Montanelli: una parabola del giornalismo italiano

Pubblicato il 25 Lug 2014 - 7:52pm di Elisabetta Zazza

Tredici anni fa moriva Indro Montanelli.  Quello che più manca di lui e nel nostro presente, è la sua spietata coerenza.

Indro Montanelli

In un mondo, quello del nuovo millennio, tecnologico, che viaggia a velocità incredibili, senza sosta, senza pause per riflettere, per attendere, per ricordare, è difficile fermarsi e osservare attentamente la realtà. È difficile assimilare gli eventi quando lasciamo bruciare la cosa più preziosa che abbiamo: il tempo. Siamo troppo presi dalla frenesia per metabolizzare il nostro tempo, il presente, e siamo troppo presi dalla corsa contro il tempo per guardare al passato e imparare dalla Storia. Ci dimentichiamo degli fatti, degli eroi quotidiani, perchè passano velocemente e sfuggono alla nostra attenzione. Ma è più difficile dimenticare le grandi lezioni, i grandi maestri, quelli che ci hanno dato il loro tempo, la loro vita, per cambiare la realtà e imprimersi sulla nostra coscienza, sulla nostra Storia.

Tredici anni fa moriva Indro Montanelli: una parabola del giornalismo italiano lunga quasi un secolo. Montanelli, giornalista cresciuto alla scuola di Ugo Ojetti e Leo Longanesi, ha vissuto per novantadue anni. Dunque quasi un secolo, attraversato da tragedie, rivoluzioni, perdite e speranze. Speranze, come il titolo dell’ultimo libro di Paolo Di Paolo, finalista del Premio Strega 2013, “Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era”, un libro che riprende la storia del grande giornalista, vista con gli occhi di un giovane scrittore. Perchè è vero, questo secolo ha incarnato tutte le speranze possibili. Ma le speranze possono anche fallire. Quando Montanelli dice: “Ho visto e sono stato condannato a vivere tutte le speranze del mio secolo”, credo sia proprio questa una delle cose più straordinarie che ci potesse consegnare la sua vita.

Crebbe in pieno Fascismo e a quel Fascismo lui partecipava attivamente. Si arruolò nella guerra d’Etiopia come sottotentente in un battaglione coloniale di Ascari. Ma a un certo punto, quando il Fascismo diventò la caricatura di sé stesso, quando – per dirla con Ernest Hemingway – Mussolini mise “le ghette bianche” (indice di un  trasformismo politico), quando il Fascismo diventò comico – e tragicomico – , come tutti i regimi autoritari presto o tardi diventano, Montanelli immediatamente ne uscì.

E ne uscì coraggiosamente, perchè subito dopo, da inviato in Spagna per il «Messaggero» di Roma, descrisse una battaglia che tutti avevano raccontato come un trionfo epico in seguito a combattimenti asperrimi fra le truppe franchiste contro quelle anarchiche e socialcomuniste, che in realtà era stata “una lunga passeggiata militare con un solo nemico: il caldo”. Ebbe il coraggio di scrivere questo, e che tutta la propaganda che era stata fatta in Italia su quella battaglia era fasulla. Immediatamente gli venne revocata la tessera del Partito Nazionale Fascista e, quindi, quella dell’Ordine dei Giornalisti. Questo episodio a dimostrazione che, quando il conformismo fascista diventò ridicolo e insopportabile, lui lo demolì immediatamente, sapendo di dover pagare anche un prezzo molto alto. Fu fatto prigioniero e condannato a morte, poi fortunatamente liberato, con l’aiuto del CLN.

Negli anni ’50 visse un altro genere di conformismo, quello democristiano. A quei tempi scriveva per il «Corriere della Sera» e anche lì non si fece mancare episodi che fecero tremare il Colle, come l’inchiesta sull’allora presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, dipinto come un ladro che prendeva i soldi dall’Eni di Enrico Mattei. Non doveva essere cosa semplice fare un’inchiesta sul presidente della Repubblica insieme a un presidente petrolifero, smascherando nel loro rapporto un legame torbido. Sono anni difficili per la politica, e un giornalista come Montanelli non resta mai nella stessa posizione, pur mantenendo salde le sue idee: a volte la coerenza significa anche questo.

