Europee 2014: Omar Onnis(ProgRes): gli indipendentisti e le europee

Pubblicato il 19 Mag 2014 - 3:01pm di Redazione

Europee

Omar Onnis è nato a Nuoro nel 1969, città nella quale ha vissuto finché non si è trasferito a Trento, dove vive attualmente. Laureatosi in storia, ha lavorato nell’ambito dell’educazione ambientale e come bibliotecario. Ha pubblicato numerosi articoli e ha un suo blog, molto seguito, “Sardegna Mondo”. Autore del libro “Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso” (Arkadia editore), sino a febbraio 2013 è stato presidente del partito indipendentista sardo ProgReS – Progetu Repùblica de Sardigna che, nella coalizione Sardegna Possibile, alle ultime elezioni regionali ha sostenuto Michela Murgia alla presidenza della Sardegna.

Il 4 Maggio si è tenuto il III congresso nazionale del suo partito, ProgReS. Quali sono stati  i risultati principali che sono emersi?

Il terzo congresso di ProgReS è stato animato da una discussione sia sullo scenario politico sardo, sia sul ruolo che deve avere ProgReS, sia dalla proposta di un’ulteriore evoluzione organizzativa, in senso ancor più partecipativo e decentrato. In generale nel partito c’è una sostanziale unanimità sulla valutazione di aver imboccato la strada giusta e sulla necessità di irrobustire la nostra credibilità pubblica e il nostro radicamento territoriale, nella prospettiva di diventare una possibile forza di governo, non semplicemente una forza dedita alla testimonianza ideale. Del resto, è in quest’ottica che si deve leggere la nostra iniziativa di dar vita al progetto Sardegna Possibile. La linea che ha prevalso è una linea di  assestamento interno e di ulteriore precisazione dei nostri confini politici, con una serie di proposte articolate sui vari fronti della nostra azione pubblica. Non è quella a cui aderivo io, ma questo ha poca importanza, dato che siamo un partito plurale e molto orizzontale, dove tutto viene deciso sulla base di una forte negoziazione. L’aver ottenuto, col risultato delle ultime elezioni, una certificazione per così dire ufficiale della nostra presenza nell’ambito politico sardo ci impone un nuovo e più difficile grado di responsabilità, a cui dobbiamo imparare a far fronte. Il dibattito interno è indispensabile in questo senso. Tra sette mesi, a dicembre, ci sarà un primo consuntivo, col nuovo congresso. Vedremo se proseguire secondo le linee tracciate il 4 maggio o se correggere il tiro o cambiare strada, come è giusto che sia per un partito numericamente piccolo, ma molto reattivo come il nostro. Certamente sarà difficile rinunciare all’apertura realizzata con l’operazione Sardegna Possibile, che del resto sta proseguendo il suo percorso. Ritengo che Sardegna Possibile sia destinata a essere un fattore rilevante nel prossimo futuro, non solo e non tanto come coalizione politica, ma soprattutto come spazio di azione e di elaborazione autonomo e alternativo all’apparato di dominio dipendentista rappresentato dai partiti italiani e dai loro alleati locali.

In particolare penso si sia discusso delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo e dell’elezione del Presidente della Commissione europea. La Sardegna è stata accorpata per l’ottava volta alla Sicilia nella circoscrizione Isole, rendendo molto difficile l’elezione di un sardo e tenendo in secondo piano la specificità dell’isola. Cosa pensa in merito?

Di questo si è discusso prima e dopo il congresso, non in sede congressuale. Siamo usciti in questi giorni con una comunicazione in merito e in generale è un tema che ci sta molto a cuore. Personalmente ritengo che la questione della rappresentanza europea dei sardi sia di grande rilevanza, sia sotto l’aspetto politico, sia sotto quello simbolico. Si tratta di un nostro diritto che è stato sistematicamente calpestato dallo Stato italiano e dalla politica sarda nel suo insieme, purtroppo, anche in questo, palesemente e drammaticamente dipendentista. Tuttavia non credo che la questione europea si esaurisca nel nostro diritto ad avere un seggio riservato al Parlamento di Strasburgo, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano. Il problema è più ampio e attiene alla nostra soggettività storica e politica. Il contesto europeo e il contesto mediterraneo sono il nostro orizzonte di riferimento: dovremmo conquistarci un ruolo attivo in entrambi. Porzioni d’Europa e del Mediterraneo analoghe a noi o più piccole – anche molto più piccole – hanno piena rappresentanza e giocano un ruolo da soggetti attivi; si pensi alla Slovenia, a Cipro e a Malta, per citarne alcune. Non sto parlando solo di poter eleggere qualcuno nel Parlamento Europeo, ma anche e soprattutto di avere una voce negoziale nei vari tavoli economici, di avere la possibilità di aprire relazioni con altri soggetti dello scenario europeo, senza il filtro degli interessi dell’Italia, che perlopiù sono incompatibili e spesso in contrasto con quelli della Sardegna. È un grosso problema, questo, che non basta un seggio garantito a Strasburgo a risolvere.

