Il fil rouge tra il terremoto de L’Aquila del 1703 con quello del 6 aprile 2009
2 febbraio 1703, il più intenso terremoto della storia moderna si abbatté sull’Italia centro-meridionale. L’onda sismica più travolgente a memoria per via dell’estensione territoriale e per la devastazione che ne seguì. La prima avvisaglia fu avvertita dalla popolazione cinque mesi prima, il 14 ottobre 1702. Scosse violentissime si susseguirono minacciose: le principali si ebbero il 14, il 16 gennaio e il 2 febbraio, investendo un’area di 68.000 kmq. dall’Emilia Romagna alla Campania. Ne risentirono persino, seppure lievemente, la Lombardia e parte delle Venezie. Nell’Italia centrale, il sisma varcò i confini dell’Umbria, del Lazio settentrionale e del reatino. Diversi comuni furono letteralmente “spianati” (Albeto, Albaneto, Accumuli, Borbona, Belvedere, Chiavano, Cittareale, Colle Santo Stefano, Leonessa, Mevale, Posta, Tramezzo, Trognano, Valcaldara, etc.). La scossa del 2 febbraio, “in una giornata limpida e calma, benché il suolo coverto di neve”, con epicentro compreso fra Onna e Paganica, alle ore 11:05, X° grado della scala Mercalli, nel giorno della Purificazione della Vergine, procurò 3.000 morti con circa 2.000 feriti. Si stimò un totale di oltre 6.000 morti. Ma in base ai resoconti redatti sia dallo Stato Pontificio che dal Regno di Napoli, quest’ultimo informato da una relazione di un magistrato de L’Aquila, pare che i decessi fossero 9.761, di cui 2.067 in Umbria e 7.694 in Abruzzo, i feriti circa 1.136. Gran parte del L’Aquila venne distrutta. Nel 1663 erano stati censiti più di 3.606 fuochi (componenti nucleo famigliare), mentre nel 1712 ne esistevano appena 670 a dimostrazione di quanto stentasse la ripresa nella città a distanza di quasi dieci anni.
Mario Baratta, professore di Geofisica dell’Università di Pavia ed insigne sismologo, rilevò che i danni più gravi riguardarono le località di Roio, Lucoli, Paganica, Onna, Bazzano, Coppito, Aragno, Assergi, Cagnano Amiterno, Camarda, Civita Tomassa, Barete, Barisciano, San Nicandro, Fagnano, San Demetrio ne’ Vestini. Dalle sue ricerche, leggiamo: «Abbiamo ripetutamente detto che in occasione dei grandi terremoti umbro-abruzzesi del 1703 L’Aquila ebbe a soffrire pochi danni per la prima grande scossa (14 gennaio alle ore 18:00), maggiori per la seconda (16 gennaio alle ore 16:30) e grandissimi per la terza (2 febbraio alle 11:05), che distrusse quasi completamente la città causando oltre 2.500 vittime e mise a soqquadro la regione circostante.»
La scossa, la terza, sventuratamente, sorprese molti cittadini raccolti nella chiesa di san Domenico per il rito della Candelora. Le vittime furono 600 a causa della caduta delle capriate del tetto. In città il 35% degli edifici crollò. Vennero devastati interi quartieri. Della chiesa di san Bernardino il sisma risparmiò il coro, la facciata e le mura perimetrali, mentre la cattedrale di san Massimo e san Giorgio, sant’Agostino, san Francesco, san Pietro a Coppito, santa Maria di Roio e san Quinziano subirono pesantissimi danni alle torri campanarie. Dalla scossa del 2 febbraio lo sciame perdurò per ben 22 ore. La situazione precipitò per le scosse del 1 marzo, del 5 aprile e 29 giugno. La terra sussultò per un lunghissimo periodo, risalendo la dorsale appenninica, ancora fino al 1705. La popolazione terrorizzata e sfiancata dall’avvicendarsi ininterrotto dell’attività tellurica, malgrado la volontà di resistere e la forza d’animo manifestata nel riedificare la città de L’Aquila, non poté fare a meno d’abbandonarla, migrando in zone non interessate dal sisma. Ma la città di Federico II non doveva morire. Pertanto, per volontà di papa Clemente XI, si avviò un progetto di ripopolazione. Alla rinascita, si racconta, contribuirono preti e suore i quali dispensati dal papa del sacro vincolo di castità e ridotti allo stato laicale, ridettero con il loro esempio una primo impulso alla rinascita. In alcune cronache dell’epoca è scritto: «Il giorno due febraro, festa della Purificazione di Maria Sempre Vergine Nostra Signora, su l’ore diciotto e mezza, celebrandosi l’ultima messa per la funzione della distribuzione delle Candele, si fece di nuovo sentire nella medesima città de L’Aquila con treplicate scosse il Terremoto, e danneggiò a segno in un Miserere […] Nel Tempio di san Domenico, ove si faceva la Communione Generale, in quella mattina morirono da ottocento persone, e all’ingrosso si fa il conto che perissero in quella Città più di tremila abitanti, ed è impossibile che quel luogo possa risorgere.»