Un altro esempio di coerenza intellettuale e di irriverenza giornalistica fu l’inchiesta sulla battaglia di Budapest. Nell’autunno del ’56, a Budapest scoppiò una violenta insurrezione popolare. Quando l’Ungheria annunciò la sua intenzione di uscire dal Patto di Varsavia, l’Unione Sovietica reagì invadendo il paese di carri armati e soffocando nel sangue i disperati tentativi di resistenza del popolo. Montanelli, giornalista conservatore e anticomunista, parte per l’Ungheria per seguire come inviato del «Corriere della Sera» la rivolta di Budapest contro il regime filosovietico e scopre che la realtà è completamente diversa dagli auspici e dagli slogan dell’Occidente: gli operai, i contadini, gli studenti insorti non stavano affatto combattendo per obiettivi piccolo-borghesi, ma per la libertà del loro popolo e in nome di un socialismo democratico «dal volto umano», riformatore e indipendente da Mosca.

Montanelli scrive quello che vede, niente di più, niente di meno. Ben sapendo di smontare, così, tutti i luoghi comuni, di destra e di sinistra: la sinistra di Palmiro Togliatti e la sua intellighenzia comunista, che spacciavano la rivolta d’Ungheria per un moto controrivoluzionario finanziato dagli americani per occidentalizzare un paese del socialismo reale e bollando gli insorti come «fascisti» e «controrivoluzionari»; la destra conservatrice e reazionaria, che diceva praticamente la stessa cosa, e cioè che la rivolta d’Ungheria era la rivolta di chi sperava di uscire dal Patto di Varsavia ed entrare nella Nato, ansiosa di sposare la liberaldemocrazia borghese. Montanelli, invece, dice: «Non è vero che si sta trattando di una controrivoluzione. Coloro che l’hanno fatta non sono, lo sapete, né i reazionari, né i fascisti, né gli ex ufficiali di Horthy. Sono dei comunisti che si sono ribellati a un certo comunismo» (Corriere della Sera, 14 novembre 1956).

MontanelliE questa è la prova provata dell’atteggiamento interiore di Montanelli nei confronti dei fatti e del sistema. Figurarsi quanto sia piaciuta la sua versione ai due poli. Tutti i giornali cominciarono a smentirlo e ad accusarlo di essere un «voltagabbana», solo perchè non piegava i fatti all’ideologia. Ma i voltagabbana cambiano idea per stare sempre dalla parte del potere, non contro. E Montanelli era solo contro i due opposti conformismi, di destra e di sinistra. Paolo Di Paolo, nel suo libro sottolinea spesso questo aspetto, la “maestosa solitudine” di Montanelli, l’essere soli in tempi di conformismi; un prezzo da pagare, direi, quasi inevitabile.

Negli anni ’60 c’era la grande retorica del centro-sinistra, dell’apertura ai socialisti e Montanelli era  ancora contro. Negli anni ’70 L’Italia visse l’avanzata delle sinistre e quelli furono gli anni in cui sbattè la porta in faccia al «Corriere della Sera», contrario al suo “nuovo corso” (era l’autunno del ’73) e andò a fondare un giornale – «Il Giornale» – che a quei tempi era una bestemmia, perchè mentre tutti andavano a sinistra lui faceva un giornale conservatore. Gli anni ’70 furono anche gli anni del “turiamoci il naso e votiamo Dc”, un famoso titolo del «Corriere della Sera», gridato da Montanelli (riprendendo una famosa frase di Gaetano Salvemini) per impedire l’avanzata del Partito Comunista alle elezioni del giugno 1976. Montanelli pensava però al tempo stesso al sistema di corruzione, di clientelismo e di degrado politico, di cui la Democrazia Cristiana era considerata il perno; ma di fronte al “pericolo comunista“, gli sembrò opportuno, per chi comunista non era, stringersi nuovamente attorno al partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana appunto.

