Cittadinanza e integrazione: le sfide del ministro Cecile Kyenge
E così siamo riusciti a conquistare la prima pagina dell’International Herald Tribune; non un giornaletto locale, ma l’edizione internazionale del New York Times, quotidiano americano letto da milioni di persone. Questa volta non per meriti, come quando la rivista Time dedicò la sua copertina alla fisica Fabiola Gianotti, ma perché abbiamo dei problemi con la diversità: “Italy grapples with diversity” è il titolo dell’articolo firmato da Elisabetta Povoledo.
In prima pagina (se ancora qualcuno non avesse capito il perché di questo affronto) c’è la foto del ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge, oggetto sin dal giorno della sua nomina di una aberrante (e anche poco originale) campagna razzista da parte di alcuni movimenti xenofobi (Lega Nord inclusa) della quale ci ha reso conto su questo giornale Alfredo Fiorani in un commento dal titolo eloquente “Cecile Kyenge vittima dei cretini”.
L’articolo della Povoledo, che ripercorre le tappe della vita e della formazione di Cecile Kyenge, “colpevole” di essere il primo ministro nero della storia della Repubblica, mette in luce un problema cruciale della nostra cultura con cui ancora – non solo noi, per la verità – non abbiamo fatto i conti: il problema del razzismo, antropologico prima che politico, che è sbagliato limitare all’ignoranza di qualche gruppo estremista, perché è molto più sottile e insidioso di quanto si pensi.
Si tratta, infatti, di un problema molto diffuso nella nostra società che, prima di concentrarsi sul ministro Cecile Kyenge, ha interessato soprattutto l’ambito del calcio, dove vediamo all’opera quel neo-razzismo che canalizza la violenza nello sport-spettacolo cui accenna Luciano Canfora in Demagogia. E che ogni tanto riaffiora con violenza, occupando le prime pagine dei giornali, basti pensare ai recenti episodi antisemiti avvenuti a Napoli e a Piazza Campo de’ fiori a Roma.
Il razzismo, dicevo, è un fatto diffuso, e pure molto antico, ma non bisogna stupirsene: l’uomo, ben prima delle ideologie novecentesche che ne costituiscono l’apice, ha da sempre costruito la propria identità sull’odio nei confronti del diverso; dai greci, che chiamavano “barbari” coloro che non parlavano la propria lingua, ai fascismi, che hanno eletto l’ebreo a proprio nemico, ad alcuni movimenti populisti europei che, non a caso in una situazione di crisi come quella attuale, aizzano l’odio contro il nero, l’islamico o l’omosessuale.
Ora, il ministro Cecile Kyenge si è fatta portavoce di alcune proposte di buon senso, sostenendo l’abolizione del vergognoso realtà di immigrazione clandestina (come se la condizione di migrante possa essere in se stessa criminalizzata) e la concessione della cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia – cui anche il presidente Napolitano ha fatto riferimento in ripetuti interventi – in base al cosiddetto ius soli, non allo ius sanguinis per cui si può essere italiani anche senza aver mai messo piede in Italia. Si dirà: battaglie di civiltà e, prima ancora, di buon senso. Tutto giusto, ma ad alcuni fa ancora comodo sfruttare pregiudizi e luoghi comuni a fini di propaganda elettorale.
Il tema dell’immigrazione, da tempo immemorabile al centro del dibattito politico, non è mai stato affrontato seriamente; è visto come un tema proibito, forse perché ha a che fare con la nostra naturale paura dell’Altro. Ciò che spaventa è l’invasione incontrollata del proprio territorio, la possibilità che onde umane possano riversarsi sulle nostre coste – qualora ci arrivino, ovviamente, dati i precedenti nemmeno troppo remoti dei cosiddetti uomini-tonno. Sulla ragione e la solidarietà, prevale una sorta di paura cronica e cieca verso il “barbaro”, una paura che porta a respingerlo in qualsiasi situazione egli si trovi – e macchia di disonore per il nostro Paese rimarranno i famosi respingimenti, attuati dall’allora ministro dell’Interno Maroni.
Innanzitutto – scrive Umberto Eco in uno dei suoi Cinque scritti morali – occorre distinguere il concetto di “immigrazione”, cioè quando “alcuni individui […] si trasferiscono da un paese all’altro”, da quello di “migrazione”, cioè quando “un intero popolo, a poco a poco, si sposta da un territorio all’altro”; mentre le immigrazioni “possono essere controllate politicamente, limitate, incoraggiate, programmate o accettate”, le migrazioni “sono come i fenomeni naturali: avvengono e nessuno le può controllare”.
Oggi è difficile – continua Eco – stabilire se ci troviamo di fronte al primo o al secondo caso; tuttavia è possibile distinguerli dal momento che “sino a che vi è immigrazione i popoli possono sperare di tenere gli immigrati in un ghetto, affinché non si mescolino con i nativi. Quando c’è migrazione non ci sono più ghetti, e il meticciato è incontrollabile”.
Assodata la inevitabilità dei flussi migratori, oggi non sono state ancora costruite politiche di immigrazione condivise; si trattano casi di migrazione come se fossero di immigrazione e si lascia al singolo stato, che può poco, la possibilità di legiferare sul problema come meglio crede.
Ora al necessario aspetto politico, di regolamentazione, se ne affianca un altro altrettanto importante, che ne costituisce la radice, cioè quello culturale, che pone le sue basi nel concetto di “integrazione”: parola chiave del futuro. Un concetto che comporta non pochi problemi; oggi l’antropologia culturale riflette su come etnie culturalmente diverse possano convivere insieme, su quali siano le modalità di questa convivenza e gli strumenti migliori per poterla ottenere, ma bisogna capire se con integrazione si intenda “un movimento di avvicinamento reciproco o, invece, un adattamento unilaterale degli stranieri alla nostra società e cultura” (A. E. Galeotti).
Tuttavia ciò che preliminarmente favorisce l’integrazione, e che ci rende immuni da quell’intolleranza selvaggia – di cui ci parla Eco – da cui nascono i razzismi, è un’educazione di “tolleranza della diversità”. Ora, non si nasce tolleranti, l’intolleranza è qualcosa di biologico e primordiale, ma si può diventarlo. Come? Attraverso una “educazione alla diversità” – che potrà essere attuata solo con lo strumento fondamentale della cultura – che ci mostrerà che non siamo tutti uguali, che le differenze esistono, ma che ci sono anche aspetti comuni.
Nel suo On Liberty del 1859 – manifesto del liberalismo ottocentesco – John Stuart Mill ergeva la diversità a valore supremo. All’uniformità egli contrapponeva la valorizzazione delle individualità, che egli definiva come “il sale della terra”.
Gandhi diceva che la civiltà di un popolo simisura nel modo in cui essa sa trattare i suoi animali. La nostra si misura nel modo in cui sa tollerare la diversità: e sarà tanto più matura quanto più saprà accettarla. Di conseguenza bisognerà considerare “barbari” – scrive Eco – quei membri appartenenti alla nostra cultura che non la tollerano; e a chi chiede se l’accettazione delle differenze verrà praticata anche a Kabul, dovremo rispondere che “questa obiezione è quanto di più lontano possa esserci dai valori della civiltà occidentale. Noi siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani anche noi”.
Questa è, dunque, la sfida che ci attende: un’Europa “colorata”. Che mette alla prova le basi della nostra cultura e della nostra identità.