Maria Montessori: più che un metodo, un Ideale

Pubblicato il 5 Apr 2023 - 8:55am di Emilia Abbo

In quest’ epoca in cui le guerre e le morti nel Mar Mediterraneo dimostrano che il mondo sorvola tristemente sui diritti dei bambini, che portano in sé il germe della futura umanità, ho ritenuto necessario  soffermarmi sulla vita, sul metodo e sulla filosofia pedagogica di Maria Montessori.

Chi era Maria Montessori

Maria Montessori nasce nel 1870 a Chiaravalle, in provincia di Ancona, da una famiglia medio-borghese. Il padre, ferrarese, aveva lavorato nelle saline di Comacchio e la madre, marchigiana, conobbe il marito quando venne trasferito a Chiaravalle, prima di essere destinato a Firenze e poi a Roma.  Nel 1883 Maria decise di iscriversi alla ‘Regia scuola tecnica’, anche se non era ritenuta adatta ad una ragazza. All’inizio voleva diventare ingegnere, poi cambiò idea e decise di studiare medicina. Le autorità accademiche, tuttavia,  le negarono l’ accesso poichè occorreva il diploma di maturità classica. Maria si iscrisse allora alla facoltà di scienze naturali che l’abilitò ad iscriversi, dopo due anni, al terzo anno di medicina. Doveva svolgere le lezioni di anatomia di notte, poichè era ritenuto sconveniente che studiasse  questa materia con dei colleghi di sesso maschile. Nel 1896 Maria divenne la terza donna italiana a laurearsi in medicina, con una tesi in neuropsichiatria.

Dopo la laurea Maria divenne assistente presso la clinica psichiatrica dell’università di Roma, dove si dedicò al recupero di bambini con problemi mentali. Qui lavorava anche un suo ex-professore,  Giuseppe Ferruccio Montesano, considerato uno dei fondatori della psicologia e della neuropsichiatria infantile. I due si innamorarono, ma la famiglia di lui (in particolare la madre, una duchessa) osteggiò il matrimonio, anche quando seppe che Maria era in attesa di un bambino. Per questa ragione sia la relazione che la gravidanza vennero mantenute segrete. Anche se entrambi erano liberi, i tempi erano tali che bastava non essere sposati per creare uno scandalo, che si sarebbe ripercosso anche sulle loro carriere lavorative.  Il 10 marzo 1898 nacque il piccolo Mario, che venne dato in affidamento ad una famiglia di Vicovaro (un paesino laziale). Quando Maria apprese che il padre del bambino si sarebbe sposato con un’altra donna, decise di interrompere ogni contatto con lui e, da quel momento, si vestì sempre di nero, come se portasse il lutto. Maria andava spesso a trovare il figlio e lo fece anche iscrivere in un collegio, tuttavia non gli rivelò la sua vera identità nemmeno quando la madre affidataria, Vittoria Pasquali, morì e Maria lo riprese con sè. Quando questo avvenne, il ragazzo aveva quattordici  anni e pensò che Maria fosse sua zia. Divenne anche lui un pedagogo e collaboratore di Maria, seguendola anche nei suoi viaggi. Solo nel testamento, Maria rivelò a Mario di essere la sua vera madre.

Il primo impiego di Maria si svolse, dunque, presso la clinica psichiatrica dell’università di Roma. Iniziò un progetto educativo con dei bambini cosiddetti ‘frenastenici’, che erano rinchiusi fra le mura di Santa Maria della Pietà. Maria insegnò loro a leggere e a scrivere, poi li fece presentare all’esame di quinta elementare, che superarono brillantemente. Pertanto, giunse alla conclusione che bastava essere un bambino povero e trascurato, appartenente alla classe proletaria,  per venir ritenuto insano di mente. Maria sapeva anche che la diffusione di malattie come la tubercolosi o la malaria non era imputabile all’incapacità della scienza medica, ma ad una situazione di degrado che solo il governo avrebbe potuto prevenire e debellare.  C’era quindi alla base un problema sociale,  fatto di isolamento e senza un ambiente igienico ed idoneo all’apprendimento. Ma non solo. La scuola puniva i bambini fino all’espulsione, col rischio che finissero in strada e diventassero dei piccoli delinquenti.

In questo periodo Maria si appassionò alla letteratura scientifica francese e, nello specifico, agli esperimenti di Jean Marc Itard (1765-1835), che aveva tentato di rieducare un bambino selvaggio cresciuto in mezzo agli animali, ed anche aiutato i bambini sordi a recuperare l’udito applicando metodi educativi che prescindevano da cure mediche.  Si interessò anche agli studi di un collaboratore di Itard, Edouard Séguin (1812-1880), che cercava di inserire nella società, sempre attraverso un percorso educativo, dei bambini con disabilità intellettiva. Seguin parlò anche della tipologia del maestro, che non doveva solo ‘travasare nozioni’, ma presentarsi come una persona affascinante, curando sia la gestualità che la modulazione della voce, non diversamente dai ‘grandi artisti drammatici’ (3, p.28). Inoltre, quando si poneva dinanzi a bambini con disabilità intellettiva, doveva evitare ‘giochi e discorsi buffoneschi’, ma sfoderare una forma di rispetto che si traduceva col ‘saper chiamare entro l’anima del fanciullo l’uomo che vi era assopito’ (5, p. 28).

