Nel quarto del cammino zigzagante della mia vita (è bello pensare di ridurmi ad una sorta di strega di Biancaneve di centoventi anni) mi ritrovai spesso tra le oscure e impostate; ritte e impostate, braccia di un musicista. Ognuno ha i suoi vezzi; e ho sguazzato per tempi inconsapevoli tra presunti vizi (probabilmente di forma). Credevo di invaghirmi del loro picchiettare esasperato su ogni superficie. Ho scoperto poi che era inquinamento da parabeni di balsami per capelloni convinti.
Il punto è questo… la leggerezza. Io non sono di certo la prima a soppesare qualcosa. A sentire pesi e a ragionare a sistemi metrici per cercare di identificare un pensiero, o una soluzione. Italo Calvino (che non sono degna di nominare nonostante sia stato grande imprecazione e delizia della mia tesi di laurea) cercando di “raccapezzare” i primi pezzi di intonaco del millennio… ha capito quali valori analizzare, riconoscere, salvaguardare. Nella vita, attraverso l’arte. Nell’arte per il tangibile del quotidiano.
Tralasciando il siparietto accademico sull’intervento di Calvino che voi potreste (in via eccezionale e impossibile) andare a ricercare. Magari… Beh si può dire che, tralasciando questo, mi interessa riflettere su cosa negli anni ho trovato di poco digeribile nel musicista dilettante (ma già ovviamente “arrivato”… perché c’è gente che nessuno “si copre“, ma è arrivata non si sa dove, poi speriamo di scoprilo di modo che non tornino).
Sono molto curiosa e a volte faccio domande anche inopportune; dato che sono una inguaribile inopportuna romantica. Non si capisce il perché ho sempre scovato un filo rosso comune: “Devo pensare solo a suonare”, “Non posso amare”, “Non posso occuparmi di questo, devo suonare”. Poi vabbè il fatto che suonare è uguale a “Non posso vivere da essere umano pensante perché devo fare le cover e cambiare le immagini di copertina della mia Fan Page di Facebook” è cosa inquietante come i canali satellitari dopo le due di notte. E ha lo stesso tratto di inutilità a inchiostro simpatico.
Abbiamo fatto una vita sega a scuola per evitare interrogazioni su Francesco Petrarca che batteva i pezzi a Laura nelle chiese di Avignone, abbiamo fatto i fighi con Oscar Wilde… l’elegante combattente della passione. Mozart nelle ore di musica spuntava sempre dal film premio Oscar in cui appare questa figura ossessionata dal rapporto con il padre… Morte, malattia, amore, pargoletta mano… Il Sabato del villaggio è diventato l’aperitivo cenato di chi compra chitarre sul web e si sente la divinità ascetica di un’arte che appartiene solo a chi vive.
Capisco che l’odore del salmone scozzese in offerta e delle olive a etti possano nel 2014 diventare lo Chanel n.5 di questa materia umana. Ma… pongo una domanda… se togliete il vivere, l’esperienza, e il sentire… Cosa mai ce ne può fregare di voi che suonate e basta? Suonare e basta. Cantare e basta. Quante cose ci stiamo facendo bastare, campando sempre peggio; e sopravvivendo sempre meno alla digestione degli Spritz senza cena.
Calvino osserva: “il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore”. Mi perdonerete se sovrappongo scrittori e musicisti. Se vi devo spiegare il perché… mi servirebbero altre cento pagine di insulti e spiegazioni. Fatto sta che tecnica, cuore e ritmo accomunano entrambi. La nostra esperienza del mondo è pesantezza. La musica e la scrittura puntano verso l’alto come le fiamme di qualunque fuoco. A questo punto si può pensare che la ricerca della leggerezza materica sia la reazione dell’arte al peso del vivere. Calvino tira subito le orecchie su questo punto per portare il nostro sguardo sul mito: in questo caso il mito di Perseo e Medusa. Velocemente voglio solo farvi immaginare lo sguardo di Medusa che pietrifica chi la guarda direttamente e i sandali alati di Perseo che la uccide… che uccide Medusa, dal cui sangue nascerà Pegaso… il cavallo alato che (vabbè pensate ai Cavalieri dello Zodiaco… ci sono ali anche lì). Perseo si salva perché guarda Medusa solo attraverso il riflesso sul suo scudo di bronzo. Spinge il suo sguardo verso una visione indiretta; verso uno specchio che cattura e riflette un’immagine. “È nel rifiuto di una visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato vivere, una realtà che egli porta con sé (come la testa di Medusa) che assume come proprio fardello”.
Riusciamo a lievitare sul terreno grazie a uno sforzo sofferente dell’artista che stiamo ascoltando o leggendo. Il sacrificio non è nella rinuncia di farsi attraversare dalla vita, dall’amore, dal dolore… bisogna far soffrire l’eroe ma solo in un altro reame. Come nelle fiabe soffriamo con l’autore, amiamo con lo sfogo di un cantautore… ma in un non luogo trasferito altrove. La privazione e la ricerca, il fardello e la comunicazione con il proprio io sono una chiave vincente per i cavalieri della leggerezza.
La leggerezza non è superficialità. Forse mi lapiderete per ciò che vi sto dicendo. Capisco che pensate che me la sono bevuta, e che tutti ce la beviamo. No è che tante volte veniamo a sentirvi solo perché non abbiamo veramente un cavolaccio da fare. E non abbiamo i soldi per odorare nubi di creme Q10 per i corridoi di un fashion outlet. Vi guardiamo e beviamo birra. E purtroppo spesso per rinunciare a combattervi ci ritroviamo pure che voi avete rapporti sessuali e noi no. Dal mio canto penso che l’esaltazione è una grande forma di distruzione. Ne ho conosciuti troppi di involucri cantanti e autoconsolanti, per tacere e non difendere chi non usa uno strumento musicale come una piastra per capelli, o come un archibugio da guadagno. Poi non vi lamentate se invece di compare cd la gente vi urla dietro “Donne è arrivato l’arrotino Donne è arrivato l’arrotino”.
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