Il sindaco di Lampedusa chiede una seria gestione emergenziale dei flussi migratori verso le coste italiane
Durante la ricorrenza di Ognissanti é stato inaugurato a Lampedusa, nella riserva naturale dell’isola dei Conigli, un giardino in memoria delle vittime del naufragio del 3 ottobre scorso, quando si é verificato un incendio a bordo di un barcone di emigranti provenienti dal porto libico di Misurata, e diretti verso il nostro paese. Alla presenza del sindaco Giusi Nicolini, del governatore della regione Renato Crocetta, nonché del presidente nazionale di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, che ha sostenuto l’iniziativa, sono stati piantati i primi quaranta alberi (ovvero essenze mediterranee come il ginepro o il carrubo) in memoria delle 366 vittime del naufragio. Come é ormai noto, quella tragica notte del tre ottobre gli emigranti avevano pensato, poiché i telefonini non prendevano campo, di segnalare la propria presenza nell’oscurità con una coperta appositamente accesa senonché, a causa del ponte sporco di benzina, le fiamme si sono estese ovunque. I clandestini erano circa cinquecento, di nazionalità somala ed eritrea. Un paio di imbarcazioni avevano lanciato l’allarme, ma dei motopesca avevano invece ignorato il grave stato di necessità dei naufraghi, passando oltre. I corpi recuperati sulla banchina del porto sono diventati simbolo di chi paga con la vita l’illusione di un futuro migliore. Il medico responsabile del poliambulatorio di Lampedusa, Pietro Bartolo, ha affermato che, in tanti anni di attività, non aveva mai visto ‘nulla di simile‘, anche se, secondo Fortress Europe (un osservatorio on-line) dal 1994 fino ad oggi nel solo canale di Sicilia sono morti oltre 6200 migranti.
Pochi giorni dopo, il 12 ottobre, a circa sessanta miglia dalla costa, un altro barcone si é rovesciato, causando trentaquattro vittime.
Circa due settimane più tardi, giovedi 24 ottobre, il sindaco Giusi Nicolini, sempre col governatore della regione Rosario Crocetta, é giunto a Bruxelles, incontrando il presidente dell’europarlamento Martin Schultz. Giusi Nicolini ha affermato: ‘Mi aspetto che cambi la politica sul diritto d’asilo, non può più essere consentito che venga chiesto a nuoto, é vergognoso di fronte al mondo‘. Le risposte, per la Nicolini, non sono Frontex o Mare Nostrum, perché ‘queste operazioni limitano i naufragi ma non li evitano‘. L’Italia, sottolinea il sindaco, ha poi il problema della Bossi- Fini, ‘una risposta ignominiosa a una domanda umanitaria‘. Questa legge, specifica Giusi Nicolini, dovrebbe in realtà essere chiamata Bossi-Fini-Maroni perché è stato quest’ultimo che nel 2009 ‘ha allungato i tempi di permanenza nei megacentri in modo esasperato e ha voluto l’iscrizione nel registro degli indagati di chi fugge da guerre e dittature‘. (24 ottobre 2013, Corriere della sera). Schultz si é impegnato ad affrontare la questione quella stessa sera, durante la riunione dei Ventotto, promettendo sostegno e protezione, ed evidenziando che da gennaio a Lampedusa, un’isola di seimila abitanti, sono arrivati ‘centoquaranta barconi con tredicimila rifugiati‘. Il giorno seguente, venerdi 25 ottobre , di ritorno da Bruxelles, il premier Enrico Letta ha affermato che, finalmente, ‘dopo tanti anni di inconcepibile disattenzione’, il fenomeno degli sbarchi dei migranti provenienti dalle coste nord-africane é diventato ‘un problema europeo‘.
Il sindaco Giusi Nicolini, sostanzialmente, ha messo in discussione tre importanti capisaldi che riguardano il fenomeno dell’immigrazione: il regolamento di Dublino (che concerne la gestione burocratica delle richieste d’asilo), l’operazione Frontex e Mare nostrum (che riguardano il pattugliamento e i salvataggi in mare) nonché la legge Bossi-Fini (che, in linea di principio, intende la mancanza di un permesso di soggiorno come una situazione non regolarizzabile, salvo sporadiche sanatorie, e quindi suscettibile a espulsione immediata oppure a provvedimenti penali).
Il regolamento di Dublino II, adottato nel 2003, sostituisce la precedente convenzione di Dublino (entrata in vigore nel 1990) e mira a determinare lo stato membro competente per esaminare una richiesta di asilo. Solitamente tale stato competente é quello (ovviamente firmatario del regolamento) in cui il richiedente é entrato per primo e quindi, di conseguenza, i settori di confine, come le coste italiane, sono gravate dall’impossibilità di gestire il fenomeno. Non tutte richieste d’asilo vengono prese in considerazione (solo il 27% si conclude con un trasferimento effettivo). Nel 2011 le autorità italiane hanno ricevuto 37.350 richieste di asilo, in un sistema che può però alloggiare solo tremila persone. Il consiglio europeo per i rifugiati ed esuli (ECRE) nonché l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) hanno evidenziato che a volte il regolamento di Dublino infligge ancora più sofferenza a chi ne ha già tanta alle spalle.