Nel 1907, grazie al contributo dei baroni Alice e Leopoldo Franchetti (che conobbero Maria tramite la scrittrice Sibilla Aleramo) venne aperta la prima Casa dei Bambini nell’allora  povero e degradato quartiere San Lorenzo, in via dei Marsi 53. La caratteristica della Casa dei Bambini era il fatto che la scuola si trovava nello stesso edificio in cui i piccoli allievi abitavano. Le madri potevano quindi affidare i loro piccoli alla ‘direttrice’ (così era chiamata la maestra) ed andare a lavorare. Potevano anche avere la possibilità di ordinare pasti pronti e quindi di alleggerire i doveri domestici. La Montessori era pertanto dalla parte dei bambini ma anche delle donne, che voleva affrancare da ogni forma di servilismo:

“Ella sarà, come l’uomo, un individuo umano libero, un lavoratore sociale e, come l’uomo, cercherà il benessere e il riposo nella casa rinnovata e riformata.” (5, p.372)

Non a caso, il quadro di Raffaello ‘La Madonna della Seggiola’, che per la Montessori rappresentava l’elevazione materna, venne scelto come emblema nelle case dei bambini.

Una condizione importante era però quella che vi fosse una collaborazione fra scuola e famiglia, ovvero che quest’ultima non vanificasse, bensì coadiuvasse, l’opera educativa svolta in aula. A tal proposito, i genitori  dovevano, in primo luogo, mandare a scuola i bambini puliti ed ordinati.  Maria aveva conseguito, nel frattempo, anche una seconda laurea in filosofia e, due anni dopo, pubblicò l’opera Il metodo della pedagogia scientifica , che ebbe un gran riscontro anche all’estero. Quando, nel 1913, giunse negli Stati Uniti, il New York Tribune la definì ‘la donna più interessante d’Europa’. Durante il primo conflitto mondiale Maria soggiornò in Spagna, dove rimase fino al 1924. Poco dopo il ritorno in Italia, il fascismo iniziò a remarle contro. La prima accusa, che partì da Giuseppe Lombardo Radice (il direttore generale per il settore educativo), fu quella di aver soltanto scopiazzato Rosa e Carolina Agazzi, le due sorelle bresciane che avrebbero creato un metodo davvero ‘italiano’.

Nonostante ciò, Maria nel 1926 riuscì lo stesso ad organizzare il primo corso di formazione nazionale per oltre cento insegnanti che volevano adottare il suo metodo. Questo corso, che si tenne a Milano, durò sei mesi e Mussolini, per esercitarne il controllo, fu presidente onorario. Nel 1934, quando il duce si legò ad Hitler, venne ordinata la chiusura delle scuole Montessori sia in Italia che in Germania. L’anno precedente era uscito il libro La pace e l’educazione, che venne bandito dal regime. Anche la Regia scuola triennale del metodo Montessori, che a Roma formava i maestri dal 1928, venne chiusa. A questo punto, nel 1934, Maria ed il figlio lasciarono l’Italia. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale i due erano in India, ma furono imprigionati, poichè cittadini di un paese nemico dell’Inghilterra, e rilasciati solo nel 1944. Quando tornarono in Italia, nel 1947, l’Opera Nazionale Montessori si ricostituì, anche se la gestione, a causa di problemi finanziari, fu commissariata fino al 1986. Nel 1951 Maria si trovava in Olanda, a casa di amici, ed era sua intenzione andare in Ghana, dove era stato richiesto il suo aiuto per riorganizzare il sistema scolastico. Tuttavia, questo viaggio non lo svolse mai, poichè morì il 6 maggio 1952 a Noordwijk, dove venne anche sepolta. Sulla sua tomba furono incise queste parole: ‘Io prego i cari bambini, che possono tutto, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo’.

Pensiero filosofico di Maria Montessori  e metodo educativo nella Casa dei Bambini

La Montessori era convinta che una società migliore (ad esempio, senza guerre) si poteva costruire non cercando di cambiare gli uomini, ma agendo sui bambini:

“Il bambino è costruttore dell’uomo, e non esiste uomo che non sia stato formato dal bambino che era una volta.” (4, p.14)

Secondo Maria Montessori il bambino, fin dalla nascita, era un ‘embrione spirituale’, che portava in sé ‘la bellezza e la dignità dello spirito creatore’ (2, p.53). Essendo dotato di energia psichica, non doveva essere accudito solo nel corpo, ma anche nella mente. Questa idea sembra un po’ richiamare un suo contemporaneo,  il Dott. Edward Bach, padre della floriterapia, il quale, in un articolo del 1930, scriveva:

“Il corpo solo, senza la comunione con lo Spirituale, è un guscio vuoto, un tappo di sughero in mezzo alle acque. <…> La nostra evoluzione è cominciata da neonati, quando non avevamo conoscenza” (E. Bach, Le opere complete , Ed Macro, p.221)

Il bambino si relaziona, fino ai sei anni, con l’ambiente esterno attraverso i cinque sensi. La sua mente è detta ‘assorbente’, poiché recepisce molti stimoli e, di conseguenza, prima che sia troppo tardi, è molto importante dar valore, e nel modo giusto, a questa prima fase della vita, che è la ‘fucina delle predisposizioni’, da cui dipende la futura salute sia fisica che mentale:

“Se il bambino, sin dalla prima infanzia, prova repulsione per l’ambiente, che dovrebbe essere il mezzo del suo sviluppo, il bambino non si sviluppa normalmente.” (4, p.78)

L’importanza dell’ambiente si manifestava fin dal primo vagito. La nascita era intesa come il faticoso cammino di un pellegrino, che doveva adattarsi ad un nuova realtà. Il neonato doveva rimanere accanto alla madre, il più possibile al riparo da luci e rumori. Doveva stare in un luogo caldo ed indossare una camiciola leggera,laddove veniva invece fasciato, addobbato con trine e merletti, sollevato dalla culla e passato da braccia in braccia, esibito con orgoglio da mani impazienti di notare dettagli ed assomiglianze.

