Enrica Calabresi: un sogno distrutto tragicamente
Il fascismo non fu, come disse Benedetto Croce, una “parentesi”, causata da una “malattia morale”, all’interno di una storia prevalentemente liberale come quella italiana. E le leggi razziali non furono una componente marginale della politica fascista “determinata essenzialmente dalla convinzione che per rendere credibile l’Asse fosse necessario eliminare il più stridente contrasto nella politica dei due regimi”, come scrisse Renzo De Felice nella sua famosa Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961). L’alleanza con la Germania di Hitler, secondo De Felice, fu il “primo e principale motivo” che portò l’Italia di Mussolini a introdurre una legislazione razzista, non riescendo a dare conto di secoli di razzismo e di antisemitismo, che affonda le sue radici nell’antisemitismo cattolico più in generale nutrito dall’antigiudaismo cristiano tradizionale.
Nonostante ciò, lo stesso De Felice teneva a precisare che la politica razziale, finalizzata alla creazione di una nuova civiltà, era stata concepita in maniera autonoma da Mussolini – il quale l’aveva già praticata con la conquista dell’Etiopia essendo uno dei sostenitori di quel mito della cospirazione ebraica mondiale che trovava nei Protocolli dei Savi di Sion il suo canale di diffusione – e che “molti fascisti, specie della nuova generazione, non furono esenti da forme più o meno marcate di antisemitismo”. Il razzismo, dunque, non fu altro che la conseguenza del nazionalismo del Partito fascista, e l’antisemitismo – che peraltro secondo De Felice era già emerso con le guerre d’Etiopia e di Spagna come reazione agli atteggiamenti antifascisti degli ebrei – ne fu lo sbocco logico.
Così, nel 1937, anno in cui non a caso furono ristampati i Protocolli, il regime poté smascherarsi e dare inizio a una violenta campagna antiebraica avviata con la pubblicazione di un mediocre libello di Paolo Orano, Gli ebrei in Italia. E, siccome dalla propaganda alle leggi il passo è breve, già l’anno successivo, nel 1938, furono approvati i primi provvedimenti legislativi, che in Germania avevano visto la luce nel 1933 e avevano raggiunto il loro apice con le leggi di Norimberga del 1935.
Il 15 luglio 1938 il Giornale d’Italia titolava Il Fascismo e i problemi della razza: si trattava del Manifesto degli scienziati razzisti, anche noto come Manifesto della razza, poi ripubblicato il 5 agosto sulla rivista La difesa della razza. Scritto “sotto l’egida del Ministero della Cultura popolare” da “un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle Università italiane” conteneva, in dieci punti, i principi del razzismo fascista.
Il 20 luglio, mentre ci si preparava al censimento generale degli ebrei previsto per il 22 agosto, il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, antisemita dalla testa ai piedi, inviava alla Demorazza (Direzione generale per la Demografia e la Razza) una lettera “riservatissima” in cui suggeriva di effettuare un censimento del personale scolastico ebreo. Di qui il 5 settembre seguivano i “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, in cui si vietava agli alunni di “razza ebraica” di iscriversi alle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, frequentate da alunni di “razza italiana” e ai docenti di insegnare nelle scuole del Regno e nelle Università (con immediata sospensione, dal 16 ottobre, dall’insegnamento o dalla libera docenza), nonché di continuare a essere membri di Accademie, Istituti e Associazioni di scienze, lettere ed arti.
Nel 1931 quasi tutti i professori universitari avevano giurato fedeltà al regime; quel piccolo pugno di docenti che si rifiutò di farlo – quello, insomma, che salvò l’onore dell’Università italiana – perse immediatamente la cattedra. Dopo l’entrata in vigore di questi provvedimenti, più di quattrocento docenti e assistenti e più di duecento studenti ebrei furono cacciati dalle scuole e dalle Università: e si ritrovarono soli, tra la colpevole indifferenza dei più. Molti riuscirono a emigrare e a scampare alla deportazione (come Rita Levi-Montalcini e la famiglia Fermi), ma non tutti avevano la possibilità di lasciare l’Italia, e a quelli che restarono non fu lasciata altra alternativa che attendere con dignità il proprio destino.