A volte le famiglie vengono divise, come nel caso di un ceceno che è stato separato dalla moglie e dal suo bambino di pochi giorni. A questi ultimi era infatti stato riconosciuto lo status di rifugiati in Austria, laddove il padre era stato ‘rispedito’ in Polonia, il primo paese UE in cui era entrato. Come se non bastasse, le autorità austriache si sono poi opposte al trasferimento della moglie e del bambino in Polonia. In nove paesi su undici richiedenti diritto d’asilo vengono tenuti in stato di detenzione (per il tempo di una procedura burocratica che richiede almeno sei mesi) o senza adeguati mezzi di sostentamento, o senza ottimali condizioni igieniche, o senza appropriate cure mediche. Lo status di persona vulnerabile, o con speciali necessità, non viene sempre preso in considerazione. Il richiedente è anche spesso assai disinformato sui criteri del regolamento stesso, ufficialmente per via della mancanza di traduttori, ma in realtà per mancanza di buona volontà, poiché molti immigrati, dato il passato coloniale del loro paese d’origine (e anche dato il fatto che il loro livello culturale non é affatto sottovalutabile) parlano anche lingue europee, come ad esempio il francese. Se verrà approvato il regolamento di Dublino III, verrà introdotto il diritto ad un colloquio personale, ma non sono stati ancora contemplati, a quanto pare, altri miglioramenti nell’ambito di un sistema emergenziale lacunoso, che solo le organizzazioni umanitarie riescono in qualche modo a colmare.
La legge n. 189 della Repubblica Italiana, denominata Bossi- Fini (datata 30 luglio 2002), e che prende il nome dai suoi due primi firmatari, ammette, in linea di principio, i respingimenti dei barconi provenienti dall’Africa in acque internazionali, violando quindi pienamente il principio del non refoulement, in base al al quale non si possono rimpatriare forzatamente coloro che fuggono da paesi che violano pesantemente i diritti umani. Questi imbarchi della disperazione, che partono dalle coste settentrionali dell’Africa, ma che molto spesso hanno alle spalle anche un faticosissimo viaggio attraverso il Sahara, sono spesso organizzati da dei malavitosi (i cosiddetti scafisti), a volte anche collusi con la polizia locale, che ammassano centinaia di persone (ivi inclusi donne incinte, neonati e bambini) su navi di scarsissima qualità e sicurezza (le cosiddette ‘carrette del mare‘) in cambio di laute somme di denaro. Tutto ciò avviene per essere proiettati non verso una certezza, e forse nemmeno verso una concreta speranza, se non quella di riuscire ad attraccare sull’altra sponda del Mediterraneo senza dover morire in precedenza in mare, casomai anche a pochi chilometri dalla costa, e a causa non solo di calamità naturali o accidentali, ma soprattutto a causa di una legge che, contravvenendo all’obbligo di soccorso, preferisce favoreggiare la morte di altri esseri umani piuttosto che il loro avvicinamento alla frontiera. Se almeno 12012 tra uomini, donne e bambine hanno perso la vita tentando di raggiungere l’Europa la colpa non è solo di imbarcazioni di fortuna, ma anche e soprattutto di una mancanza di solidarietà che é stata legalizzata (conferendo un significato politico ad una questione universalmente etica, morale, umanitaria). La sentenza del 5 luglio 2010 ha riconosciuto che la clandestinità non può essere un’aggravante di altri reati, poiché essa non descrive, di per sé, una propensione alla malintenzionalità che può sussistere anche in chi clandestino non é.
La legge Bossi-Fini prevede anche l’espulsione immediata, con accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica, oppure la detenzione da uno a quattro anni (sentenza del 22/2007) dello straniero clandestino che ha varcato il confine illecitamente (ad esempio nascosto nella stiva di un’imbarcazione regolare) oppure che non è a posto con i documenti. Il permesso di soggiorno puo’ essere emesso, oltre a chi ha lo status di rifugiato, solo a chi dimostra di avere già un lavoro. Poiché la maggior parte dei clandestini (ben il 60 per cento nel 2005) sono overstayers, ovvero persone a cui il precedente visto è scaduto, e sono rimaste in suolo straniero oltre i tempi previsti, un risultato della Bossi-Fini è quello di creare individui socialmente deboli e facilmente ricattabili, ed esposti non solo ai tentacoli della criminalità, ma anche di approfittatori che offrono occupazioni sottopagate in nero, che gravano poi (data la concorrenza e l’assenza di trasparenza sul piano fiscale) anche su coloro che invece lavorano regolarmente. Espellere il clandestino non esclude poi il fatto che, nel giro di breve tempo, si ripresenti alla frontiera, incurante dei risvolti penali della questione (che certamente lo spaventano meno delle circostanze oppressive da cui sta fuggendo) e reduce da un altro disperato viaggio. Sotto questo punto di vista, quindi, la legge Bossi-Fini finisce per favorire quegli stessi scafisti che si propone, allo stesso tempo, di punire.
