“Un’impresa da matti in una città per matti“: così il Salone del Libro di Torino, superando anche quest’anno il record di presenze, è giunto alla sua XVII edizione
Certo, raggiungere la Buchmesse di Francoforte è cosa ardua e ambiziosa, ma tra l’8 e il 12 maggio Torino è stata senza dubbio la capitale della cultura. Proprio accanto agli edifici della Fca (da noi ancora Fiat) si è tenuta al Lingotto la XXVII edizione del Salone del Libro, anche quest’anno coordinata da Rolando Picchioni (presidente) ed Ernesto Ferrero (direttore editoriale) – per chi volesse approfondire la storia di questa “impresa da matti”, come disse Josif Brodskij, è appena uscito per Marsilio Un romanzo di carta di Roberto Moisio.
È sempre una ricorrenza entusiasmante per “una città per matti” come Torino che, dalle Olimpiadi del 2006, è ritornata ad essere una meta culturale di grande interesse, con il Museo Egizio (secondo solo al Cairo e prossimo a una nuova apertura nel 2015), la Reggia di Venaria (quinto sito museale in Italia nonché tra i cento più visitati al mondo), e le recenti mostre francesi su Degas e Renoir, che il prossimo anno saranno probabilmente seguite da quella su Monet. Non è retorica né eccessivo amore: che Torino sia stata in questi giorni “capitale della cultura” è confermato dai numeri. Rispetto all’anno scorso, il Salone del Libro ha visto crescere il numero dei suoi visitatori sfiorando le 340 mila presenze. E anche gli editori (piccoli e grandi) sono soddisfatti: in barba alle drammatiche statistiche sulla lettura in Italia, le vendite sono aumentate.
Donne e tanti giovani, come è stato notato, hanno affollato i tre padiglioni, per non dire delle code chilometriche davanti alle sale per ascoltare Luciano Canfora o Claudio Magris. Ci ho passato intere giornate, ho incrociato centinaia di persone di tutte le età, le ho viste in fila alla cassa per comprare i libri – talora anche un pacco di pasta alla Casa Cook Book, lo spazio che il Salone del Libro ha dedicato alla cultura del cibo e all’enogastronomia. Le ho viste leggere il programma – che con il passare degli anni per numero di pagine assomiglia sempre di più alla Bibbia – in un concentrato e religioso silenzio, entusiasmarsi per un evento: ho capito che la gente ha bisogno di trovare posti come questi in cui riunirsi, di pensare, di elaborare un approccio critico e competente, a maggior ragione oggi intorno al momento che stiamo vivendo. E ha ancora bisogno del libro come oggetto: e mai come quest’anno si è parlato di libri che parlano di libri – uno su tutti: Libro di Gian Arturo Ferrari – in attesa dell’Apocalisse elettronico, cioè di quando i libri saranno sostituiti dai supporti digitali. Difficilmente ciò avverrà perché il libro di carta – in quella forma con cui ha resistito sino ad oggi e non in quella degli illeggibili flipbach Mondadori – “è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una volta che li hai inventati non puoi fare di meglio” (Umberto Eco).
Più che altro occorre lavorare sui terribili dati della lettura e capire perché un italiano su due non legge nemmeno un libro all’anno. Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini – riprendendo in questo una tesi di Mario Vargas Llosa nella Civiltà dello spettacolo – ha attribuito la colpa di questo fenomeno alla televisione, dove “c’è sempre uno che parla, che litiga, che ama e che fa pace, ma mai uno che legga un libro o un presentatore con un libro in mano”. Il che è vero; la televisione italiana non trasuda di cultura, in parte “danneggia la lettura”, e quei pochi programmi culturali in palinsesto sono spesso collocati in orari improponibili. Ma il ministro – che, anche se non è bibliofilo come Marcello Dell’Utri, è anche romanziere – merce rara in Parlamento – dimentica che in questi anni nessuna politica culturale è stata mai adottata per invertire la tendenza, perché con la cultura (diceva un ministro di qualche tempo fa) non si mangia.
Ma ora veniamo al tema di quest’anno, che avrebbe potuto essere senza problemi il “libro” data la grande attenzione alla riflessione “metaeditoriale” – ma che è stato il “bene”, anzi il “bene in vista”, come mostra l’immagine del bambino sorridente con i suoi binocoli di carta. Tema che è stato affrontato in chiave filosofica con Armando Massarenti e Remo Bodei; declinato in “bene comune” con gli interventi di Salvatore Settis e Stefano Rodotà, ma che da questo punto di vista (oggi il più attuale) non è stato sufficientemente approfondito perché oscurato dalla presenza (per certi versi ingombrante) della Santa Sede, quest’anno ospite d’onore al Salone del Libro.
Se ci si fosse limitati ad ospitare il Vaticano in modo laico, in quanto Paese estero, non ci sarebbe stato nulla di male, ma si è parlato soltanto di Papa Francesco ai limiti del culto della personalità e, com’era inevitabile, la proscinesi dei media e delle istituzioni è stata pressoché totale (soltanto Piergiorgio Odifreddi, durante la presentazione del suo libro su Newton, ha avuto il coraggio di lamentarsene ma, in quanto di parte, non è stato preso in considerazione). Libri del Papa e sul Papa dappertutto, che hanno quasi venduto come l’ultimo romanzo di Dan Brown e che hanno scatenato una gara, soprattutto tra i grandi editori (il massimo forse è stato dato dalla Rizzoli con l’annuncio dell’imminente uscita di un libro di Ferruccio De Bortoli dal titolo emblematico Il papa è una persona normale). E poi non poteva mancare, al termine di questo tappeto rosso durato cinque giorni, la “Torta Sacra” di chiusura realizzata con i colori della bandiera del Vaticano e con la basilica di San Pietro e il colonnato di Bernini in meringa, e tagliata in diretta tv da Mons. Pasquale Iacobone del Pontificio Consiglio della Cultura.
Il prossimo anno, tra l’ostensione della Sindone e una possibile visita di Papa Francesco, toccherà alla temuta Germania. Chissà che non venga anche Angela Merkel. Ma la sua immagine zuccherosa sulla torta sarebbe un po’ troppo, troppo in controtendenza coi tempi.