Tra questi ebrei c’erano anche molte donne, che furono doppiamente dimenticate, in quanto donne di scienze e in quanto ebree. I loro nomi sono svaniti nel nulla per molto tempo perché, fatta eccezione per l’unico cattedratico donna dell’Università di Napoli Anna Foà e pochissime altre, non furono nemmeno registrati nelle liste di epurazione compilate dagli uffici ministeriali. Ma una studiosa di storia della scienza, Raffaella Simili, ha cercato di ricostruire le loro storie in un libro intitolato Sotto falso nome. Scienziate italiane ebree (2010), che si inserisce in un più ampio progetto – avviato nel 1999 in collaborazione con l’Università di Bologna e il MIUR e che dal 2004 è anche un sito – mirato a ricostruire il ruolo delle donne italiane nello sviluppo della scienza. Tra queste donne (non tutte ebbero la stessa sorte: alcune riuscirono a scampare alla morte nascondendosi appunto sotto falsi nomi) ce n’è una che, in occasione del Giorno della Memoria, vale la pena ricordare: è quello di Enrica Calabresi, zoologa, che allo studio degli insetti e all’insegnamento dedicò, sino all’ultimo, tutta la sua vita. Proviamo a raccontare la sua vicenda.
Quella di Enrica Calabresi è la storia, purtroppo tragica, di un sogno spezzato a soli cinquantatré anni quando nel carcere di Santa Verdiana di Firenze, prima di essere deportata ad Auschwitz, si avvelena. La sua, però, è inizialmente una storia diversa; nata a Ferrara nel 1891 da famiglia ebrea, si iscrive alla Facoltà di Matematica, ma capisce presto che la sua vera passione sono i corsi di zoologia e di botanica che si tengono alla Facoltà di Medicina. La sua strada è già tracciata: si sposta all’Università di Firenze e nel 1914 si laurea in Scienze naturali ottenendo subito il posto di assistente alla cattedra di Zoologia e anatomia comparata dei vertebrati. Ma la felicità per i suoi successi accademici si scontra presto col dolore di una perdita, quella del fidanzato Giovanni Battista de Gasperi, di un anno più giovane, anche lui appassionato di scienze, che morirà durante il primo conflitto mondiale, nel 1916. Per superare il dolore Enrica si arruola come infermiera volontaria negli ospedali da campo, e poi si butta nello studio, tanto che nel 1924 ottiene la libera docenza in Zoologia (e nel 1926 l’incarico di assistente). Ma un importante incarico, che Enrica Calabresi manterrà sino al 1922, era arrivato già nel 1918, quando era diventata segretaria della Società Entomologica italiana. E risalgono proprio a questi anni le voci sui rettili che scrive per L’Enciclopedia Italiana Treccani (anche se la sua vera passione resterà lo studio degli insetti), nonché i suoi contributi per ampliare le collezioni del Museo zoologico “La Specola” di Firenze.
Nel 1928 il suo incarico universitario le impone di giurare fedeltà al Re, mentre nel 1931 il giuramento di fedeltà è proprio al fascismo. È adesso che arrivano le prime incrinature, che il suo sogno inizierà a spegnersi lentamente: in piena carriera accademica – siamo alla fine del 1932 – Enrica rassegna le sue dimissioni dall’Università. Ufficialmente per motivi di salute. In realtà, quella di Enrica Calabresi non è una scelta volontaria; come scrive Paolo Ciampi, il suo biografo, dietro c’è un conte esperto di aracnidi, naturalmente fascista, che si chiama Ludovico di Caporiacco, e che freme per ottenere il posto di assistente.
Enrica Calabresi è fuori dall’Università, ma non si rassegna: pur di insegnare scienze naturali, nel 1933 si iscrive al Partito fascista, e ottiene un posto al Regio Istituto “Galileo Galilei” di Firenze, dove ha come allieva Margherita Hack, che la descrive come “una donna dall’aspetto fragile, estremamente timida”, “piccola e magra, sempre seria e poco comunicativa”. Margherita – il suo, sì, un sogno, non distrutto tragicamente come quello di Enrica, ma realizzato con passione – parlerà spesso della sua professoressa di scienze ricordando quel giorno in cui, dopo che Enrica Calabresi era stata cacciata da scuola, la vide per caso “in una di quelle strette viuzze dietro piazza della Signoria; camminava radente ai muri, a testa bassa e mi fece l’impressione di un animale braccato. La salutai, avrei voluto parlarle, esprimerle la mia solidarietà, ma non ne ebbi il coraggio”.