Le sanatorie sono soprattutto rivolte a chi svolge il lavoro di colf oppure di badante (figure indispensabili a una società che non ha più tempo o voglia di occuparsi della casa e/o dei suoi cari), creando quindi una sorta di ‘ghettizzazione occupazionale‘. Per chi vorrebbe invece svolgere un lavoro diverso, la Bossi-Fini non offre, in linea di massima, la possibilità di regolarizzare la propria condizione, e quindi il clandestino viene costretto, a maggior ragione, a ‘nascondersi‘, a rendersi invisibile, con anche il pericolo che perfino i suoi figli non vengano adeguatamente tutelati dai servizi sanitari, sociali e scolastici, contravvenendo quindi alla convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia. Concedere un permesso almeno temporaneo al clandestino (sempre ovviamente a patto che non sia socialmente pericoloso) significherebbe quindi dargli la possibilità di trovare sia un impiego che un alloggio per vie legali, e permettergli di avere un contatto più diretto con le istituzioni. La stessa identificazione del soggetto, in assenza di documenti validi, diventa assai complicata, ed un’algida rilevazione delle impronte digitali (oltre a non dire nulla sulle essenziali informazioni anagrafiche e sui trascorsi di una persona) non incoraggia certamente le spontanee dichiarazioni che avverrebbero in un clima di comprensiva accoglienza.
Gli immigation offices degli Stati Uniti sono tristemente famosi per la severità nei riguardi dei cosiddetti ‘alieni‘ (il film di Crialese Nuovomondo ritrae perfettamente le umiliazioni che gli immigrati anche italiani, all’inizio del novecento, dovettero subire in un paese che la forza lavoro straniera la richiedeva e sulla quale costruisce tuttora la propria ricchezza). Purtuttavia, la cosiddetta ‘politica delle quote‘ (che viene applicata, ad esempio, nelle aziende) parte dal presupposto che a ogni gruppo etnico spetti una ben precisa percentuale di posti di lavoro, e quindi il concetto di integrazione culturale diventa quasi una questione di principio, se non addirittura un motivo di vanto. Quando il ministro Kyenge, che spera in una costruttiva modifica della Bossi-Fini, afferma che ‘bisogna andare oltre le etichette e guardare alla persona‘ probabilmente si augura che gli immigrati non vengano più valutati in base alla provenienza o al colore della pelle, bensì tenendo conto, oltre all’ovvio rispetto delle leggi, delle loro capacità (sia manuali che intellettuali), del loro livello di scolarizzazione (prendendo in considerazione anche i titoli di studio emessi nei paesi di origine), del loro desiderio di migliorarsi ulteriormente.
Le operazioni frontex e mare nostrum coinvolgono le forze dell’ordine nel controllo dei flussi migratori via mare, effettuando interventi di sorveglianza e di soccorso. Se da un lato bisogna recuperare i naufraghi, dall’altro ci vorrebbe un’azione congiunta con le coste dell’Africa settentrionale, in particolare con la Libia, o con i territori più a meridione dai quali partono. Per fare ciò, bisognerebbe iniziare a non considerare le sponde del Mediterraneo come mondi separati, ma come un circuito collaborativo. Bisognerebbe, idealisticamente, far sì che il Mediterraneo, più che un percorso periglioso ed invalicabile, facesse da agevole cerniera, un pò come avvenne ai tempi di Cartagine o di Alessandria d’Egitto, fra il continente africano e l’Europa nel suo insieme. La Svezia, che da settembre ha concesso un visto permamente ai fuggiaschi siriani, ha forse compreso questo concetto assai più di chi con la Siria condivide le coste del Mediterraneo.
Italo Calvino, nel suo racconto ‘Il sangue, il mare‘, che fa parte dell’opera Ti con zero, descrive le condizioni di quando gli organismi, ancora allo stato primordiale, venivano nutrite dagli oceani nello stesso modo in cui le nostre cellule vengono ossigenate dal sangue. Finché l’acqua marina poté scorrere all’interno di strutture cave, il sostentamento degli esseri viventi fu possibile anche senza un sistema circolatorio interno, ma quando quest’ultimo si formò, e nacque quindi anche la vita terrestre, il comune e condiviso mare delle origini venne racchiuso dentro di noi, diventando quindi una sorta di ‘proprietà esclusiva‘. Con l’avvento della cosiddetta ‘civiltà‘, il mare al di fuori di noi diventa solo il sangue sparso a causa dell’altrui cinismo ed indifferenza. Come si é quindi sempre lottato per avere a disposizione la più ampia porzione di mare, analogamente si é sempre combattuto per far prevalere il proprio sangue su quello degli altri. Se ciò non avvenisse, non solo il mare sarebbe davvero nostrum, ma anche quel senso di superiorità, che fa sentire una razza ‘migliore‘ rispetto ad un’altra, non esisterebbe.