Anche quando iniziava a camminare da solo, il bambino era sottoposto a nuove costrizioni, come, ad esempio, quella di non poter toccare nulla dalla paura che qualcosa di fragile potesse rompersi. La Montessori si chiedeva come mai quello che sarebbe stato perdonato con indulgenza ad un ospite distratto, veniva invece rimproverato al bambino, che aveva bisogno di esplorare, anche col tatto, il mondo intorno a sé. Muoversi da soli era un segno di autonomia, non diversamente dallo svezzamento o dal cominciare ad esprimere i propri bisogni attraverso il linguaggio. Pertanto, inibire il movimento equivaleva tanto a sopprimere la naturale curiosità del bambino quanto ad intralciare il suo sano percorso verso l’indipendenza.

Quando il bambino faceva il suo ingresso  a scuola, la situazione non migliorava di molto, poiché era costretto a stare per ore seduto al banco, in una postura tanto imposta quanto nociva:

 “La colonna vertebrale, che potè resistere senza piegarsi alle lotte più aspre dell’uomo primitivo e civile, quand’egli combattè contro i leoni del deserto, quando soggiogò i mammouth, quando scavò la pietra, quando piegò il ferro, quando sottopose la terra al suo dominio, non resiste, e si piega, sotto il giogo della scuola.” (5, p.12)

Il bambino ‘inchiodato’ al banco, costretto ad ascoltare nozioni che gli vengono inculcate, viene perfino paragonato ad un piccolo Cristo crocefisso e vessato:

 “Eccolo, il bambino nel banco, sotto gli sguardi severi che obbligano i due piedini e le due manine a star ferme immobili, appoggiate sul banco, come i chiodi di Cristo costringevano il corpo di lui nell’immobilità della croce. E quando in quella mente assetata di sapere e di verità si saranno introdotte le linee dell’insegnante, che le fa penetrare a forza o nel modo che meglio crede, la piccola testa umiliata dalla sottomissione sembrerà sanguinare come per una corona di spine.” (3, p.306).

La Montessori, forse, scelse un paragone così estremo ed incisivo poiché il rifiutarsi di stare fermi ed immobili veniva perfino identificato con il ‘male’ in una fase in cui il bimbo non era nemmeno in grado di cogliere il significato di questa parola. Non c’era nulla di sbagliato nello scegliere un comodo cantuccio all’interno dell’aula, sistemandosi su un morbido tappetino, piuttosto che ricorrere al busto o al banco ortopedico. Il movimento preveniva semmai vizi come l’accidia ed impediva il diventare passivi, apatici, procrastinatori o deleganti.

A livello pedagogico, il movimento, in quanto atto volontario, era strettamente legato all’ intelligenza del bambino. Pertanto, costringerlo all’ immobilità significava non solo inibire lo sviluppo dei suoi muscoli, ma anche della sua attività cerebrale. Il bimbo poteva quindi, spontaneamente, scegliere un’ attività pratica (come, ad esempio,il classico incastro di cilindri di diversa dimensione in spazi appositi) che avrebbe permesso l’uso della mano, ritenuta “lo strumento della personalità, l’organo dell’intelligenza e della volontà individuale” (3, p. 262).

Nella Casa dei Bambini muoversi non equivaleva a disordine scomposto, ma semmai a giungere all’autocontrollo, ad un tipo di disciplina che nasceva da un moto interiore, da una forma di autoconsapevolezza. Il bambino imparava, pian piano, e correggendosi da solo,a muoversi con grazia,equilibrio e compostezza. Poteva ‘allenarsi’ a trasportare un piccolo vassoio aggirando gli ostacoli, a portare un bicchiere d’acqua senza farne cadere una goccia, ad apparecchiare la tavola con doviziosa armonia. Muoversi non significava andare ‘a caso’ ed in maniera scoordinata, ma fare qualcosa con una finalità ben precisa. Significava attivarsi ma anche fermarsi, sempre con un esercizio della volontà, per rispettare certe regole di comportamento, come aiutare qualcuno, cedere il passo, salutare con educazione. Il movimento, accompagnato a semplici e ritmiche coreografie, era anche una preparazione al senso musicale.

Il bambino tendeva a ripetere le sue attività pratiche per perfezionarsi, ed in questo processo non doveva mai essere interrotto. Bisognava quindi rispettare i suoi tempi, non pretendendo di sostituirsi a lui ‘per fare prima’:

‘Ogni bambino che sa badare a se stesso, che sa mettersi le scarpe, vestirsi e spogliarsi da solo, rispecchia nella sua gioia e nella sua allegria un riflesso di dignità umana. Poiché la dignità umana deriva dal sentimento della propria indipendenza” (2, p.58)

La Montessori racconta l’aneddoto di un bambino che venne interrotto mentre stava raccogliendo dei sassolini in un parco, per metterli in un cestello. La mamma pensò bene di portare a casa il cestello pieno,  ma il bimbo continuò a piangere, perché ciò che lo divertiva non era l’idea di avere i sassolini, ma l’atto stesso di riempire il suo cestello, che lo faceva sentire realizzato tanto quanto sentirsi circondato d’affetto.

