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Il filosofo idealista Giovanni Giraldi, del quale tempo fa ospitato su Corretta Informazione un breve articolo di ricerca storica sulla targa dell’INRI, è mancato il 23 settembre 2014 nel suo centesimo anno di esistenza. È tornato allo Spirito, probabilmente avrebbe detto lui.
Giovanni Giraldi era nato a Ventimiglia 1° luglio 1915; trasferitosi a Roma per proseguire gli studi, si laureò in discipline letterarie e poi in filosofia, discutendo la tesi con Ugo Spirito. Divenne libero docente di Storia Generale della Filosofia presso l’Università Statale di Milano nel 1959 dove insegnò per alcuni anni. Tra conferenze, articoli su riviste accademiche e numerosi libri pubblicati, partecipò al dibattito culturale del secondo dopoguerra, portando contributi in numerose discipline, dalla pedagogia – nel 1964 scrisse una Storia della Pedagogia adottata in ambito universitario – all’estetica, con il suo monumentale Dizionario di Estetica e Linguistica generale, pubblicato nel 1975. Fondò la casa editrice Pergamena che pubblicava due riviste da lui diretta: L’Idea liberale (1959-1992), di ambito principalmente politico, e Sistematica (1968-2014), che si occupava anche di ricerca filologica, filosofica, scientifica e religiosa, accogliendo interventi di studiosi di fama internazionale.
Giovanni Giraldi viveva in una frazione di Noli (SV), comune ligure che lo aveva insignito della cittadinanza onoraria, in un villino da lui decorato con bassorilievi, sculture e mosaici di gusto classico; ancora gli ultimi anni, grazie alla grande memoria e all’estrema lucidità che conservava, discorreva di qualsiasi argomento, ad esempio di ermeneutica biblica, di fisica quantistica e di teoria delle catastrofi, il tutto inframmezzato con qualche retroscena sul senatore liberale Malagodi, sul segretario di Togliatti e su Padre Agostino Gemelli.
Studiava ancora; sulla sua scrivania abbiamo visto una volta la Divina Commedia, un’altra la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, un’altra ancora un libro di Junger. Alla domanda se fosse idealista, così lui stesso rispondeva: “Certo che sono idealista! Non si può non essere idealisti e per non esserlo bisognerebbe non pensare. Se si pensa, bisogna credere a quello che si pensa. L’arbitro è il Pensiero, non c’è niente da fare. Poi si tratta di appartenere a un tipo di idealismo, per esempio hegeliano, o un idealismo di tipo platonico. Tutte le filosofie sono idealistiche, perché basate sul pensiero”. L’idealismo cui aderiva Giraldi sottolineava in particolar modo l’attività e il sentimento, ossia gli aspetti vitalistici dell’Idea, concepita come “atto e azione” e considerava la “ragione come slancio di vita conscia”, in direzione di una filosofia “della scelta e della decisione”.
Nessuno sa come morirà, né saprà mai come sia morto; la cosa più certa tra tutte le cose, la Morte, l’interessato la ignora nel modo più assoluto. Ciascuno muore con la sua cronaca di morte; cosa povera è, qui, ogni cronaca: ogni morte è umiliante, e umiliata: cronaca, oggetto delle riflessioni altrui, occasionali e di corso breve. Chi ama la sua morte, e la vuole cosa degna, ricorre alle sue facoltà spirituali e muta la cronaca banale con una trasfigurazione di valore estetico; piace mutare la propria morte in una metafora; essa sola deve restare, come figura definitiva, nelle anime di poi. Dalla cronaca alla poesia, dai registri amministrativi al cielo dell’arte; alla persona naturale subentra il personaggio esteticamente cesellato. Anche a me è piaciuto, almeno tre volte, elaborare, per chi deve indugiare sulla mia morte, metafore alte; qui di seguito le offro – un dono postumo – nella loro successione cronologica: eccovi, dunque, la morte di un Ulisside, il finale ruggito leonino di Bàrel, e lo squillo dell’ira ultima di Mosé.