Molti osservatori sostengono che queste elezioni europee rappresenteranno lo scontro fra eurofili ed euroscettici. Nel Manifesto Politico di ProgRes leggo quanto segue: “saremo favorevoli a discutere eventuali forme di federazione con altri stati nel mondo, sulla base di trattati internazionali e nell’ambito di organizzazioni sovranazionali, solo dopo aver raggiunto la piena indipendenza”. In questo scontro, alla luce della lotta per l’indipendenza della Nazione Sarda, che posizione prende?

Sinceramente ridurre questioni politiche di portata storica a contese tra tifoserie – come si fa in Italia – lo trovo a dir poco inutile, se non del tutto sciocco. Non mi riconosco in nessuno dei due schieramenti, così come ProgRes. È assolutamente ridicolo auspicare la cancellazione del processo di integrazione europea, specie quando comunque se ne subiscono gli effetti, soprattutto quelli peggiori, senza poterci fare nulla. Le posizioni euroscettiche sono perlopiù di natura conservatrice, nazionalista e spesso smaccatamente di destra, a volte con venature di tipo fascista che non è difficile cogliere. C’è molto sciovinismo, molta xenofobia, in tante posizioni euroscettiche. Tra l’altro per un indipendentista sardo perorare l’uscita dall’UE in favore della sovranità italiana suona anche vagamente paradossale, oltre ad essere una posizione smaccatamente ideologica con poche argomentazioni convincenti a suo favore. Nondimeno è evidente che l’UE, così com’è, abbia dei vistosi limiti di democrazia mancata. La deriva tecnocratica a difesa del grande capitale speculativo non è un destino inevitabile. Purtroppo esiste attualmente una forte egemonia culturale che convalida e rende dominante questa visione. Ma si può e si deve cambiare rotta.

Ritiene che sia riformabile l’Unione europea, alla luce degli ultimi Trattati, come il cosiddetto Fiscal Compact? Se sì, in che modo?

L’UE è stata costruita in termini alquanto rigidi, per questo tecnicamente non sarà facile riformarne strutture e forme organizzative. Però se è vero che si tratta di una libera adesione di stati sovrani di tipo democratico a un organismo sovranazionale – o meglio, sovrastatale –, ritengo che sia possibile trovare le formule diplomatiche e giuridiche per rinegoziare pressoché tutto, o quanto meno alcuni punti essenziali dei Trattati europei. Il Fiscal Compact, poi, lo ritengo poco meno che un crimine, al di là del fatto che i governi debbano imparare a rispondere delle proprie scelte anche nei confronti degli altri stati e delle altre nazioni, oltre che nei confronti dei propri cittadini. Tutta la retorica sul pareggio di bilancio e sulla necessità di risanare i conti pubblici in realtà cela questioni più profonde, relative alla distribuzione delle risorse e al cattivo funzionamento del meccanismo capitalista. I costi e le manchevolezze di quest’ultimo, col sistema attuale, vengono facilmente scaricati sui cittadini, senza che la frazione più ricca della popolazione europea ne risenta affatto e senza che le classi politiche dei vari paesi paghino pegno. In Italia questo è più evidente che altrove, vista la debolezza dello Stato e la gretta rapacità congenita della sua classe dominante. Penso che il cambiamento passerà necessariamente da una nuova coscienza diffusa dei reali meccanismi in gioco e dalla riproposizione – in termini adeguati ai tempi – dei principi di libertà, eguaglianza e fratellanza che devono presiedere al processo di integrazione europea. Il ruolo degli intellettuali da un lato e quello delle minoranze e delle nazioni senza stato da un altro sarà fondamentale.

ProgRes non ha fatto, a quanto mi risulta, nessuna dichiarazione di voto. Lei a quale Partito europeo si sente più vicino?

Siamo vicini all’ALE, l’Alleanza Libera Europea, aggregazione di forze politiche che rappresentano minoranze linguistiche e nazioni senza stato. Considero interessante l’esperimento della Lista Tsipras, ma non per la Sardegna e solo al netto della sua posizione debole – per non dire reazionaria – sulla questione dei processi di autodeterminazione oggi in corso nel continente; penso a Catalogna e Scozia, prima di tutto, ma non solo. Probabilmente lo scenario politico è ancora troppo novecentesco e non risponde più tanto bene alla disarticolazione sociale attuale. Bisognerebbe fare una seria riflessione su questi aspetti, senza negare le differenze tra destra e sinistra, ma declinandone ex novo il senso dentro la realtà storica contemporanea. Beninteso, non dobbiamo confondere “destra” e “sinistra” con gli schieramenti politici italiani attuali, che sono semplicemente dei comitati di potere o d’affari, senza alcuna spinta ideale e senza alcun orizzonte storico di riferimento. Quanto al voto del 25 maggio, posto che per principio io personalmente e ProgReS come forza politica troviamo sbagliato incoraggiare l’astensione, credo che inviteremo a un annullamento consapevole della scheda elettorale, data la perdurante impossibilità di avere rappresentanza democratica in Europa. Ma l’impressione è che ci sarà un forte astensionismo, così come alle ultime elezioni sarde. Cosa, questa, su cui forze politiche più serie e più sane di quelle che ci governano avrebbero già aperto una riflessione. Non mi pare che sia stato fatto.

