È di prossima pubblicazione il libro di Luca Andriola “La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist” che uscirà nell’autunno 2014 per Paginauno Edizioni.
Partiamo innanzitutto dal termine “populismo”. Ancora sul numero di luglio/agosto 2014 di Le Monde Diplomatique il sociologo Gérard Mauger si interroga sul significato di questo termine “itinerante” che verrebbe attribuito “a tutti gli oppositori delle politiche di Bruxelles”. Prima di lui tantissimi altri lo hanno provato a fare: Taguieff, Halimi, Meny, Laclau, Rancière, Badiou – che propone “24 glosse sull’uso della parola popolo”, le cui principali sarebbero “popolo-demos-nazionale”, “popolo-plebe”, “popolo-ethnos” – lo stesso De Benoist e gli italiani Eco, Ignazi, Tarchi, ognuno con le proprie definizioni. Alcuni sottolineano gli elementi “trasversali”, altri invece si premurano di distinguere tra impostazioni molto differenti. Che cos’è il populismo, secondo Lei?
Nel mio libro – dopo un’accurata analisi storica sull’evoluzione del pensiero di Alain de Benoist e della Nouvelle droite francese dagli anni ’60 a oggi – mi soffermo quasi ed esclusivamente sulle interazioni fra tale corrente filosofica e quello che comunemente è definito come «nazional-populismo», una categoria che raggruppa un insieme di partiti che va dal Front national di Marine Le Pen al Fpö di Heinz-Christian Strache (erede di Jörg Haider) al Vlaams Belang del separatista fiammingo Philip Dewinter fino a formazioni come l’Unione democratica di centro (Udc-Svp) in Svizzera e la Lega Nord qui in Italia, dove mi soffermo sulle interconnessioni con la corrente culturale analizzata. I movimenti da me analizzati nella seconda parte del volume, a cui vanno aggiunti i francesi del Bloc Identitaire e del Mouvement national républicaine o i belgi del Mouvement Nation, si caratterizzano tutti come soggetti non etichettabili col neofascismo classico e accomunati da caratteristiche comuni: l’essere “populisti”, il contestare l’Ue e le politiche economiche adottate all’interno dell’eurozona e l’adozione – ad eccezione del Front national – del micronazionalismo regionalista.
Come definire il “populismo”? La definizione di Gérard Mauger che attribuisce tale nome a «tutti gli oppositori delle politiche di Bruxelles», non mi sembra così distante dalla verità, dato che, come scrive il prof. Marco Tarchi in L’Italia populista, «Si può concordare sul fatto che esso [il populismo] non corrisponde in alcun modo univoco a un particolare e ben definito tipo di regime politico, o che non ha presentato contenuti omogenei in tutte le sue manifestazioni empiriche e pertanto non può essere ricondotto né a una visione del mondo intesa secondo i canoni delle classiche Weltanschauung né a un programma politico fissato una volta per tutte». Tarchi parla, oltre che del leghismo, di fenomeni “trasversali” di cui non parlo nel libro, come il qualunquismo di Giannini negli anni ’40-’50, il telepopulismo di Berlusconi (la «telecrazia»), il presidente “picconatore” Francesco Cossiga che agisce in una fase travagliata per la storia repubblicana, fino a fenomeni che per comodità definiamo “di sinistra” come l’Italia dei valori dell’ex P.M. Antonio Di Pietro (nonostante il background “moderato” del magistrato), i Radicali di Marco Pannella (liberali, liberisti e libertari), i Girotondi (che deve molto a riviste come MicroMega) e i meetup attorno a Beppe Grillo da cui nasce il MoVimento 5 Stelle.