L’Ultimo Ulisside
Sul mare era nato; ma non aveva navigato molto: da studente, una puntata a Zara, da professore in Sardegna solo come progressista; tutto qui. Però il mare gli piaceva; soleva dire che il lago immalinconisce, il mare ci rende contenti; anche diceva che la montagna è cristiana, il mare pagano. Lui era italiano, perciò preferiva il pagano mare, e sperava egualmente di conseguire il cristiano paradiso. Già s’è detto che era professore; ne aveva titoli molti, compreso quello che gli dava diritto di sedere docente su di una cattedra universitaria; ma quell’attività l’aveva esercitata per pochissimo tempo. Aveva studiato sempre; nulla gli era rimasto estraneo; non già che sapesse tutto; ma era in grado di studiare tutto; possedeva le biblioteche del mondo, perché di tutte aveva esaminato i cataloghi e sapeva se un certo libro in copia unica, o un manoscritto antico, si trovava a Roma o a Berlino, a Milano o a Parigi. Una biblioteca personale l’aveva anche in casa, modesta però, rispetto alle letture fatte; sulle pareti non c’era spazio libero per appendere un quadro eseguito dalla moglie o dai piccoli nipoti, tutti Giottini in erba e molto fecondi … Entro questa biblioteca era stato ritagliato un settore coi libri che aveva scritto lui; a misurarli così, ce n’era un paio di metri; a contarle a occhio e croce, le pagine stampate superavano le ventimila; l’inedito, poi, sempre tornava a crescere, come fa l’erba cattiva.
Poiché gli anni corrono per tutti, aveva preso a risparmiare sul tempo rimasto; qui il risparmio consiste nel rileggere i pochi libri meritevoli, come lo sono i classici della poesia e del pensiero puro; cosa che poté fare nel giro di un lustro; aveva anche riletto i libri suoi, tutti; alcuni li riapriva dopo trenta o quarant’anni di abbandono; sorrideva, approvava, sorrideva ancora; si sorride anche per dissentire. Aveva, durante quella rassegna generale, reincontrato una colonna interminabile di persone e personaggi; chiamava persone quelle che erano vissute con carne e ossa, per benfare e malfare; personaggi quelli che aveva inventato lui; ce n’erano, tra questi ultimi, di anima modesti, come lo sono i pescatori e i contadini, ma anche di straordinari, come i papi, i re, i veggenti e soprattutto l’Anticristo dell’Apocalisse. Terminate anche queste riletture, sperimentò la discesa verso il profondo Nulla; chiamava così un certo venire meno dello slancio vitale; gli pareva di avvertire un certo risucchio dentro, una sorta di inappetenza a cibarsi dell’Essere; guardava tutto e tutti, ma non possedeva più valenze con le quali catturare l’altro e fare composti spirituali nuovi; la chimica gli offriva questa analogia per formulare il suo nuovo stato umano, Allora ebbe una fantasia, e la coltivò, finché la mise in atto. Già: ma che cosa è una fantasia? Alcuni uomini sono dotati di fantasia, altri no. La fantasia, anzitutto, concede, a chi ne ha molta, di vedere le cose come sono; non solo, ma anche di vedere le immagini proprio come se si vedessero le cose: linea generale del contorno, piani generali del rilievo, colore, colorito; alcuni persino sentono di un’immagine l’odore, lo spessore, la durezza, come se avessero sotto mano animali, uomini, fiori. Il nostro personaggio aveva una fantasia così sana che corpo rizzava le immagini, e le vedeva, le odorava, le udiva, le palpava.