Io, dopo il distacco da quello fascista (non nel ’45, ma nel ’37 quando il distacco comportava parecchie scomodità), non ho più militato in nessun partito. Quando mi chiamavano alle urne votavo per quello liberale o per quello repubblicano, salvo nel ’48 e nel ’76, quando votai «turandomi il naso», per la Diccì, per impedire che i comunisti – quelli di allora, spalleggiati dai carri armatisovietici, non quelli di oggi, orfani eredi del più clamoroso fallimento di questo secolo – facessero il loro famoso «sorpasso» che li avrebbe fatalmente condotti al potere e consegnato noi ai loro «commissari del popolo» (Corriere della Sera, 21 gennaio 1998).

Il 2 giugno 1977, Montanelli fu vittima di un attentato da parte delle Brigate Rosse, che gli spararono alle gambe. Si salvò per miracolo: se avesse estratto la pistola che portava con sé, l’avrebbero certamente ucciso. Una prova di straordinario sangue freddo.

MontanelliGli anni ’80 furono caratterizzati dal tentativo di Bettino Craxi di porre fine alle frustrazioni delle sinistre e di proporre il Psi per la leadership di tutta la sinistra. Craxi cavalcava l’ideologia dell’efficientismo e della tecnica, presentandosi come elemento di aggregazione di forze nuove e progressiste. Craxi si era reso conto che per poter giocare un ruolo significativo aveva bisogno della fiducia degli strati conservatori del Paese, senza i quali non era possibile governare in Italia. Di qui la grande amicizia con l’imprenditore Silvio Berlusconi, al quale aveva promesso grandi cose in cambio del sostegno politico. Ci sono interessanti intercettazioni telefoniche di quegli anni nelle quali Craxi e Berlusconi parlano di Montanelli come di un pesante ingombro che si deve rimuovere. Berlusconi allora era a capo della Mondadori e azionista di maggioranza del «Giornale» ed era in attesa che Craxi gli facesse una legge sulla televisione: l’Italia era priva di una legge che regolasse il sistema televisivo e Berlusconi aveva potuto fare man bassa di emittenti, antenne, frequenze e pubblicità proprio grazie alla giungla legislativa. Ma Montanelli sul «Giornale» parlava male di Craxi e del suo neonato governo e questo doveva fare molto irritare entrambi i compari, per ovvi interessi personali.

Gli anni ’90 sono gli anni del grande conformismo filo-berlusconiano. Montanelli non si era mai lamentato del suo editore, ma quando nel ’94 l’imprenditore decise di “scendere in capo”, al giornalista fu subito chiaro come sarebbero andate le cose. In questo contesto, Montanelli dipinge due figure di Berlusconi: “Ho conosciuto due Berlusconi: il Berlusconi imprenditore privato che comprò «Il Giornale», e noi fummo felici di venderglielo – perchè non sapevamo come andare avanti – su questo patto: tu, Berlusconi, sei proprietario del «Giornale», nel senso che la linea politica dipende da me. Quando Berlusconi mi annunziò che si buttava in politica capii subito quello che stava per accadere. Cercai di dissuaderlo, ma fu tutto inutile. Dal momento in cui lo decise mi disse: «D’ora in poi il Giornale farà la politica della mia politica». In quei brutti giorni, nella maniera più scorretta e più volgare, radunò la redazione del «Giornale» e disse: «Qui si cambia tutto», all’insaputa del direttore. Fu allora che me ne andai”.

MontanelliÈ la storia di Montanelli che vede trasformarsi il suo editore, un imprenditore dai modi autoritari (Confalonieri lo chiamava “il Ceausescu buono”), in un politico . Lì vede trasferirsi i suoi metodi aziendali nella politica, e non ci stava a trasformare «Il Giornale» nell’house organ della nascente Forza Italia. Montanelli lo diceva sempre: “Berlusconi lo conosco bene, si farà prendere la mano, è uno che crede alla bugie che racconta, è uno che non divide il potere con nessuno, è uno che farà dei guai”. Lo scrisse anche sul «Giornale», che la discesa in campo di Berlusconi era una jattura, che bisognava appoggiare altri nel polo moderato. Appena lo scrisse cominciò contro di lui un killeraggio televisivo tutto berlusconiano: Fede chiese in diretta le sue dimissioni e lo chiamò «vecchio malvissuto», Sgarbi lo dipinse come un vecchio rincitrullito e nei suoi Sgarbi quotidiani non faceva altro che dargli del «fascista».