Che caratteristiche ha, secondo me, il populismo, al di là della sua posizione nel parlamento? Si caratterizza per la centralità della figura del leader carismatico, che cerca un continuo legame col popolo. Il popolo viene mitizzato come una comunità omogenea, specie a livello interclassista, da contrapporre ai tradizionali partiti usurpatori dell’effettiva sovranità popolare. Il leader populista, di solito, parla in Tv con un linguaggio semplice, “popolare”, a volte volutamente volgare (si pensi al vecchio motto leghista, «La Lega ce l’ha duro!») e non usa affatto il “politichese”, una lingua “straniera” per la maggioranza delle persone. Di solito – a destra o a sinistra – il populista denuncia nei suoi interventi il distacco dei partiti politici tradizionali dall’elettorato. Umberto Bossi (e i successori, da Roberto Maroni, governatore della Lombardia dal 2013, a Matteo Salvini, segretario del Carroccio dal gennaio 2014), lo svizzero Edmund Blocher, Jean-Marie Le Pen e la figlia Marine in ascesa, il defunto Jörg Haider e il pupillo Heinz-Christian Strache, utilizzano tutti il linguaggio antipartitocratico e l’antipolitica proponendo una democrazia referendaria e diretta, dando alla parola “democrazia” l’accezione di «sovranità del popolo che è nato ed è originario della comunità, che si esprime direttamente attraverso il suo capopopolo, che rappresenta organicamente tutti». Sono caratteristiche – ad eccezione del rapporto popolo-capopopolo – che non ritrovo né nei Girotondi, né nell’Italia dei valori né men che meno nel MoVimento 5 Stelle, fenomeni che non nascono per andare “oltre” la democrazia, ma con l’intento di ovviare agli squilibri nella politica repubblicana, come l’assenza di “legalità” ad esempio.
Se “populista” è un termine utilizzato spesso per mettere fuori gioco alcune forze non allineate al politically correct, alcuni politici italiani hanno iniziato a rivendicare questa etichetta: “meglio populisti che servi” (Meloni), “meglio populista che fesso” (Salvini), “sono un populista rabbioso. Il M5S non è né di destra, né di sinistra, è populista” (Grillo). Anche qui, forze politiche di estrazione molto differente. Come spiega questo “orgoglio populista”?
Lo chieda ai politici di Bruxelles o al 44% di giovani che non ha un lavoro o è precario! Scherzi a parte, è senz’altro vero che oggi molte forze non allineate al politically correct sbandierano tale “orgoglio”, per differenziarsi dai cosiddetti partiti appartenenti alla “casta”, proprio cavalcando un’evidente malcontento che chiunque sente appena apre un quotidiano, appena accende la Tv o chiacchiera con un amico o un collega di lavoro. Stiamo attenti, però, a chi predica una differenza inesistente: mentre il M5S è una realtà giovane, innovativa e “vergine”, coi tipici difetti di chi è “giovane”, Giorgia Meloni non è affatto una neofita della politica, dato che l’ex presidente della Camera milita in Fratelli d’Italia di Ignazio La Russa, l’erede di quella Alleanza nazionale che dal 1994 è stata più volte al governo con Berlusconi, espellendo l’identità missina dall’oggi al domani e ambendo ad aderire al Ppe, il partito della Merkel, contribuendo ulteriormente alla degenerazione odierna delle nostre finanze e ad una politica di smantellamento del Welfare State dettata dall’alto.
Idem per la Lega Nord, che dopo anni di malcostume nazionale e locale (non si dimentichi la questione dei lingotti e dei diamanti, il “Trota” che percepiva stipendi principeschi nonostante la proverbiale ignoranza, il “cerchio magico”, o le inchieste che accennavano a contatti fra Lega, alleati locali e ‘ndrangheta nella gestione degli appalti edilizi), ha archiviato l’era bossiana rilanciato prima la “Lega 2.0” di Maroni, che nel libro-manifesto Il mio Nord, (Sperling & Kupfer, 2012, pp. 103-127) parla di trasformare il Carroccio nella Csu dell’Italia settentrionale (insomma, un partito moderato egemone al Nord, da contrapporre ad un Pdl nel Centro-Sud, così come in Germania, fuori dalla Baviera cristiano-sociale, c’è solo la Cdu), propone l’Euroregione alpino-padana, una macroregione liberoscambista che comprende Lombardia, Veneto, Piemonte, Sud Francia, Baviera, Carinzia e Slovenia, che rimane comunque nell’Ue escludendo il Sud (insomma, secessione soft) e gli stati a economia incerta, riformando l’Ue in senso sovranista creare l’Europa delle Regioni (o dei Popoli che dir si voglia), pensando sempre e comunque per diadi dicotomiche: nel discorso di Maroni il nemico era ed è “la sinistra”. Poi, col la ventata euroscettica, la Lega cambia di punto in bianco: con Matteo Salvini diventa visceralmente anti-Ue, si allea col Front national e cerca di fagocitare sia l’elettorato postfascista e neofascista italiano che frange consistenti di classe lavoratrice, dicendo che la destra e la sinistra non ci sono più ma solo “i popoli vessati dall’Ue”, e che bisogna adottare una politica protezionista con tinte kaynesiane. Insomma, non sempre l’orgoglio populista fondato su una presunta “diversità” corrisponde ad una differenza effettiva e a una coerenza di percorso.