Era pur sempre uno nato sul mare; sul mare si può anche andare a morire; perché star qui, inchiodato alla terra, ad attendere la morte passivamente, con la faccia di uno che pensi: speriamo che non mi veda … ? No; è più decoroso partire, salpare; si va; si punta al largo, senza una mèta, dove il vento ti porta: tu sei sul tuo barcone, e guardi: gabbiani nell’aria; pesci nell’acqua; profili di coste vicine e lontane; mangi se hai fame, bevi se hai sete, la provvista non ti manca; se il vento viene a molestarti, cerchi di stare al giuoco; se poi non ti riesce, allora il barcone si capovolge e tu hai finito, il meno male possibile, il tuo ciclo vitale …
Acquistò un grosso barcone, lungo una decina di metri, alto, rotondo come un mezzo guscio di noce; lo adattò all’interno; la cabina era spaziosa; vi ripose vettovaglie; vi dispose un esemplare di tutti i libri che aveva scritto lui; acquistò vele nuove, lubrificò le giunture, consolidò gli anelli, rinnovò cordame e fasciame, Quando fu pronto per partire, si sentì sano e forte e persino allegro. Si fece aiutare a calare il battello in mare; aprì le vele, irrigidì il timone, inalberò la bandiera del suo casato (non poteva scordarsene), e andò a sedersi a prua. Incominciava il suo ultimo viaggio. Si ricordò, anzitutto, di Ulisse, poi di tutti coloro che ne avevano imitata la navigazione perigliosa; pensò che anche lui era un ulissìde, l’ultimo, perché, oramai, i più coraggiosi navigano con la radio e con mille altre diavolerie della terra, che sempre ti salvano dalle diavolerie del mare; lui invece vi era solo, col fato nelle vele, partito per non tornare più … Ma sorrise di nuovo, perché solo non lo era affatto, anzi, la compagnia era grande; con lui navigavano tutti i personaggi dei suoi libri, e le persone della sua esperienza. Aveva fatto il progetto di intrattenersi durante il viaggio con ciascuno di loro, per riprendere i vecchi discorsi; un uomo che naviga verso la morte ha il dovere di ricapitolare, e dare un senso conclusivo a tutta la sua lunghissima chiacchierata con la vita; non si può morire così, insalutato, e senza aver dato un’ultima occhiata a se stesso. Mentre questo pensava si tolse i vestiti e li gettò in mare.
Vedeva, intanto, isolotti solitari; chiamava allora, con voce grande, queste e quelle dei suoi personaggi, e gli discorreva. Per primo rivide il suo caro Prapagliòlo, il vecchiaccio di ferro dell’Aragosta; lo incontrò morto, disteso nella barca, nella quale il figlio l’aveva coricato affidandolo al mare; era molto al largo oramai; duro come un legno; lo salutò col gesto della mano quando le imbarcazioni furono discacciate dal vento. Più oltre, gli si spalancò difronte un tramonto che pareva una rivelazione biblica; grandi scalee di nubi; disse: – Ecco la Scala del paradiso, paradisi scala tou paradeisou climax! – Ma non ripensò ai vecchi mistici del Sinai, che avevano scritto sul modo di salire quelle difficili scalee, ma ripensò al suo caro Geppetto, del quale di ripeteva la storia come l’aveva scritta lui – narrando i casi de Il figlio di Pinocchio –; lo aveva fatto nonno, e poi trasferito lassù, nel paradiso, dove andarono a ritrovarlo cento burattini; le veci del Padreterno le faceva meglio lui, quel povero falegname, che il più tronfio degli imperatori. La notte distrusse lo scenario; allora si ritirò nella cabina, e dormì.
