nella vicenda del comico antisemita Dieudonné.
Quanto a Marine Le Pen (si veda su questo giornale l’articolo di Fabiana Ruggiero), non è mai stata forte come in questo momento, e il suo partito sarà sicuramente uno di quelli che contribuirà a tingere di nero il Parlamento europeo di Strasburgo. Di nero perché la maggioranza dei populismi europei (anche se non si dichiarano né di sinistra né di destra) sono nati a destra e, a seconda dei Paesi, condividono istanze xenofobe e nazionalistiche più o meno marcate, spesso condite anche di antisemitismo ed esplicito razzismo. Nel Front National queste tendenze erano più evidenti all’inizio, quando il partito era nelle mani del padre di Marine, Jean-Marie Le Pen (oggi presidente onorario), che non esitava a richiamarsi a Vichy, a fare professione di antisemitismo, o a prendersela con gli immigrati, talora infischiandosene dei diritti individuali. Addirittura nel 2002, fatto fuori il candidato socialista Lionel Jospin, riuscì ad andare al ballottaggio con Chirac che, con un fronte popolare trasversale, fu poi eletto presidente.
Ma quando nel 2011 arriva la figlia, il Front National cambia, allineandosi ai tempi e aspirando alla normalizzazione: sparisce l’estremismo (anche se la xenofobia rimarrà sempre), il nazionalismo viene fondato sulla difesa dei valori repubblicani e sul rispetto dei diritti della persona e delle sue libertà. Dalla sinistra vengono recuperati i cosiddetti “temi sociali”. E, con l’esplodere della crisi, inizia la battaglia contro l’Europa liberista e la moneta unica in favore della sovranità nazionale.
Il Front National viene rielegittimato e oggi, forte della vittoria in 15 città, sta crescendo sempre di più in Parlamento e può aspirare, da vera forza politica, al governo del Paese. È inutile allarmarsi; per la Le Pen la strada verso l’Eliseo è ancora lontana. Ma non bisogna abbassare la guardia perché il suo pericolo sta proprio nella sua ambiguità: il Front National non ha affatto ripudiato il suo passato e rappresenta i rigurgiti (moderati) della peggiore destra. Una sua vittoria alle elezioni nazionali, in un Paese liberale come la Francia, sarebbe una sconfitta. Alla sinistra non resta che rimboccarsi le maniche: e speriamo che quando lo capirà non sarà troppo tardi.