Tra ingiurie e calunnie, Montanelli fu cacciato dal suo «Giornale» e fu il primo uomo di destra a prendere le distanze da Berlusconi, proprio perchè lo conosceva bene. Dei redattori del «Giornale» ne potè portare con sè solo una cinquantina, e da lì iniziò l’avventura della «Voce»: “Anche a costo di ridurlo, per i primi numeri, a poche pagine, riavrete il nostro e vostro giornale. Si chiamerà La Voce. Con questo gesto Montanelli voleva nuovamente affermare la sua libertà e indipendenza giornalistica, e le sue posizioni conservatrici, di una tradizione della destra italiana che non voleva identificarsi con la figura e la politica del suo ex editore. Di nuovo un giornale che, nel momento storico in cui nacque, era una bestemmia, perchè  non era di sinistra, ma sparava contro Berlusconi come nemmeno «Il Manifesto».

Montanelli si definiva un «heretically correct», e un «apota», termine coniato da Prezzolini per significare “colui che non la beve”. Rivendicava di non aver “mai avuto altro padrone che il lettore” (lo slogan scelto nel ’94 per il lancio della «Voce»). Il giornalista per lui era un «guardiano pubblico», e lui credeva fortemente in questa missione, anche e soprattutto nell’era del pettegolezzo.

Ricordando la sua figura, una ricerca ossessiva della definizione della posizione ideologica di Montanelli, è forse inadeguata per uno come lui, soprattutto perchè la parola “ideologia” gli era sempre stata avulsa. “Noi siamo giornalisti e dunque dentro di noi dobbiamo essere all’opposizione, sempre”, questo era il suo approccio giornalistico. E non per fare il bellicoso a tutti i costi, bensì  per affermare un atteggiamento di alterità, di estraneità ai giochi politici. Oggi che Montanelli non c’è più, forse manca una figura di riferimento, una boa nel mare in tempesta della politica. È vero anche che non ci sono più quegli opposti conformismi di una volta: oggi il bipolarismo è un Parlamento monocolore, e così lo è anche la stampa di riferimento.

Ma cosa direbbe oggi Montanelli del governo Renzi? Cosa direbbe del Far West legislativo da cui Berlusconi riesce ancora a divincolarsi? Cosa direbbe del conflitto in atto sulla striscia di Gaza, delle bombe, dei razzi, delle vittime palestinesi che si accasciano al suolo ora dopo ora? Sarebbe interessante, in quanto era uno dei pochi intellettuali a guardare ancora attentamente la realtà e a riuscire a raccontarla senza condizionamenti, senza asservimenti, con una coerenza che non ha mai avuto nulla da spartire con questo teatro dell’assurdo che è la politica. Era un giornalista irriverente, provocatorio, pericoloso, spesso anarchico, controcorrente. Sapeva aspettare, fermarsi e meditare sulla realtà, e non aveva paura di cambiare rotta. Nella sua lunga vita il tempo gli è stato rivelatore. E paradossalmente – si direbbe – proprio per i suoi continui, inevitabili, cambi di posizione, quello che più manca di lui e nel nostro presente, è questa spietata coerenza.

Info sull'Autore

Elisabetta Zazza è una testarda ragazza abruzzese, che dopo la maturità ha deciso di lasciare il paesino per studiare nella grande capitale. Dopo una laurea triennale in Lettere e Fiolosofia alla Sapienza, ha iniziato a collaborare per le testate “Prima Stampa” (cartaceo), “ConfineLive.it” e “Corretta Informazione.it”. Intanto, mentre scrive e lavora, sta terminando la specialistica in “Editoria e Scrittura”. Diventare giornalista è il sogno di chi è curioso di sapere, desidera capire e sente il dovere di raccontare.

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