Il 17 aprile 2014 lo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez, dopo 87 anni di sublime permanenza, lascia un pianeta che gli stava stretto. E se, come amava dire, «niente racconta di più di una persona del modo in cui muore», allora la sua scomparsa schiude la grande perdita per una specie umana ancora “troppo umana”. Egli ha cominciato come giornalista e ha finito come giornalista. In questo intermezzo ha stupito i suoi lettori ad ogni opera; anche quando si pensava che non ci fosse più nulla da inventare, Gabo ti meravigliava.
Forse per questo il mondo intero gli ha reso meritatamente omaggio. I potenti della Terra, da Barack Obama a Vladimir Putin, da Shimon Peres a Raul Castro, da Dilma Rousseff alle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, ne hanno rimemorato la trasversalità caratteriale, che lo faceva sentire a proprio agio sia con Fidel Castro, sia con i reali di Spagna. Sarebbe persino ridondante ricordare le personalità artistico-letterarie che lo hanno compianto, da Dario Fo a Isabelle Allende.
Gabriel Garcia Marquez rimarrà un mito per i paesi latino-americani e non solo, perché Cent’anni di solitudine (1967) lo consacrò come scrittore di fama internazionale, tra i più popolari del XX secolo. Quando nel 1982 fu insignito del premio Nobel, nella trama del suo discorso brillarono queste parole: «Non è ancora troppo tardi per costruire una utopia che ci permetta di condividere la terra»; qui si dà la cifra del realismo-magico, curioso ossimoro per definire la corrente di pensiero letterario che incarnò e testimoniò vivendo. Come può il reale essere magico? Cosa c’è di magico nella storia delittuosa e sanguinosa del genere umano? Per chiunque fosse affetto da questi dubbi iperbolici, segno di un nichilismo astratto che sta ammorbando le nostre anime, basta leggere i libri di Gabo.
A suo onore immortale, egli ha insegnato all’uomo che si può vivere altrimenti, che la realtà è già sempre di più di quello che è; la magia pervade l’anima del mondo e gli appartiene come carattere più proprio. Come diceva Ernst Bloch: «Il pensiero utopico ricrea spazio al possibile». Ecco, Gabriel Garcia Marquez per tutta la vita cercò di pensare la solitudine e di ricreare lo spazio al possibile. In una celebre intervista disse che, nonostante avesse passato la sua esistenza ad esprimere il concetto di solitudine, non riusciva ancora a sapere cosa fosse, e se ne rallegrava, perché in fondo gli dava ancora la forza di poter scrivere e riflettere sulla condizione umana.
Solitudine e utopia si compenetrano nella letteratura di Gabriel Garcia Marquez e formano un intreccio che arriva all’anima degli uomini, quel non-luogo in cui tutti siamo un po’ soli e malinconici, dove la tonalità emotiva che accompagna il nostro stare al mondo è quello della nostalgia, la nostalgia del non-ancora, non di ciò che fu ma di ciò che sarà, la nostalgia di un altrimenti, la nostalgia di un’utopia. Gabo ci ha insegnato che ciò che c’è non è tutto.
Forse, oggi, quei potenti che lo piangono con un velo di ipocrisia dovrebbero rattristarsi per la miseria a cui destinano, con le loro scelte, il genere umano. Grazie Gabo perché ci hai insegnato a sognare anche in un mondo in cui sembra proibito, grazie perché il soffio caldo e conciliante della tua anima spira dalle righe dei tuoi libri. Se da qualche parte potessi vedere, magari da Macondo, il vuoto che hai lasciato su questo piccolo pianeta malamente abitato, chissà, quello per cui hai vissuto – scoprire cosa fosse la solitudine – avrebbe potuto darsi e lasciarsi afferrare. A noi, adesso, l’arduo impegno di superare sempre la negatività del dispiegamento storico. Forse nemmeno cento giorni di tristezza per la tua assenza saranno sufficienti.