Il clima in cui viviamo non è più quello in cui siamo cresciuti. L’energia solare è una soluzione?
La temperatura è un indicatore significativo del clima. Nella ricca Francia, durante l’estate del 2003, si registrò la morte di 15.000 persone a causa di un’eccezionale ondata di calore. Stando al CNR, nei dieci anni più caldi della storia italiana, nove sono stati indicati dopo il 2000. Nel corso del 2007, nel centro-sud italiano la siccità ha favorito numerosi incendi, devastando quasi 113 mila ettari di territorio. A Foggia si rilevò la temperatura più alta con ben 45,2° C. Fenomeno senza precedenti, in quell’anno in provincia di Ravenna ci furono 130 casi di persone colpite dalla Chikungunya, una malattia virale provocata dalla puntura di zanzara del genere Aedes (meglio conosciuta come zanzara Tigre) di origine tropicale. Nell’anno in cui si costituiva il regno d’Italia (1861) la temperatura era di 0,8° C. in meno rispetto alla media del periodo 1971/2000. L’autunno italiano del 2012 è stato il più caldo dal 1800 con 1,6° C sopra la media.
Altro segnale della tropicalizzazione, dovuta al riscaldamento atmosferico, è l’accentuarsi delle malattie infettive sconosciute persino in quei territori del pianeta mai interessati dal fenomeno. È accaduto negli Stati Uniti e in Canada, ad esempio, colpiti dal virus del Nilo di cui è portatrice la zanzara Culex pipiens, mietendo numerosissime vittime. Ancora, negli USA 2.300 contee nell’estate 2012 hanno invocato lo stato di calamità naturale e sul Mississippi la navigazione è stata quasi del tutto interrotta a causa dell’abbassamento del livello del fiume. Una siccità mai vista negli ultimi cinquant’anni. Nella Death Valley si è raggiunto il record di 56,6° C. detenuto dalla Libia e risalente al 1922. A Buffalo (Oklahoma) nell’estate del 2012 si sono toccati 41,6° C. I ghiacci artici continuano ad assottigliarsi perdendo ogni dieci anni il 12% della loro massa (Fonte: NASA). Di conseguenza è cresciuto il livello del mare con un innalzamento del livello di 2,3 mm. l’anno, dal 2005 al 2012. Non solo. La Co2 intrappolata nei ghiacci si è riversata nell’atmosfera.
Il quadro non è affatto rassicurante. Basterebbe dare uno sguardo alla carta che indica l’indice di siccità di Palmer per rendersi conto di come la distribuzione delle precipitazioni si sia notevolmente alterata rispetto alla media nel corso del novecento. Pertanto, se non si ridurranno drasticamente le emissioni di gas a effetto serra in un futuro, neanche troppo lontano, la situazione non potrà che peggiorare. Allora, che fare? Innanzitutto, i governi dovranno smettere di guardare solo all’interno del proprio “cortile”, favorire con ogni mezzo una solida coscienza ambientale, fondata sulla consapevolezza dello stretto legame esistente tra attività umana e il deterioramento degli ecosistemi, sostenere il principio inalienabile che “l’ambiente è un bene comune” di cui ogni individuo deve sentirsi investito nella lotta alla sua conservazione, mettere in campo efficaci politiche economiche che puntino sullo sviluppo delle fonti alternative d’energia.
Ciò che spicca con indubitabile evidenza è che, sul versante del global warning, il nostro pianeta è molto più piccolo di quanto si immagina, dunque nessun Paese a qualsiasi latitudine potrà ritenersi escluso dai suoi effetti. Mitigazione e adattamento sono le parole d’ordine che ciascun uomo dovrà fare proprie.
Fortunatamente, grazie agli studi sistematici e meticolosi della Commissione intergovernativa ONU dell’IPCC e alle martellanti campagne informative delle autorevoli organizzazione ambientaliste (World Watch, WWF, Sierra Club, EDF, IISS, Union of Concerned Scientist) si sta radicando l’idea che ciascuno di noi e ciascun settore della società può contribuire a vario livello alla salvaguardia della qualità dell’ambiente attraverso strategie di sviluppo sostenibile. È, dunque, necessaria e fondamentale un’azione collettiva verso la risoluzione di un problema tanto complesso. Educare, sensibilizzare, divulgare, collaborare sono i pilastri sui cui confidare, affinché tutti si sentano coinvolti e partecipi nell’abbattere il surriscaldamento globale e nel migliorare l’efficienza energetica. Allora ben vengano le soluzioni che adottano le energie “pulite”.
Bisogna anche ammettere che il nostro tenore di vita è così elevato che al momento le fonti di energia rinnovabili, non essendo in grado di soddisfarlo a pieno, possono appena affiancare e non sostituirsi a quelle tradizionali, almeno finché la tecnologia non evolverà e l’impiego di fonti d’energia integrate non sarà una realtà. Come ad esempio l’affermazione del “Progetto Desertec”. Progetto, alla cui base c’è lo sfruttamento dell’energia solare di cui la fascia desertica sub-tropicale è ricca, prevede la costruzione di centrali solari termodinamiche insieme con l’eoliche. Ciò sarà fattibile attraverso la cooperazione tra Europa, Medio Oriente e Africa settentrionale con la costituzione di una rete di linee elettriche che collegherà i Paesi dell’area mediterranea con l’Europa. È evidente che se il progetto andrà in porto, come è facilmente prevedibile in relazione ai costi-benefici, entro il 2050 si prospetta la riduzione di circa il 70% di emissioni di CO2 da produzione di elettricità, con l’auspicabile definitivo abbandono del nucleare.
Ora, per quanto ostruzionismo facciano gli scettici, per quante ragioni avverse si possano mettere di traverso a livello politico-economico da parte di gruppi di potere, ancora una volta le cifre vengono in soccorso e testimoniamo che il fotovoltaico, biomasse ed eolico stanno diventando un affare colossale anche dal punto di vista occupazionale. In Italia l’intero settore dell’energie pulite è cresciuto dal 2008 al 2009 del 60% e altrettanto nel biennio successivo. Dei tre settori quello dell’energia da biomasse (rifiuti, scarti vegetali, biogas, ecc.) ha avuto incrementi eccezionali.
Non resta che sperare in una maggiore attenzione da parte del governo italiano nell’investire sullo sviluppo sostenibile: una delle poche vie d’uscita dalla crisi in atto.