Quando il bambino si sentiva responsabilizzato, immerso in attività che avevano una finalità pratica, non c’era nemmeno bisogno di premiarli. I premi servivano, più che altro, a chi non provava un vero interesse in quel che stava facendo, e quindi cercava altre forme di gratificazione. I premi erano un modo per distrarsi, per consolarsi da una realtà noiosa e frustrante. Erano un modo per evadere nel mondo della fantasia, un mondo alternativo a quello in cui invece bisognava prepararsi a vivere. Quando il bambino ripeteva le sue attività pratiche, non lo faceva in maniera automatica, come un robot, ma per migliorarsi, per controllare i suoi errori. Viveva l’apprendimento come una divertente sfida, che lo entusiasmava più di qualsiasi bel voto o promozione. Si sentiva un po’ come colui che, amando il suo lavoro, lo avrebbe svolto anche senza retribuzione. I premi si applicavano soprattutto a chi necessitava un incentivo per funzionare e sentirsi vivo, un po’ come una macchina che ha bisogno dell’olio per carburare. Promettere un giocattolo o un dolciume in cambio di qualcos’ altro era, in fin dei conti, soltanto una piccola forma di corruzione, che fomentava qualità negative, come l’arrivismo, l’egocentrismo, la mancanza di vera forza interiore.

“Se durante l’intero  periodo dell’educazione la rivalità, l’emulazione, l’ambizione sono state incoraggiate, come aspettarci che la gente cresciuta in tale atmosfera sia buona a venti o trenta, solo perché qualcuno predica la bontà?” (4, p. 237)

Questo concetto viene illustrato anche col vivo paragone dell’esercito dei giganti, che combatte solo per avere onorificenze come spalline  e medaglie, e viene per questo sconfitto ‘da un manipolo di pigmei infiammati di amor di patria’ (5, p.17)

Anche il castigo contava assai poco poichè la rettitudine non nasceva dal timore di essere sanzionati, ma da un’intima convinzione, da sani principi, da veri valori:

“La patria si regge perchè la maggior parte dei suoi impiegati è tale che resiste alla corruzione dei premi e dei castighi e s’impone quale corrente irresistibile di onestà” (5, p. 16).

Il giocattolo, in particolare, per la Montessori era un qualcosa fine a se stesso, che disperdeva infantilmente energia in un regno fatto solo di capricci e vane fantasticherie, laddove gli esercizi di vita pratica (come, ad esempio, asciugare i piatti e riporli belli lucidi nella credenza) facevano sentire il bambino davvero utile e con i piedi per terra. Questo non significava, si badi bene, che i giocattoli fossero banditi nella Casa dei Bambini. Si era semplicemente notato che se il bimbo si dedicava a qualche altra attività che lo metteva alla prova, facendolo sentire più grande ed importante, era lui il primo a rifiutarli. Il giocattolo si avvaleva di oggetti finti (finti neonati, finte stoviglie, finti animali, finte piante e via dicendo), che venivano presto rotti o messi da parte. Era un’illusoria riproduzione della realtà, che si prestava alla logica dell’ ‘usa e getta’, laddove il bambino aveva bisogno di elevarsi e di relazionarsi con ciò che nell’ambiente era vivo e vero, come ad esempio la natura.          

Il contatto con la natura veniva spesso percepito come pericoloso per i bambini, o comunque come necessitante di una soglia di attenzione alta da parte dei genitori. Idealmente il bambino avrebbe dovuto correre libero e scalzo sui prati, dormire all’ aperto, esporsi senza timore a venti e piogge, tuffarsi nell’acqua,  stare al sole. Anche se, comprensibilmente, tutto questo non era possibile, considerando i pericoli in cui poteva incorrere, era anche vero che la cosiddetta ‘società civilizzata’ creava (e crea, a maggior ragione, tuttora, nell’epoca digitalizzata) un bimbo sempre più fragile, pallido, timoroso. Il convenzionalismo, nello specifico, è descritto come ‘la bugia dello spirito che aiuta l’uomo ad adattarsi alle deviazioni organizzate della società” (3, p.247). Come non si poteva staccare il bimbo dalla mamma, così non si poteva tenerlo lontano da Madre Natura. Il primo segnale che il bimbo si stava estraniando in tal senso veniva dato dall’indifferenza che iniziava a provare per la sofferenza del mondo animale, che poteva anche trasformarsi in deliberata crudeltà:

“E li avete visti mai seri, affaccendati intorno al cadavere di un uccelletto caduto dal nido, correre avanti e indietro, raccontare, chiedere, agitarsi con una pena sincera? Ebbene, quelli sono i bambini che, nel prossimo periodo di degenerazione, potranno giungere fino a dar la caccia ai nidi” (5, p. 77)

I genitori, ancora oggi, portano i bambini a vedere spettacoli in cui gli animali sono prigionieri, come zoo, circhi, delfinari, pensando perfino che siano educativi. Ovviamente, nel rispetto per gli animali anche le tradizioni culturali giocano un ruolo, tanto che la Montessori fa l’esempio di un bambino indù che aiuta un insetto mutilato tracciandogli sulla sabbia una stradina col dito della mano.