La mattina, il barcone scivolava davanti ad una bella riviera; vedeva lunghe file di persone sulla spiaggia, al sole, al vento; quelli cercavano la vita; lui non paventava la morte. Perciò sorrise, e salutò con un gesto largo: li conosceva tutti; erano veramente una moltitudine; usciti dai suoi duecento racconti; non poteva vederne in viso nessuno, ma un viso lo dava lui a ciascuno di loro: giovani e giovanili, donne e femmine, maschi e mascolòidi; gli uni giunti a maturità, gli altri solo candidati all’umanità; puri e abominevoli, prodighi e taccagni, molti erano venuti su dai regni antichi e dal mito, altri li aveva tirati fuori dalle solitudini dei chiostri; ce n’era di empi, di santi, di blasfemi. Li riconosceva tutti. Si ripeteva la loro storia; forse per dare un sollievo alle loro anime sciabolate dal dolore erano venuti ad esporsi al sole, a farsi carezzare, toccare, stimolare … Lo spettacolo di quella umanità così varia nel dolore, e così unificata dalla fame di piacere, lo rese triste: rifiutavano se stessi; lui era sulla barca della liberazione, quelli si aggrappavano persino alle sabbie, e il mare lo guardavano soltanto …
Nei giorni successivi indugiò davanti ad un grande scoglio solitario; sopra, si alzava la cresta di orgogliose mura gentilizie. Gli parve di rivedere due personaggi del suo Bàrel, il libro maggiore, Mirra e Gora. Morti anche loro; ma dopo la morte si vive, per qualche tempo, con una sorta di corpo etereo, opaco, senza peso; i due personaggi erano ancora visibili; dalla tolda del suo barcone stette a guardarli a lungo, perché gli ricordavano oltre cinquant’anni di sodalizio; prima, durante la creazione, gli era stato difficile discernerli bene: l’uno e l’altro alquanto simili, eppure tanto diversi, dotti ma senza stracci accademici, con dentro al cuore il Diavolo e Dio; rivedendoli insieme su quello scoglio, si chiedeva se, qualora Brahman gli avesse concesso di reincarnarsi in uno qualunque dei suoi personaggi, avrebbe preferito essere Bàrel (il più grande degli Eòni apparsi sotto il padiglione di Dio) o uno di questi due; e quale? Escluse di volersi identificare con Bàrel; ma non decise a quale degli altri due accordare la sua preferenza.
Il vento prese a tirare forte; la nave era brava, però; e andava sicura, perché non aveva mèta alcuna. Lui, intanto, ripensava alle donne. Un giorno vide perfettamente raffigurate nei massi di una lunga scogliera alcune sagome femminili: una ritta, un’altra supina, una terza emergeva dall’acqua con tutto il dorso. Le riconobbe: Delvine quale era la notte delle nozze sul bordo del suo lago; Hélène nuotava nelle acque calde del mare, fidente in un futuro irresistibile; nella nigrizia supina riconobbe Cleopatra e la sua lassitudine imperiale. Ne ripercorse le vicende; fu triste e lieto; da quando era sul mare sentì per la prima volta il bisogno di dire grazie; quelle immagini di donna lo avevano tormentato, ma anche gli avevano mosso a festa il cuore; ogni deserto lascia vivere qualche fiore; persino nel fondo nero delle caverne si possono trovare corolle profumate; lui aveva adorato la bellezza, e sentito la delicata gioia del sorriso; non poteva chiudere il periplo dell’esistenza senza riconoscere il suo debito; guardava quei profili di donne sotto il sole con una giocondità infantile; il mondo è anche bello; si sentiva grato a chi lo aveva amato, e anche a chi soltanto gli aveva offerto l’immagine della bellezza.