L’Euro, la moneta unica europea, è stata messa in discussione in questa campagna elettorale per le europee. Lei ha una posizione in proposito?

Non ho una posizione dogmatica, in merito. Non annetto alla moneta tutta la rilevanza che le attribuiscono la scuola monetarista e neoliberista e la speculare scuola neokeynesiana o la MMT. Ritengo che ci siano altri fattori strutturali di cui tenere conto. Credo anche che l’Euro sia stato una grande fonte di integrazione a livello profondo, negli usi quotidiani, nella facilità di relazione tra cittadini europei. In questo senso ha un valore pratico e simbolico troppo spesso ignorato. Certamente la sua adozione ha comportato delle conseguenze, ma sostenere che l’Italia sia in crisi a causa dell’Euro mi pare una mistificazione bella e buona. Così come la crisi della Sardegna ha poco a che fare con la questione della moneta unica.

Un’altra questione molto discussa in questa campagna elettorale è quella dell’immigrazione, con i partiti e candidati che si dividono sul tema: dalla Spinelli (Lista Tsipras) che auspicherebbe l’arrivo di dieci milioni di emigrati a quella di Salvini (Lega Nord) che auspicherebbe la sospensione dell’operazione “Mare nostrum”, con un immediato blocco navale. Tenendo in considerazione che, al contrario, in Sardegna c’è l’emergenza dell’immigrazione, cosa pensa in merito alla questione? Crede che la questione della sovranità e dell’autodeterminazione dei popoli e delle nazioni c’entri qualcosa in questo tema?

Non sempre c’è una relazione diretta tra la questione dell’autodeterminazione e la questione dell’immigrazione, in Europa. In Sardegna sì. Noi soffriamo di una diaspora incessante, che ci sta togliendo linfa vitale, a vantaggio delle conventicole locali, sempre più sclerotiche e sempre più votate alla dipendenza. Un circolo vizioso che nel giro di pochi decenni ci porterà a una situazione insostenibile di spopolamento, invecchiamento e impoverimento materiale e culturale. Abbiamo la necessità strategica di invertire questa tendenza e ciò rientra a pieno titolo nel nostro processo di autodeterminazione. In quest’ottica, rifiutare l’apporto di forze nuove dall’esterno sarebbe davvero stupido, al di là della questione di principio, sulla quale personalmente ho una posizione molto chiara: la Terra non è di nessuno in particolare ed è di tutti. Pensare che esistano davvero dei vincoli alla possibilità e capacità di muoversi della nostra specie è prima di tutto ridicolo, alla luce della nostra vicenda storica, da che esistiamo su questo pianeta. In più si trascurano sempre troppo le cause delle migrazioni di questi anni, che risiedono principalmente nell’iniqua distribuzione dell’accesso alle risorse e a una qualità della vita accettabile per troppi milioni di esseri umani. Noi siamo i beneficiari di questa disparità, dovremmo ricordarcene più spesso. Personalmente, ma per ProgReS vale lo stesso discorso, non potrei essere più distante dalle posizioni leghiste, che reputo inaccettabili e repellenti. Come ProgReS stiamo riflettendo molto, anche riguardo alla applicazione giuridica, sullo jus voluntatis, ossia la possibilità di avere la cittadinanza in un ordinamento diverso da quello di nascita sulla base di una adesione volontaria, senza considerare appunto il luogo di nascita e tanto meno i legami di sangue. Non siamo nelle retrovie di questo dibattito, insomma.

La Sardegna detiene il record di servitù militari in Italia, sono oltre 35.000 gli ettari di territorio sardo occupati sia dall’esercito italiano sia dalla Nato. L’Unione europea ha sempre avuto come partner gli Stati Uniti d’America, ma ha anche tenuto in considerazione (vedi Berlusconi in Italia, per fare un esempio) la Russia. Con la crisi Ucraina sembra che i rapporti con la Russia- secondo me ingiustamente-  si stiano sempre più incrinando. Lei ritiene doveroso da parte dell’Unione europea un cambio di strategia geopolitica e quindi un avvicinamento alla Russia e ai, cosiddetti, Brics, oppure ritiene che vada ulteriormente solidificata l’alleanza atlantista?

