Secondo Kerry Israele e Palestina sarebbero pronte a far ripartire i negoziati di pace, in stallo dal 2010
“Sono lieto di annunciare che abbiamo raggiunto un accordo che stabilisce una base per la ripresa dello status finale dei negoziati tra i palestinesi e gli israeliani”, queste le parole con cui il segretario di Stato americano, John Kerry, annuncia la serie di nuovi colloqui che si terranno a Washington tra il ministro della Giustizia di Israele, Tzipi Livni, e Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Autorità Nazionale Palestinese. L’annuncio arriva da Amman alla fine del sesto viaggio di Kerry in Medio Oriente, ma viene accolto tra alti e bassi sia in Israele che in Palestina. Per Tzipi Livni “dopo lunghi mesi di scetticismo e cinismo, i quattro anni di marasma diplomatico si avvicinano alla fine“, ma per altri funzionari del governo di Israele il percorso non sarà così semplice, ci vorranno mesi per giungere a delle basi comuni da cui ripartire. Altro problema al momento irrisolto è il fatto che la parte della popolazione palestinese rappresentata da Hamas non riconosce ad Abu Mazen l’autorità e la legittimità per negoziare a nome di tutto il popolo palestinese sulle questioni fondamentali: “Hamas respinge l’annuncio di Kerry sulla ripresa dei negoziati“, ha dichiarato Sami Abu Zuhri, portavoce del movimento islamico palestinese al governo nella Striscia di Gaza.
Nonostante l’apparente volontà delle due parti, spinte dal continuo via vai di Kerry nella regione, di riprendere i colloqui per superare quella “pace economica” voluta da Netanyahu, che per anni ha visto un moderato sviluppo economico (ma non politico) dei Territori palestinesi grazie agli ingenti investimenti internazionali e che col tempo avrebbe dovuto far dimenticare ai palestinesi la rivendicazione di un proprio stato autonomo, non vi è accordo sui punti di partenza delle trattative. Israele si è detto pronto a discutere su tutto ma senza “paletti” iniziali. Per Abu Mazen, invece, il punto da cui dovranno ripartire le trattative è ben chiaro e si tratta del ritorno ai confini stabiliti dalla linea armistiziale antecedente alla guerra del 1967. La strategia di Kerry per far riprendere ufficialmente le trattative senza una dichiarazione di intenti da parte di Israele si è basata su promesse di tipo economico alla controparte palestinese e sull’ipotetico rilascio di circa 350 palestinesi, tra i quali non ci dovrebbe però essere Marwan Barghouti, leader di Fatah e promotore della seconda Intifada. Il riserbo sui dettagli delle trattative tra Israele e Palestina pare sia un punto fondamentale per la riuscita delle stesse. La ragione è semplice: Netanyahu sa che dichiarare preventivamente i futuri confini dei due stati significa stabilire quali insediamenti apparterranno allo stato di Israele e quali no, fatto che potrebbe portare a una spaccatura della coalizione al governo per le reazioni del movimento dei coloni, senza contare il peso ideologico di questo passo.
E’ chiaro a tutti, dentro e fuori Israele, che la ripresa dei negoziati non riguarderà le principali colonie israeliane e non intaccherà la sovranità sulla parte orientale di Gerusalemme, né il controllo effettivo di Israele sulla West Bank. Ma se non c’è nessuna reale possibilità che vengano prese in considerazione le rivendicazioni palestinesi di uno stato territorialmente continuo (Netanyahu non è disposto a congelare la costruzione di nuovi insediamenti, figurarsi a smantellare quelli già esistenti) con Gerusalemme Est come capitale, come mai gli Stati Uniti spingono tanto per la ripresa del dialogo tra Israele e Palestina?
Una motivazione potrebbe essere la percezione, da parte americana, dell’isolamento internazionale riguardo al loro sostegno incondizionato nei confronti dello Stato ebraico, e la preoccupazione di un’ennesima iniziativa unilaterale della Palestina che porti qualche altra conquista simbolica a livello internazionale in vista della prossima Assemblea Generale dell’Onu a settembre. Occasione in cui Abu Mazen potrebbe decidere di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale per imputare a Israele “crimini di guerra”. Senza dubbio la spinta maggiore arriva da parte dell’Europa che il 19 luglio ha approvato una direttiva “storica”, vincolante per tutti i 28 Stati membri, che vieta qualunque tipo di finanziamento o cooperazione con “le entità israeliane” nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme Est e nelle Alture del Golan, interrompendo così qualunque tipo di rapporto, economico, culturale e politico, con le colonie israeliane, considerate illegali dal diritto internazionale. Questa presa di posizione, definita da alcuni come un “terremoto” che potrebbe estendersi all’intero stato di Israele e non solo agli insediamenti, è un chiaro segno che la pazienza degli europei sta per giungere al limite. Per tutta risposta Israele ha deciso di interrompere, a sua volta, la cooperazione con l’Europa all’interno della zona C della West Bank e di non rinnovare i documenti del personale Ue diretto nei territori, ribadendo il concetto che “i confini israeliani non saranno mai determinati dalle linee-guida della Commissione“. Forse non saranno ristabiliti i confini, ma di sicuro il pressing è stato tale da spingere Netanyahu a scongelare, almeno in apparenza, il processo di pace.