I bambini comunque, ad ogni latitudine, amano la natura nei più piccoli dettagli, e questo li avvicina sia ai poeti che ai santi:

“Solo i poeti sentono il fascino di un fino rivoletto di acqua sorgiva tra i macigni, come lo sente il piccolo bambino, che si entusiasma e ride, e vuole fermarsi a toccarlo con la mano come per accarezzarlo. Nessuno che io sappia, fuori di S. Francesco, ha ammirato l’insetto modesto o il profumo di un’erbicciuola senza attrattive, come uno di questi piccolini.” (3, p. 76).

Nella Casa dei Bambini la natura non solo era osservata, ma anche ‘vissuta’ attraverso attività pratiche, come innaffiare i fiori, raccogliere piccole fragole, oppure racimolare diversi tipi di foglie secche. In questo modo, oltre ad imparare parole nuove, si ponevano le basi a più elaborate conoscenze biologiche.

La Montessori aveva notato che quando il bambino veniva ostacolato nel suo sviluppo, anche a causa delle costrizioni derivanti dal dover seguire ben precisi programmi scolastici,iniziava a manifestare segnali preoccupanti, come ad esempio il non voler condividere le sue cose con gli altri bambini. Iniziava ad accumulare giocattoli, a mettersi roba in tasca, a fare capricci, a dire bugie per coprire le sue marachelle, ad essere geloso ed anche goloso. Questo nasceva dal fatto che, oltre ad avvertire lo squilibrio di potere col mondo degli adulti, non poteva dedicarsi a qualcosa che davvero lo interessava, lo affascinava. L’interesse per gli oggetti materiali nasceva anche nel momento in cui, se rompeva qualcosa, tipo il classico vaso cinese, succedeva una tragedia. Il bimbo imparava presto a considerarsi una fonte di disturbo, capace solo di ‘fare danni’. La Montessori aveva lucidamente intuito, forse anche esagerando un po’, come spesso la scuola fosse un luogo tacitamente d’accordo col principale intento del genitore, che non era quello di agevolare lo spontaneo sviluppo del bambino, ma di domare il suo impulso vitale, affinchè tutti potessero starsene in santa pace:

“La scuola è un luogo di esilio a cui il bambino è condannato dall’adulto fino a quando non sia capace di vivere nel mondo senza dar fastidio.” (3, p.271)

Il genitore, se da una parte sognava un brillante futuro per la sua creatura, dall’altra rischiava di instillare complessi d’inferiorità con le sue sgridate e comportamenti svalutanti. Poteva, per ‘farlo stare buono’, giocare sulle sue paure (della serie ‘se non ubbidisci stanotte arriva il fantasma, l’uomo nero e via dicendo). Non sentendosi rispettato, il bambino poteva anche assumere meccanismi difensivi inconsci, come ad esempio disturbi del sonno o alimentari. Se il bambino infelice cercava i biscotti per mangiarli, quello felice vedeva invece nei biscotti delle forme geometriche da incastrare, da impilare o da spostare per imparare le operazioni aritmetiche. Un altro errore, che sopprimeva l’impulso vitale del bambino, era quello di metterlo a dormire troppo presto, talvolta perfino al tramonto, laddove sarebbe stato molto più indicato portarlo a vedere un bel cielo stellato al telescopio, con relativi pianeti e costellazioni.

Il bambino, anche se era una ‘cera molle’, doveva prendere forma naturalmente, senza essere plasmato, altrimenti rischiava di diventare un adulto caratterizzato ‘dal possesso, dal potere, dall’ipocrisia e dal monopolio’ (3, p.262). Dato per certo che non sempre si poteva trovare un lavoro appassionante, è anche vero che, teoricamente, quel che si compieva ogni giorno avrebbe dovuto rigenerare e non rendere demotivati, apatici e, quindi, anche ostacoli ‘al progresso della civiltà’ (4, p. 79).

Se i bambini trovavano qualcosa da fare che li interessava e metteva in moto la loro concentrazione, si creava automaticamente silenzio. Tuttavia, il silenzio poteva anche essere raggiunto volontariamente, attraverso la sospensione di ogni movimento. Nella Casa dei Bambini il silenzio non era imposto con le maniere forti  o con ricatti vari per permettere all’insegnante di ‘travasare’ nozioni, ma diventava una sorta di meditazione, che permetteva anche uno stretto connubio con la natura, come esprimono i versi del poeta romantico inglese Wordsworth:

 “Che calma, che quiete! Unico suono, il gocciolar del remo sospeso” (cit. da 5, p.156)

Il silenzio era, paradossalmente, anche un esercizio del senso dell’udito, poiché permetteva di concentrarsi su suoni di sottofondo, lontani, come lo scorrere di un ruscello, il cinguettio degli uccellini, lo spensierato fischiettio di un passante. Era un allenamento all’ascolto (nel senso comunicativo del termine) ma anche in vista, ad esempio, dell’applicazione pratica di una futura professione medica, che si basava sul monitoraggio di rumori impercettibili (come piccoli soffi, fremiti, risonanze) per stabilire con certezza la diagnosi. Se il medico non aveva coltivato l’udito nella fase ‘sensoriale’, il suo sviluppo  intellettuale sarebbe ‘caduto impotente dinanzi all’insufficienza dei suoi sensi’ (5, p. 161).

