La diversità e i disabili al centro del progetto culturale Gradart
Che cos’è la diversità? In base a quale parametro qualcuno è normale o meno? Quali potenzialità possono offrirci i diversamente abili? Su queste ed altre questioni si sono interrogati i relatori del seminario di formazione sul tema della “disabilità mentale e beni culturali”. Il dibattito rientra nel programma di Gradart, un connubio ormai consolidato da tre anni tra il suggestivo borgo medievale di Gradara (PU) e le sue iniziative culturali. L’obiettivo comune è quello di rendere la città accessibile a tutti, fisicamente e mentalmente per abbattere barriere sociali tramite attività creative svolte dai disabili in collaborazione con scuole di diverso grado.
Pertanto nel pomeriggio del 15 marzo, nel teatro comunale di Gradara, si sono susseguiti gli interventi di esperti del settore come Mirella Campetelli, formatrice per insegnanti e operatori scolastici sul tema della disabilità. Oppure Maria Chiara Ciaccheri, specializzata nella progettazione didattica e accessibilità museale o l’artista Luca Santiago Mora, solo per citarne alcuni.
Il problema della disabilità non può più essere trascurato né considerato irrilevante perché colpisce soltanto una minoranza. Non si deve dimenticare che circa il 4,8% della popolazione italiana è affetta da un deficit, sia esso fisico o mentale. Alcuni progressi, tuttavia, si sono registrati almeno nel linguaggio che ha archiviato il termine “handicappato” per approcciarne un altro dal sapore più genuino come “diversamente abile”. In realtà, l’unica deficienza rintracciabile consiste nell’evidente svantaggio sociale. Questo, però, deve assolutamente essere trasformato in partecipazione sociale perché nessuno vorrebbe avere un ruolo passivo nella società, neanche coloro che si sentono costantemente diversi e che vengono, anche tacitamente, ritenuti incapaci di essere autonomi.
Persino la classificazione internazionale del funzionamento della salute e della disabilità (ICFCY) ha individuato come determinanti i fattori ambientali oltre che personali. Come non pensare a quei ragazzi ulteriormente limitati nelle loro capacità cognitive ed espressive a causa di genitori inesperti o, molto più spesso, incapaci di accettare la diversità del figlio tanto da non chiedere assistenza a nessuno. Così questi disabili sono costretti a vivere isolati da un mondo che neanche conoscono per un’insensata mania di protezione da parte dei loro genitori.
Se davvero si è fortemente intenzionati a cambiare direzione, bisogna innanzitutto mutare il linguaggio per una nuova politica mentale. Non è più l’inserimento del disabile il fine da ricercare, neanche l’integrazione, bensì l’inclusione. Quest’ultima parola non lascia margini di dubbio, non fa trapelare sforzi da buonisti, ma accoglie a braccia aperte e volontariamente colui che, più diverso è, più sorprendentemente si mostra creativo ed operativo. È ora di mettere da parte vecchi parametri come il QI (criterio di individuazione e descrizione della disabilità) per cui, al di sotto del punteggio di 70-72, diagnosticato prima dei diciottanni, si può parlare di ritardo mentale come condizione clinica. Inoltre, un disabile non ha fortunatamente tutte le sue funzionalità appannate. Ciascuno è un individuo diverso dall’altro, con alcune capacità più sviluppate di altre proprio come avviene per la gente cosiddetta “normale”. Il deficit può semplicemente coinvolgere l’attenzione o disturbi da tic. Esso può caratterizzarsi per iperattività o eccessivi sbalzi di umore, oppure per movimenti stereotipati. A tal proposito, potrebbe essere utile consultare il ICD 10, un manuale che studia in più volumi tutti i tipi di disabilità come pure le alterazioni affettive, linguistiche o comportamentali.
Spesso più utile della diagnosi stessa, si rivela la conoscenza personale dell’individuo che non deve sentirsi alla pari di un paziente da analizzare per giungere a una terapia la più rapida possibile. Certamente è apprezzabile porsi degli obiettivi, ma questi non devono essere imposti al disabile, pressandolo e stressandolo. Egli deve seguire i suoi tempi senza pretese. I nostri imperturbabili schemi mentali ci impediscono di approcciarci a questo nuovo mondo sotterraneo solo perché ci spaventa e ci inquieta. In effetti, questo abisso inesplorato ci catapulta nell’incertezza e nell’imprevedibilità. Solo le persone diversamente abili ripongono dentro di sé una forza inimmaginabile per noi dato che, come osserva Pontiggia, loro devono nascere due volte. Una volta per venire al mondo e una seconda per conquistarselo. In fondo, calarsi in questo flusso di incertezza della diversità significa fare un viaggio che ha reso familiare ciò che era strano e strano ciò che era familiare.