In realtà, per volontà di cittadini illuminati,come il vescovo Domenico Tagliatatela, ci si risolse diversamente rispetto al pessimismo del cronista. E’ evidente in un’altra nota, datata 10 maggio 1703: «Si animarono gli smarriti Cittadini rendendoli coraggiosi à non dishabitare la loro Patria, come avevano principiato a fare alcune famiglie. Fu creato il governo della Città, in luogo degli estinti del tremuoto. Si aprirono alcune strade più principali al commercio, buttando a terra l’avanzo delle muraglie, che minacciavano morte a’ passegieri.» Insomma, la situazione economica, urbanistica e demografica del 1703 era di una gravità estrema: già ampiamente provate dall’epidemia e dalla carestia del 1656. Si pensi che dalla terra esalavano miasmi malsani e l’acqua dei pozzi gorgogliava a causa dei gas. In un quadro dai contorni tanto desolanti, l’8 febbraio, da Napoli, Don Giovanni M. Fernandez Pacheco, marchese di Vigliena, Viceré del regno di Napoli, inviò il marchese della Rocca don Marco Garofalo (il Bertolaso dell’epoca), in qualità di Vicario Generale degli Abruzzi, per “dar tutti li agiuti e ripari che convengano”, in collaborazione con il regio ingegnere Lucantonio Natale, tenente generale d’artiglieria, incaricato di risistemare il Forte Spagnolo.
Garofalo fu uomo pragmatico. Sin dal 12 febbraio emanò il primo bando: «Coprifuoco a due ore di notte, obbligo del lume già da un’ora prima, dieci giorni di galera ai ladri». Avviò una serie di iniziative, anche scontrandosi col potere centrale austriaco. Cercò di ristabilire un minimo di ordine pubblico e d’evitare l’esodo della popolazione soprattutto verso i territori sotto la giurisdizione dello Stato Pontificio. Ad otto mesi dal sisma, raccomandò d’allentare la pressione fiscale a seconda della gravità dei danni riportati dagli abitanti e per singole zone: 10 anni a L’Aquila, 8 per Pizzoli, 7 Castelnuovo, 6 Arischia… La sua tenacia venne premiata. Malgrado gli sforzi del Vicario Generale, non ci fu un’altrettanta solerte risposta da parte del potere centrale. Quest’ultimo si limitò a quella esenzione, che ebbe l’effetto di attirare gente delle più disparate province allettata dai privilegi fiscali. La ricostruzione degli acquedotti, che avvenne soltanto a partire dall’aprile del 1710, ci fa comprendere con quanta lentezza si procedette nella sistemazione della città. A distanza di dieci anni dal terremoto permanevano ancora numerosissime abitazioni e botteghe inagibili, con una popolazione di appena 2.684 abitanti. Dall’esame dei documenti derivanti dal Catasto Onciario de L’Aquila, effettuato da Francesco Marconi, emerge la farraginosità del processo di normalizzazione del capoluogo abruzzese. Sugli effetti di terremoti simili, non è difficile rintracciare ciò che rimane nella psicologia, nella mentalità, nei comportamenti e negli usi delle popolazioni sinistrate, ciò ad evidenziare quanto la paura abbia influito sulla cultura collettiva e quali deterrenti si adottarono per rimuoverla. Ciò che un tempo veniva attribuito alla divinità oggi è semplicemente considerato un evento naturale. Ma allora fortissima fu la connotazione di strumento punitivo o vendicativo con cui, nella credenza popolare, si manifestava la volontà di Dio: il timor sacro richiamava alla memoria fantasmi apocalittici. Nel corso del Medioevo, Dio assurge a giudice delle azioni umane.
Il culto di san Filippo Neri, ad esempio, crebbe nella comunità oratoriana di Norcia dopo che questa si salvò miracolosamente pur investita dal crollo della casa che la ospitava. La devozione per sant’Emidio, protettore dei terremoti, nasce proprio nel 1703 e, a differenza del culto patronale, non è assoggettato ai limiti del territorio diocesano. Infatti, a L’Aquila, e nei territori limitrofi, si radicò il culto “antisismico” emidiano, rimasto inalterato sino ai giorni nostri. Come è di agevole intuizione, ecco dunque delineato per sommi capi il fil rouge tra il terremoto del 1703 con quello del 6 aprile 2009, che per le tante manifestazioni ed evoluzioni lo ricalca esattamente. Analizzando la mappa che Mario Baratta ricostruì del terremoto del 1703 si evince quanto il sisma del 2009 abbia avuto l’identico, funesto, impietoso itinerario del precedente.