Il silenzio aveva un valore spirituale, sia perché preparava a comportarsi con rispetto nei luoghi sacri, ma anche perché favoriva quelle ‘intuizioni soprannaturali’(un po’ in linea con la successiva teoria New Age dei bambini ‘indaco’) precedenti all’indottrinamento religioso.

La tipologia d’insegnante ‘ideale’ era già stata anticipata dal medico francese Edouard Seguin, il quale riteneva  che un maestro (o una maestra) dovessero, oltre che presentarsi al meglio, anche modulare la voce come se avessero frequentato un’accademia di arte drammatica. Anche la Montessori parlava di una maestra graziosa, decorosa, curata anche nell’abbigliamento e che doveva evocare un po’ la bellezza della mamma, una bellezza comunque soggettiva. Ma c’era anche qualcosa che andava al di là dell’apparenza. L’insegnante doveva essere umile, vigilare ma senza intromettersi nell’attività liberamente scelta dal bambino. Doveva solo spiegare, con una dimostrazione pratica, come il materiale didattico (di tipo ‘scientifico’, ovvero adatto all’educazione sensoriale) doveva essere usato. Sillabari, lezioni in cattedra, voti, esami e programmi erano aboliti. La maestra doveva anche predisporre l’ambiente affinchè il bambino potesse scegliere e svolgere al meglio le sue attività. Quello che lo circondava doveva essere funzionale, ‘a misura di bambino’:

“Vennero costruiti mobili piccoli e chiari, lucenti, con piccole credenzine con sportelli e con tendine colorate, tavoli circolari estremamente bassi e di colore vivace, tra alti tavoli rettangolari più alti e chiari, sedie e poltroncine. E soprattutto si diedero ai bambini attraenti stoviglie, piccoli piatti e posate piccoline, tovagliette minuscole e persino saponi e asciugamani adatti a mani di piccini.” (5, p. 192)

Tutto era pulito, allegro, disposto in maniera ordinata e leggero, ovvero facile da spostare. Il bambino non poteva svolgere la stessa attività di un altro contemporaneamente. Se davvero ci teneva, doveva attendere con pazienza il suo turno. Questo serviva a prevenire il senso di competizione fra pari. Se il bimbo necessitava di un modello da imitare, poteva cercarlo fra gli alunni più grandicelli, coi quali era favorito il contatto.

Il fatto che la maestra fosse discreta e non invadente non implicava, chiaramente, che fosse impreparata. In una lezione ‘tradizionale’, da lei diretta, tutto sarebbe stato alquanto prevedibile, laddove nel regno della spontaneità ogni domanda poteva giungere inaspettata. Anche in questo caso, la maestra non doveva affatto scomporsi, ma abbracciare la sua imperfezione. Se non sapeva rispondere, poteva ammetterlo con semplicità, e tornarvi la volta seguente. Questo aiutava il bambino a comprendere che anche l’insegnante era un essere umano e non onnisciente. Di conseguenza, si sentiva meno inadeguato, timido ed insicuro a confronto di coloro che avvertivano il docente come uno spauracchio autoritario. Il bambino, idealmente, doveva aver la sensazione di aver imparato tutto da solo, senza che nessuno ci avesse ‘messo lo zampino’. Anche se la maestra non era ancora esperta del metodo, non doveva mai ricorrere al pugno di ferro per gestire la classe. Bastava tentare un cambio di ambiente, ad esempio andando in giardino a svolgere attività alternative.

Se nella scuola montessoriana non c’erano ‘bulli’, questo avveniva perché era lo stesso insegnante a dare il buon esempio. Come si poteva pretendere che i bambini non mettessero in atto giochi di potere se lo stesso insegnante, per primo, li esercitava su di loro? L’insegnante si rendeva conto che i bambini difficili ed aggressivi, spesso e volentieri, erano quelli che avevano maggior bisogno di aiuto, in quanto provenienti da contesti disagiati e problematici.  In questo si rivelava quel senso di empatia che dovrebbe essere applicato, ancor oggi, per prevenire abbandoni scolastici e futuri atteggiamenti devianti:

“Che cambiamento vi sarebbe nella società se il malvagio destasse compassione e noi facessimo uno sforzo per consolarlo, con la stessa compassione che proviamo per un malato. Il fare il male è del resto spesso una malattia psichica dovuta a un cattivo ambiente, a condizioni di nascita o ad altre disgrazie e dovrebbe suscitare compassione e muovere ad aiutare.” (4, p.224)

La principale funzione della maestra era quindi proteggere il vulnerabile bambino da prepotenze, traumi e forme di indifferenza che avrebbero messo a repentaglio l’innocenza della sua anima:

La maestra deve consacrarsi alla formazione di un’umanità migliore. Come la vestale doveva serbare puro e scevro di scorie il sacro fuoco che altri avevano acceso, così alla maestra è stata affidata la fiamma della vita interiore in tutta la sua purezza. Se questa fiamma sarà trascurata, si spegnerà per non accendersi mai più.” (2, p. 66 )