Dovremmo cominciare a ragionare in termini storici. Il mondo non è più quello della conferenza di Yalta. Non c’è più il duopolio USA-URSS e il tentativo di monopolio degli USA sembra destinato a infrangersi contro i limiti strutturali dell’egemonia statunitense medesima e contro processi storici profondi (per esempio, la crescita demografica, l’esaurimento delle risorse, il logorio dell’ecosistema). Il mondo – come insegna Giovanni Arrighi – va verso diverse possibili soluzioni, non necessariamente esaltanti. C’è il rischio concreto che la crisi di transizione che stiamo attraversando possa avere esiti bellici su larga scala. I fatti dell’Ucraina, in questo senso, sono molto più che inquietanti. L’Europa dovrebbe cercare di irrobustire il processo di integrazione interna e con tutta l’area mediterranea, onde proporsi come polo “regionale” di peso, equiparabile alla dimensione imperiale degli altri poli: USA, Federazione russa, Cina, quest’ultima da sola o in connubio con altri paesi emergenti come India, Brasile, Sud Africa (i famosi BRICS, appunto). L’Europa rimane l’area del pianeta con il migliore equilibrio tra sistemi politici, patrimonio storico-culturale, gestione e distribuzione delle risorse, garanzia dei diritti umani e civili, qualità della vita. Deve avere una propria soggettività compiuta, sul piano internazionale. In quest’ottica, alienarsi la Russia è una scelta alquanto miope, così come restare una sorta di protettorato militare e commerciale degli USA. La proposta di un’area di libero scambio con questi ultimi, oggi sul tappeto, se accolta potrebbe risultare uno degli errori strategici peggiori degli ultimi secoli. Tuttavia non mi piacciono e non mi convincono le posizioni apertamente anti-USA. Gli USA, a livello governativo e come politica estera, sono votati alla negazione dei principi stessi cui si richiama il loro ordinamento interno, ma è un fatto storico inevitabile, quando si ragiona in termini imperiali. Però sono anche un enorme e complesso sistema socio-culturale, cui non possiamo guardare solo in termini di amicizia-inimicizia, in modo manicheo. Anche con loro bisogna instaurare nuovi rapporti, più dialettici e meno subalterni, rimettendo in discussione, a settant’anni di distanza, i trattati che vincolano tanti paesi europei – in primis l’Italia – a una fedeltà ormai non solo anacronistica ma palesemente pericolosa. La Sardegna può avere un suo ruolo, in questo discorso, specie nella questione delle servitù militari e nei rapporti con le altre nazioni senza stato e con la sponda sud del Mediterraneo, ma solo se acquisirà un minimo di soggettività politica.

Lei, come abbiamo detto, fa parte di ProgReS, partito indipendentista. Per quale motivo i sardi dovrebbero seguirvi in questo vostro progetto?

I sardi non devono seguire nessuno. Dichiararsi indipendentisti, oggi che tutti si dichiarano più o meno tali, persino dentro gli schieramenti egemonizzati dalle forze politiche italiane, non fa più la differenza. La differenza la fanno le scelte, gli obiettivi, l’orizzonte in cui si iscrive la propria visione storica. I prossimi anni saranno decisivi. I sardi devono innanzi tutto riappropriarsi di sé stessi, della propria storia, delle proprie risorse, della responsabilità di esistere al mondo come una collettività a sé stante e portatrice di necessità peculiari, di una dialettica interna specifica non declinabile secondo schemi imposti dall’esterno. Ciò – al contrario di quanto si pretende spesso – comporta anche una grande apertura verso l’altro da sé. Cosa che oggi ci è del tutto preclusa dalla nostra condizione di regione periferica, marginale e isolata dell’Italia. Il che è del tutto assurdo, essendo noi centrali nel Mediterraneo, “al centro della civiltà europea”, come scriveva un console francese nel 1816, e nemmeno tanto piccoli. In questo discorso, ampio e articolato, la questione dell’indipendenza attiene alla sfera giuridica e politica. Diciamo dunque, semplificando un po’, che è una sovrastruttura. La vera questione strutturale è l’uscita dalla dipendenza e la conquista dell’autodeterminazione. Noi riteniamo che il coronamento giuridico di questo processo – storicamente necessario – sia la realizzazione di un ordinamento statuale sovrano e indipendente, dato che a oggi e nel prossimo futuro solo gli stati hanno e avranno personalità giuridica. Ma la base del discorso è la nostra sopravvivenza come collettività storica e la possibilità di garantire a chi vivrà in Sardegna una esistenza dignitosa, libera e auspicabilmente prospera. È su questo che chiamiamo tutti i sardi a un’assunzione di responsabilità, al di là dei discorsi di parte e del successo di questo o quel partito. Nessuno può tirarsi indietro.

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