Scuola possibile: l’ultimo appello
Nel numero precedente sono state prese in esame alcune delle proposte che il mondo politico formulava durante la campagna elettorale per assicurarsi un consenso e abbiamo coerentemente considerato quelle che sembravano rispondere meglio e di più ai nostri criteri e ai nostri ideali. Oggi siamo qui a chiedere a chi ha vinto e ha perso o che prenderà il timone della grande nave della formazione di non tradire l’impegno assunto in precedenza. Ma siamo qui anche come“addetti ai lavori”, come protagonisti di quel mondo scolastico e perciò come portatori di conoscenze, valori, esperienze, progetti e ideali che vorremmo trasmettere e diffondere, che vorremmo fossero ascoltati e presi in attento esame, da quella politica che ci ha appena chiesto la fiducia e la delega ad occuparsene. Dimentichiamo spesso che siamo noi i cittadini, noi gli interlocutori, noi i destinatari dell’azione politica, che il potere di cui questa classe si fregia è stato loro delegato da noi e che essi a noi devono rendere conto. La scuola in generale ha bisogno di molti interventi non solo per migliorare le sue potenzialità, ma anche per mantenere quelle funzioni che ancora riesce ad espletare e, soprattutto, per non retrocedere e per non peggiorare. Mi limito qui ad una sintetica panoramica degli aspetti che ritengo prioritari, soprattutto nella secondaria superiore. Intanto impedire una gerarchizzazione della scuola in base alle economie del territorio, con regioni ricche e regioni povere e quindi territorialmente classista: l’autonomia decisionale e la diversificazione locale ben vengano, ma l’omogeneità di risorse e di mezzi deve essere garantita. La normativa che istituisce e disciplina l´autonomia scolastica ha disegnato un modello funzionale al sistema nazionale complessivo, un modello che ha precisi confini nei criteri e negli obiettivi generali da garantire su tutto il territorio nazionale. Sappiamo bene che invece le scuole e le aree sulle quali insistono sono profondamente disomogenee e lo sforzo del legislatore deve volgersi nella direzione della riduzione di questo iato: offrire a tutti gli ordini e gradi di scuola e a tutte le regioni pari opportunità formative. Le differenze saranno fatte dalla volontà e dalle competenze presenti, ma non possono essere strutturali e fondate sulle profonde diversità della geografia economica e culturale del nostro paese che, tra l’altro, sconta la sua complessa eterogeneità storica. È poi improcrastinabile una soluzione al dramma del precariato, stabilizzando in modo degno di questo nome i docenti che hanno già vinto concorsi abilitanti, che sono da anni inseriti nelle varie graduatorie provinciali, o che hanno alle spalle anni di servizio a tempo determinato, o numerose supplenze annuali o, comunque, uno stato di servizio e di esperienza tale da non poter essere ignorato. Il Ministero deve vedere in questo sforzo finanziario una forma di intelligente investimento nelle risorse umane, ossia un tipo di intervento che darà i suoi frutti solo sul medio e sul lungo periodo; è impensabile che chi amministra questo settore basi le sue linee di intervento su un tornaconto immediato, magari per puri fini elettorali, o per assicurarsi proventi personali. In questo senso una soluzione allo storico problema del precariato, congiuntamente a quello tecnico della vigilanza, può raccordarsi con la proposta dell’Organico Funzionale da associarsi ad ogni plesso scolastico.Impedire inoltre la trasformazione delle Scuole in aziende, gestite da Consigli di Amministrazione in cui siano presenti soggetti privati estranei al mondo della Scuola. I “soggetti esterni” possono solo essere rappresentanti di enti pubblici e nessuna iniziativa puó configurarsi come motivata da lucro. L’idea stessa di una aziendalizzazione del sistema formativo è pedagogicamente deleteria e persino a livello universitario rischia di penalizzare tutti i settori in cui i privati, le imprese e il mondo finanziario non colgono occasioni e filoni lucrativi; se la competitività e il profitto entrano a gamba tesa nel sistema educativo e lo condizioneranno dal di dentro, quest’ultimo verrà trasformato, nella migliore delle ipotesi, in addestramento professionale e sarà soggetto alle leggi del mercato e ai rapporti di forza che stanno governando il mondo con gli esiti devastanti che sono sotto gli occhi di tutti. Questo non significa che il nostro sistema formativo non possa e non debba essere capace di competere con quelli del resto del mondo, né che non debba e non possa tenere conto del mondo del lavoro. Al contrario, una competizione cognitiva e scientifica e un preciso e funzionale raccordo con il mercato e con il mondo delle professioni è più che mai auspicabile e deve informare i criteri didattici, gli ordinamenti, le materie e le forme di valutazione, ma non può entrare all’interno dell’istituzione e non deve condizionarne le logiche e le procedure che devono invece rispondere ai requisiti epistemologici e cognitivi delle singole discipline e a quelli pedagogici ed educativi nel loro insieme.Se è vero che la Costituzione sancisce che la formazione deve essere pubblica e non necessariamente statale, è anche vero che solo l’istituzione statale ha saputo garantire quell’apertura a tutti che il privato continua a negare (basti pensare alla chiusura di molti istituti privati ai diversamente abili e comunque ai portatori di disturbi