Quali erano, concretamente parlando, le attività pratiche, ovvero gli esercizi che si svolgevano nelle Case dei Bambini? Essendo i bimbi in una prima fase del loro sviluppo, dai tre ai sei anni, si partiva da attività che erano fondamentali per le tappe di apprendimento successive.  Se il bimbo era seguito bene quando la sua mente era ‘assorbente’, ovvero molto ricettiva a stimoli provenienti dall’ambiente, erano poste buoni basi per il suo futuro. Chiaramente si poteva cercare di ovviare a delle lacune, ovvero ‘normalizzare’ il bambino anche negli anni successivi, ma non sarebbe più stata la stessa cosa, poiché si andava contro i tempi stabiliti dalla natura. Esercizi sensoriali erano, ad esempio, incastrare cilindretti di diverso diametro in appositi spazi, impilare a torretta cubi o prismi di diversa dimensione, disporre delle aste in ordine di altezza, mettere in fila le diverse sfumature dei colori dal più chiaro al più scuro o viceversa,  distinguere le note musicali da sette diverse campane, sentire al tatto diversi tipi di superfici o tessuti. Si mirava a concretizzare le idee astratte e quindi a renderle ‘palpabili’. Una mela, ed esempio, era la materializzazione di una sfera, del colore rosso, del sapore dolce, di una superficie liscia, di un odore delicato. Il panorama di una città, come Roma vista dalla terrazza del Pincio, era un insieme di forme geometriche, che si incarnavano, in primo luogo, nei semicerchi delle cupole.

Tutto questo, come ho già accennato, formava il lavoratore di domani. Un buon cuoco, per applicare una ricetta, doveva aver sviluppato gusto ed odorato, così come una ricamatrice doveva aguzzare la vista, ed un chirurgo tener la mano ferma. I bambini, con i loro esercizi sensoriali, sarebbero diventati tutto questo, e non solo.

Quando il bimbo iniziava a scrivere, aveva già preso padronanza con le forme arrotondate, e quindi con le diverse lettere con caratteri in corsivo, sapeva già tenere una penna in mano grazie agli esercizi manuali che necessitavano movimento muscolare e precisione. Si iniziava quindi ad osservare e sentire al tatto le lettere su carta smerigliata per poi passare a colorarle e poi a comporre le parole sotto dettatura servendosi di un alfabetario mobile. I suoni li memorizzavano grazie a cartelli con una relativa illustrazione (es: la figura di una ‘rana’ per la ‘r’ e di un ‘uovo’ per la ‘u’). Le lettere, consonanti soprattutto, non dovevano essere apprese in ordine alfabetico, ma a piacimento del bambino (è chiaro che se questo bimbo si chiamava Marco, avrebbe probabilmente memorizzato la ‘m’ prima della ‘b’!) Ed era sorprendente il fatto che, quando poi la scrittura vera e propria ‘esplodeva’, i bambini scrivevano già in bella calligrafia ed in modo ordinato. La lettura avveniva, inizialmente, con delle singole parole scritte su bigliettini, che i bimbi dovevano anche abbinare a degli oggetti di cui non sempre conoscevano il significato). Fino a quel momento, come avviene per la rosa shakespeariana di Giulietta, non aveva avuto importanza il nome di un fiore, quanto il suo profumo. Adesso iniziava invece la fase della nomenclatura, dove il bimbo espandeva il suo lessico secondo una logica ‘classificatoria’ (ad esempio, se stava studiando gli animali, poteva formare dei ‘gruppetti’ con i nomi  dei pesci, dei rettili e così via).

Tutto questo avveniva entro i cinque anni, e nel pieno rispetto dei naturali ritmi di apprendimento, poichè il metodo montessoriano non veniva stabilito dall’alto, ma dall’osservazione diretta dei fenomeni (pedagogia scientifica). Mai si sarebbe pensato di imporre arbitrariamente dei ritmi, casomai per dare l’impressione che il bimbo fosse un piccolo, precoce genietto. Proprio come una farfalla rispettava i tempi dei suoi bozzoli e la rana quelli del suo girino, così l’insegnante doveva rispettare i tempi di bambini che comunque, grazie a questo metodo, avrebbero anche potuto saltare la prima elementare.

Il bambino non imparava a leggere, a scrivere e via dicendo soltanto per trovare, un giorno, un lavoro prestigioso e/o remunerativo. Il bambino era parte integrante della natura e, in quanto tale, doveva agire in conformità a ciò che essa aveva stabilito. Questo aveva a che fare con una sua vocazione, o meglio, con una missione cosmica che andava assecondata, rendendolo unico e speciale. Bisognava, in altre parole, cercare le ‘occulte origini di energie latenti nella profondità dell’anima umana’ (5, p.239). Come ad esempio, un’ape succhiava il nettare, un ragnetto tesseva la tela o le foglie, con la clorofilla, purificavano l’aria, così il bambino aveva già insita in sé un’azione da svolgere per mantenere un equilibrio (anche nel senso ecosistemico del termine)  e per il bene dell’umanità. Principale missione dell’uomo era quindi quella di favorire l’armonia intorno a sé, collaborando sinergicamente col resto del creato. Il bimbo, per la Montessori, non doveva vivere nel regno della fantasia, delle fiabe, quello significava fuggire da una realtà deludente, o che meritava abbellimento. Il bambino doveva invece essere entusiasta della vita, che era una miniera di possibilità, di scoperte, di meraviglie. Doveva essere, come un piccolo Palomar calviniano, un instancabile osservatore dei fenomeni dell’universo, un coscienzioso ecologista, oppure un curioso esploratore del mappamondo, collegandone le diverse parti e trovando in esso la sua collocazione. Si, perché il bambino non doveva diventare un provinciale, dalle idee ristrette, un piccolo borghese interessato solo al suo giardinetto. Quando il bimbo pensava al suo futuro, doveva immaginarsi cittadino del mondo, grazie ad un metodo che aboliva le barriere sociali, culturali, razziali. Dove anche le famiglie più povere e disagiate potevano, grazie ai bimbi,mettere un vasetto di fiori o linde tendine sui loro squallidi davanzali. Davanzali che però dovevano spaziare lontano, oltre il mare e gli orizzonti, che dovevano additare ad un mondo tollerante e pacifico. Colui che usava il suo ingegno per incentivare la discordia, la guerra o il perseguimento di beni soltanto materiali, era al di fuori di quest’ordine di idee:

“Qualsiasi invenzione che potrebbe generare elevazione e progresso è suscettibile d’essere adoperata anche per la distruzione, per la guerra, per l’industria che arricchisce.” (5, p. 291)

L’uomo che sarebbe scaturito dal bimbo montessoriano voleva un mondo costruttivo, non distruttivo, un mondo in cui i diritti del bambino erano messi al centro della sua esistenza, perché era da questi diritti inviolati che sarebbe dipeso il futuro dell’umanità. Autonomia, sotto questa luce, significava quindi progresso vero. Il bimbo diventava maestro degli adulti perché tendeva verso un’utopia edificatrice, non ad una distopia demolitrice.

La Montessori visse sulla sua pelle la seconda guerra mondiale, e sapeva com’era difficile raggiungere la solidarietà fra gli uomini. Conservare la scintilla spirituale del bambino voleva dire quindi ostacolare i barbari piani della società, elevare l’umanità:

  “Il bambino è un principio unificante: accanto al bambino la diffidenza si dilegua: diventiamo dolci e gentili perché riuniti intorno a lui, ci sentiamo riscaldare dalla fiamma della vita che sta là dove la vita ha le sue origini”(5, p.283)

Se gli adulti avessero messo davvero il bimbo al centro della loro esistenza, gli egoismi sarebbero scomparsi e sarebbe emerso un amore puro, disinteressato, amante del sacrificio come quando una gazzella metteva da parte il suo istinto di autoconservazione (fatto di fuga o di lotta) per difendere la prole.Era in questo frangente che l’ovvia necessità si trasformava in strategica intelligenza, come quando, per proteggere i propri piccoli, una farfalla si mimetizzava con le foglie, un pesce si confondeva con la sabbia, un orso polare si uniformava alla neve.

E’ ancora attuale il pensiero della Montessori? In una società sempre più antagonistica, consumistica,  materialista e dove internet, con la lavagna interattiva multimediale, è penetrato perfino nella scuola d’infanzia (per finalità didattiche, s’intende, ma sempre più a discapito delle tradizionali attività manuali, i cui benefici sono stati ribaditi perfino dalla Società Italiana di Pediatria) sembrano davvero antiquate simili teorie. Tuttavia, come ho già accennato,  ciò che la Montessori auspicava si direbbe un’utopia e, in quanto tale, non può che volgersi al futuro. Tanti piccoli passi dovrebbero essere compiuti per avvicinarci a questo Ideale, dal quale, invece, ci stiamo sempre più, ed inesorabilmente, allontanando. Finchè esisterà anche un solo bambino sotto le bombe oppure armato in scenari di guerra, finchè anche un solo corpicino verrà restituito esanime dal Mar Mediterraneo – ormai cimitero a cielo aperto – dopo l’ennesimo naufragio, o finchè il telegiornale, mentre ascoltiamo con indifferenza, darà notizia di altro minore ucciso o in qualche modo abusato, il bambino davvero Libero non potrà esistere.

“Noi sappiamo cercare perle nelle valve delle ostriche, oro nella roccia, carbone nelle viscere della terra, ma ignoriamo il germe spirituale, la nebula della creazione che il bambino nasconde in sè quando viene nel nostro mondo a rinnovare l’umanità.”(5, p.235)

Testi Consultati:

  1. Maria Montessori, Come educare il potenziale umano, Milano: Edizioni Garzanti, 2022, p. 1-183
  2. Maria Montessori, Il bambino in famiglia, Milano: Edizioni Garzanti, 1972 p.1-138
  3. Maria Montessori, Il segreto dell’infanzia, Milano: Edizioni Garzanti, 2021  p. 1-306
  4. Maria Montessori La mente del bambino, Milano: Edizioni Garzanti, 2022, p.1-293
  5. Maria Montessori, La scoperta del bambino, Milano: Edizioni Garzanti, 1980 (ristampa ed. 1970), p.1-373
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Per mettersi in diretto contatto con Emilia Abbo, inviare un' e-mail a: emilia_abbo@post.harvard.edu

1 Commento finora. Sentitevi liberi di unirsi a questa conversazione.

  1. Silvio Roscioli 11 Aprile 2023 at 18:11 - Reply

    Ho letto con attenzione la completa (e complessa) esposizione delle vere innovazioni suggerite e purtroppo molto poco assecondate. E ne paghiamo le conseguenze. Ci sarà mai una svolta decisa verso la presa di coscienza dei nostri limiti da un lato ma anche delle nostre infinite possibilità dall’altro? Non resta che crederci, e lottare per questo. In nome e per conto dei bambini, prossimi adulti, ma anche per noi, come prodomi di un possibile reale cambiamento.

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