Il vento scagliò il battello verso le nubi, quasi con rabbia. Si ritirò nella cabina, mangiò, si coricò: succeda quel che deve succedere. Dormì. Si risvegliò più volte coricato sulle pareti; il battello faceva le capriole. All’alba era tornata la calma. Sorrideva; pareva tutta una beffa; pensava ai futurologi, ultima genia del cialtronismo immortale, ai calcolatori di probabilità, e a tutta quell’altra brava gente che, cifre alla mano, sanno proprio tutto quello che nessuno può sapere. Si affacciò sul mare. Era solo come un dimenticato; o come un autòcrate? Il Creatore forse stava scomodo quand’era solo: lo dicono del Brahman indiano; lo hanno detto dell’Assoluto tutti gli altri con diverse voci; segno che queste cose le sanno bene in molti; lui sapeva soltanto che quella solitudine gli pesava; si ricordò che, giovinetto, pur vivendo in questa o in quella metropoli, soffriva con rabbia lo stato di solitudine; era sempre nella cattiva compagnia di se stesso; si amava e si odiava; odiava, però, anche gli altri, perché non era amato da nessuno; poi lei … gli sorrise e parve dirgli: – La tua solitudine è finita! – Certo, lei lo aveva liberato dalla solitudine; lei – e la rivedeva in una festa rosea di nubi – era minuta, graziosa, buona; la sposò. Fu l’inizio dell’itinerario verso gli infiniti mondi per i quali era stato dotato di gambe forti. Lei aveva avuto un’audacia innocente, quand’era entrata sorridendo in quel vortice. Lui era un vortice; di fuori calmo e pacifico; pareva uno dei molti; di dentro, i dirupi del pensiero, del sentimento, della fantasia. Lei ha sognato, penato, gioito accanto ad un individuo che mostrava la levigata gentilezza di una colonna, ma delle colonne aveva anche la pesantezza terrificante; lui la colonna, lei il fregio alto che la incorona. Anche qui sentì il bisogno di dire grazie.
D’un tratto si trovò sotto una montagna di nuvole spesse, opache, rotte da accecanti pezze di luce bianca. Vestite di nero le sagome grandi del padre, e della madre; sempre austeri, sempre lontani, sempre imprendibili; anche in quell’ultima apparizione gli si fece manifesto che dei genitori noi non abbiamo conoscenza, ma solo opinione; tra la creatura e il Creatore le distanze sono, in tutti i casi, infinite; provò quel sentimento che si chiama devozione; ripeté a sé medesimo una sua antica formola: se nella vita non avessi avuto altro bene che di amare i miei genitori, questa sarebbe stata una ragione proporzionata di nascere e vivere nel mondo.
Dormì una notte. Uscito snello sulla tolda, si trovò difronte un enorme globo nero; la nube sfiorava il mare, che le ruggiva di sotto rabbiosamente, come volesse squassarla, e liberarsene; l’uomo vi colse l’immagine di Dio, quale l’aveva vista infinite volte …: – Tu sei, oggi come sempre, un globo scivoloso, una nuvola impalpabile, un occultamento nero … Sempre ti ho cercato; sempre ti sei nascosto; quando ho sperato di averti trovato, sempre mi hai chiuso la strada con un getto di caligine orlata di lampi. Ho gioito fino al pianto, nell’attesa del tuo sorriso; ho urlato come un lupo, quando ho visto brillare di zàffiri la tua dentatura indifferente. Con te non ho mentito, se ti ho adorato, se ti ho contestato. Per sottrarti alle nostre bestemmie – mi disgustano specialmente quelle che circolano nelle preghiere … – ho proposto agli uomini di restituirti alla tua Trascendenza intatta; chi mi ha ascoltato ha preferito … –
L’uomo era attento solo a questi pensieri, e neppure si accorse che il turbine lo aveva staccato dalla tolda, e rovesciato nell’aria come un gabbiano, e gettato nella fauce vorace di un’onda oceanica … Anche il battello fu sollevato più in alto delle creste irate dei marosi; pareva volare; quando la terra fu prossima, una lunghissima onda con la sua dolcezza feroce lo posò su di uno scoglio; e ve lo abbandonò, come uno strano giocattolo raccolto chi sa dove. Quando l’uragano fu molte miglia lontano, un nugolo di uomini e di ragazzi raggiunse lo scoglio e invase il battello; trovarono, spersi dappertutto, libri, carte, pergamene: gli scolaretti presero a farne delle barchette panciute e degli aerei aguzzi. Uscì dalla cabina un ragazzetto, mostrando un grosso libro, folgorante di una bella copertina azzurra e oro; lo mostrò, e fece l’atto di incominciare a scempiarlo. Un pescatore si cacciò la pipa in bocca, gli tolse con una mano il libro, con l’altra gli assestò un ceffone fragoroso, e gli disse: – Perché lo guasti, o birba!? È un libro! –