dell’apprendimento). Inoltre il privato che si riconosce e si fonda su basi confessionali non può dirsi pubblico, proprio in virtù della sua scelta di campo catechistica (quale che sia il credo adottato) e non può perciò ricevere alcun finanziamento e nemmeno nessuna facilitazione dallo Stato.Promuovere una programmazione capace di superare i vincoli dell´unitá oraria di lezione, la rigiditá e l´unitarietá della classe e i modi tradizionali di impiegare il tempo lavorativo dei docenti. Esistono già pregevoli esperienze in tal senso, ma restano isolate e si stenta a trasformale in approcci sistemici per la difficoltà oggettiva della formulazione di un orario complessivo delle lezioni, per la mancanza di mezzi e strutture (aule, laboratori, strumenti, finanziamenti, ecc.) in grado di consentirle. La numerosità delle classi impedisce, inoltre, ogni seria personalizzazione degli insegnamenti e degli apprendimenti. Il coordinamento della didattica non si avvale, infine, mai di un’organica collaborazione con il personale tecnico, in particolare con quello responsabile dei laboratori: è necessaria una inversione di tendenza.Favorire l’apprendimento non competitivo e cooperativo sfruttando le dinamiche del gruppo classe e mettere in atto anche sperimentazioni per gruppi di interesse e di livello. I docenti apprendono solo con l’esperienza diretta e sul campo come gestire e finalizzare le dinamiche relazionali che hanno luogo nelle loro aule, mentre invece questa competenza dovrebbe far parte del bagaglio formativo di ogni docente ed essere periodicamente aggiornata e implementata di nuovi apporti. L’apprendimento cooperativo, la costituzione di sottogruppi di studio motivati da specifici interessi e la destrutturazione del gruppo classe in sottogruppi omogenei per il livello cognitivo raggiunto potrebbero apportare notevoli potenziamenti al processo educativo.Fare in modo che gli Organi Collegiali e in particolare il Collegio dei Docenti e i Consigli di Classe abbiano effettiva autonomia e competenza didattica, che cioè siano effettivamente messi in grado di governare la loro azione e dare sostanza all’autonomia scolastica. Distinguere la Dirigenza Scolastica tradizionale, imperniata sugli aspetti formali e giuridici della scuola da quella necessaria per la dimensione propriamente educativa e formativa, individuando dei coordinatori di area (scientifica, laboratoriale, tecnica, artistica, linguistica, letteraria, umanistica, ecc.) all’interno dello stesso Collegio dei docenti, con compiti non gerarchici (colleghi con titoli, esperienze e competenze specifiche, ma anche scelti democraticamente dagli altri e non imposti dall’alto per nomina), ma di supporto, facilitazione e promozione della didattica ordinaria e straordinaria. Prevedere a tal fine ed eventualmente, apposite figure di sistema, ossia docenti (anche temporaneamente fuori cattedra) formati per l’espletamento di attività di implementazione della didattica stessa: orientamento, coordinamento culturale, rapporti con il territorio, sperimentazione e innovazione. Ad essi potrebbe venire affidata l’organizzazione della sperimentazione metodologico-didattica e della collaborazione scientifica con gli Enti di ricerca, l´Universitá, l´associazionismo culturale e, non da ultimo, con le altre scuole, per sfruttare le reciproche competenze e le diverse dotazioni, tipiche di istituti di differente indirizzo.Vanno anche ripensati i curricoli formativi dei vari indirizzi di studio in funzione delle nuove e delle future esigenze cognitive e professionali, rivedendo testi, metodi, programmi e numero delle ore dei corsi di studio avvalendosi della partecipazione di chi li svolge, stando sul fronte della didattica e non di chi fa di professione il politico e, magari, non ha mai insegnato. Se si vuole che la valutazione abbia veramente quella funzione di stimolo e di crescita che viene chiamata in causa quando si pretende di imporla alla disomogenea platea della scuola italiana, anche essa deve essere elaborata con il concorso complessivo della comunità educante e non di un’elite di docimologi che, spesso, non hanno nemmeno sperimentato, in prima persona, la relazione educativa.Infine, è opportuno che il punteggio del titolo di studio conseguito abbia più peso nella selezione che le facoltà universitarie a numero chiuso esercitano attraverso batterie di test che hanno spesso così poco a che vedere con la preparazione che i candidati hanno fino a quel momento ricevuto ed è indispensabile che almeno si riduca il peso delle spese che gravano sulle famiglie per evitare che già la superiore e soprattutto l’università diventi di fatto classista.Per quanto concerne l’UNIVERSITÀ quest’ultimo appello cade già fuori tempo massimo: l’ISTAT ha da poco reso noto che negli ultimi anni la popolazione universitaria è in calo e che l’Italia si sta collocando agli ultimi posti di qualsiasi classifica della formazione di alto profilo. Se si aggiunge a tutto ciò la già cronica fuga di cervelli perché anche la ricerca pura e applicata non trovano alcun sostegno finanziario e istituzionale, questa agenda per una scuola possibile rischia di trasformarsi in un estremo appello a porre urgentemente mano a tutte le istituzioni educative nel loro complesso.Non limitiamoci al voto che abbiamo appena dato, ma vigiliamo e partecipiamo senza sosta, affinché questo appello non cada nel vuoto!
Fonte: La Scuola Possibile Roberto Sabatini |