Prima di arrivare a questo, però, Enrica Calabresi ha ancora la possibilità di riprendere in mano la sua vita, vissuta tra Firenze e Gallo Bolognese (dove risiede la sua famiglia); per lei le sorprese non sono ancora finite, perché nel 1936, mentre continua ad insegnare al “Galilei”, ha la possibilità di ritornare all’Università, questa volta non più a Firenze, ma a Pisa, dove le viene offerta la cattedra di Entomologia agraria. Ma il suo sogno, spezzato la prima volta quando aveva abbandonato l’Università di Firenze, e che ora a Pisa sembra ricomporsi, dura poco. Con le leggi razziali, che le tolgono tutti gli incarichi e l’abilitazione alla libera docenza, va in pezzi per sempre. Decide di non emigrare in Svizzera insieme alla sua famiglia, e nemmeno di restare in campagna a Gallo Bolognese, ma di rimanere a Firenze – quella Firenze, scrive Ciampi, che “le darà tutto” e “poi, un giorno, le toglierà tutto” – continuando ad insegnare scienze nella scuola ebraica agli alunni espulsi dalle scuole pubbliche.
Nonostante la guerra, gli anni scolastici procedono in maniera tranquilla, ma nell’estate del 1943 gli eventi precipitano: gli Alleati sbarcano in Sicilia iniziando a risalire il Paese dal Sud e bombardandolo a Nord, e intanto Mussolini viene esautorato e arrestato; l’11 settembre i tedeschi – i quali dall’armistizio dell’8 settembre non sono più alleati ma nemici – occupano Firenze, che verrà distrutta dai bombardamenti degli Alleati. Inizia la caccia all’ebreo, che prima tocca città come Trieste e Roma: meta finale (neanche a dirlo) sono i campi di concentramento polacchi. A novembre tocca anche a Firenze, dove le notizie sulla soluzione finale di Hitler erano iniziate a circolare già dal 1941.
Nel gennaio 1944 Enrica Calabresi viene arrestata e portata in carcere, sa che non finirà i suoi giorni a Santa Verdiana e che presto verrà deportata ad Auschwitz. Ha con sé una fiala di fosfuro di zinco che si porta dietro da tempo, una sostanza usata per uccidere i topi, in grado di provocare una morte molto dolorosa, lenta e straziante: ed è questa la morte, avvenuta nella notte tra il 19 e il 20 gennaio, che Enrica preferisce (anche se non sappiamo il perché di questo veleno) pur di sottrarsi ai nazisti; e che il primo febbraio 1944 (con nome ed età sbagliati) viene annunciata sul quotidiano fiorentino La Nazione: “Calabrese Enrica di Giovita, anni 58”.
“Un nome. Anzi, all’inizio nemmeno quello”, scrive Ciampi all’inizio della sua biografia. Sì, perché di Enrica Calabresi, per un certo tempo, si dimenticano tutti: “non c’è lapide che la ricordi, né libro di scuola che la rammenti”; di lei sono rimasti soltanto “una manciata di foto e di lettere conservate dalla famiglia; alcuni scritti scientifici con lo stile esatto e asciutto che ci si aspetta in pubblicazioni di questo tipo; un mucchietto di moduli compilati per adempiere a qualche obbligo burocratico; i ricordi sfumati di un anziano nipote per il quale era come una mamma; la gratitudine di qualche allievo di un tempo, scampato al massacro e oggi disperso tra Milano e Gerusalemme; qualche citazione di sfuggita – e spesso incerta – in due o tre volumi sui tristi destini degli ebrei italiani”.
Oggi Enrica Calabresi non è più soltanto un nome. Esiste una sua biografia intitolata Un nome, quella appunto scritta da Ciampi nel 2006, da cui sappiamo molto di lei, della sua famiglia, dei suoi studi; i comuni di Pisa e di Ferrara le hanno intitolato due strade, e oggi scolaresche vanno a visitare la casa dei Calabresi a Gallo Bolognese, dove Francesco – il nipote soprannominato Gegè che da bambino leggeva I promessi sposi insieme alla zia – tiene viva la sua memoria. Per questo abbiamo raccontato la sua storia utilizzando non l’imperfetto e il passato remoto, ma il presente, perché Enrica – e tutte le altre donne come lei a cui leggi infami hanno tolto la possibilità di insegnare, sperare e sognare – è ancora presente tra noi. Ed è proprio in giorni come questo che abbiamo il dovere di far rivivere il suo ricordo.