A illuminarci sul tema, interviene lo psichiatra Leonardo Badioli che scorre una breve carrellata di artisti “leggermente” folli. Lo stesso Seneca, in qualità di filosofo, affermava che “non esiste genio senza una vena di follia”. Ciononostante, opinioni come quelle di Lombroso sembrano discordanti perché un legame tra squilibrio mentale e intelligenza è razionalmente inconcepibile. Così come non esiste un artista uguale a un altro, non esiste neanche un matto identico a un altro. Se un folle parla a modo suo tramite un linguaggio personale e non convenzionale, quale modo migliore per esprimersi se non l’arte stessa? Paul Klee ammetteva che l’arte rende visibile ciò che non lo è. Ancor di più, Francisco Goya era bipolare, alternandosi tra fasi depressive e ipomanie. Per non parlare di Van Gogh, non soddisfatto della sindrome schizo-affettiva, tendeva anche a manie suicide. E cosa dedurre dal “Sogno causato da un’ape” di Salvador Dalì? Lui stesso affermava che “l’unica differenza tra me e un matto è che io non sono matto”. Non aveva tutti i torti Dalì, a lui andavano gli applausi, ma ai pazzi solo gli insulti.
Ciò che non giunge ancora al grande pubblico è che l’arte si può fare ovunque e con qualsiasi mezzo. I più non l’hanno ancora afferrato dato che l’arte contemporanea non sembra davvero molto popolare. L’arte non è solo un fine, ma anche un mezzo per donare a qualcuno un certo beneficio, a volte inaspettato, come avviene grazie all’arte-terapia. Un esperimento del genere è stato approntato al castello incompiuto di Rivoli d’arte contemporanea nell’ex residenza sabauda. Le opere non devono solo essere osservate e ammirate, ma anche usate come eredità in dono dal passato. In che modo? Tramite le sinestesie, lavorando con i sensi grazie a opere multisensoriali. È il caso di “Respirare l’ombra”, creazione esclusivamente olfattiva. Oppure ci sono dimostrazioni di lavori realizzati appositamente per essere calpestati e, dunque, vissuti. In queste sperimentazioni uno spazio di protagonismo va lasciato ai disabili stessi, più autonomi di quanto si pensi come i non udenti e i non vedenti. Addirittura ci si è resi conto che le persone sorde frequentavano di rado i musei perché nel linguaggio dei segni mancavano innumerevoli termini propri dell’arte contemporanea. Il punto è che politicamente parlando, l’offerta creativa esiste eccome, ma la domanda scarseggia. Qui, purtroppo, bisognerebbe scavare e fare tabula rasa alla radice della mentalità odierna.
E se un normale vivesse per un giorno in mezzo a comunità di disabili? Chi sarebbe l’intruso? Ecco una domanda retorica che è diventata il perno di diverse ambiziose imprese anche all’interno dei musei. Per avere un’idea dei nuovi allettanti percorsi artistici e storici, si può visitare il sito interattivo www.museisenzabarriere.org. Prima di tutto, il museo non deve dimenticare il suo ruolo educativo e sociale, perché esso non deve necessariamente insegnare qualcosa ma può benissimo offrire semplicemente impressioni, stimoli ed emozioni. Inoltre, il pubblico a cui si rivolge non è quasi mai unico ma multiforme e per questo bisogna essere pronti a comunità interpretative multiple in cui il soggetto attivo è il visitatore stesso. Pertanto, guai al museo che non ascolti, non stupendo né promuovendo il benessere altrui. Queste dovranno essere le sue prerogative. Un esempio di intervento pratico può essere il percorso narrativo o la scelta di attività brevi che soddisfino gli interessi di tutti.
Infine, un’altra perla di saggezza ci viene offerta dall’Atelier dell’errore, laboratorio di arti visive per ragazzini certificati dalla neuropsichiatria infantile, soprattutto delle scuole medie inferiori. I disabili non solo creano per errore ma, nota dolente, si sentono loro stessi degli errori, sin da quando sono venuti alla luce. Dimostrazione di questo è la loro frequente espressione “io non posso disegnare”, sintomo di una volontaria amputazione delle proprie facoltà.
Come reagire di fronte a queste consapevolezze? Senza dubbio con la comunicazione a oltranza. Più persone comprenderanno a fondo il problema e più sapranno sconfiggere i pregiudizi e reagire con discernimento. Si inizia dal linguaggio e dal modo di comunicare. Per questo, la voce dei disabili non deve essere come la “h”, muta e indifferente, quasi inesistente. È ora di scuotere le menti assopite e i propositi repressi. Che si esprimano pure i diversi, quanto ancora hanno da insegnarci neanche lo immaginiamo!