Il sogno dell’“Europa dei Popoli”, da molti prefigurato, non è parimenti una forma di “europopulismo”? Scalfari ha affibbiato l’attributo di “populista” persino a Matteo Renzi…
Il progetto dell’Europa dei Popoli, come spiego nel volume, si contrappone senz’altro all’Unione europea nella misura in cui aggrega i popoli del continente partendo dal basso e non come quest’ultima, e cioè dal metodo funzionalista, cioè aggregando le economie e l’alta finanza, tenendo tutto unito da un minimo comun denominatore identitario. Per Alain de Benoist, uno degli ideatori di tale aggregazione, «L’Europa può realizzarsi esclusivamente sulla base di un modello federale, ma un modello federale portatore di un’idea, di un progetto, di un principio, cioè in ultima analisi secondo un modello imperiale». Il mito dell’Europa dei Popoli ha poi forgiato la Weltanschauung delle formazioni identitariste della destra «nazional-populiste», condizionando anche tutto l’universo della cosiddetta “destra radicale”, e si fonda sul presupposto storico che con la nascita dei due blocchi e della logica di Yalta, era impossibile pensare ad una politica estera capace di mettere al centro del proprio discorso lo Stato-nazione, e poneva al centro del suo discorso la sovranità delle singole entità politiche federate al suo interno, unite dal quel senso d’appartenenza comune e trascendente che de Benoist definisce col nome di Imperium.
È un discorso che affonda le sue radici nelle riflessioni di Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola vicino a Ordine nuovo con forti simpatie per l’epopea delle Waffen-SS, e in quelle del belga Jean Thiriart, “il Lenin della rivoluzione europea”, un uomo che da un’iniziale militanza in area social-comunista passa nelle Waffen-SS di Léon Degrelle per il suo antiliberalismo e da lì, nel dopoguerra, creerà Jeune Europe, movimento trans-continentale nazional-europeista nato per animare «una grande patria comune, una Europa unitaria, potente, comunitarista da Lisbona a Vladivostok». È un mito “euro-populista”? Se per populismo diamo la definizione di “appello diretto al popolo”, l’Europa dei Popoli, che oggi ritroviamo nel discorso di molti populisti, lo è senz’altro perché non rinuncia all’unità degli europei. Per quanto riguarda Renzi e il Pd, essi sono “populisti” proprio nel senso dispregiativo del termine, nella misura in cui hanno condotto una campagna elettorale per le europee con manifesti pietosi che inquadravano le misure di austerity imposte dalla Trojka come necessità richieste dalla cittadinanza stessa, visto che non ce lo chiede tanto la Bce, ma “la gente”, che ha “fiducia” nella stessa istituzione che li sta uccidendo e rendendo precari! Insomma, demagogico e vergognoso.
“Demagogia” e “populismo” sono sinonimi?
Affatto. Il populismo è un modo di presentarsi al pubblico, un modo per denunciare l’élitismo del mondo politico, mentre la demagogia è il promettere cose che non si possono mantenere, pur di avere un consenso. Renzi è un demagogo ad esempio, mentre Grillo e Salvini sono populisti. Mussolini, a suo modo, fu populista nel modo di atteggiarsi, ma almeno lui consolidò un Welfare per ottenere e mantenere un consenso, che nel bene e nel male rimane tutt’ora. La mia ovviamente è una constatazione storica ovviamente, non una lode, dato che per consolidare tale egemonia politica, Mussolini conculcò la democrazia.
Come inquadra il fenomeno del MoVimento 5 Stelle?
Non sono un apologeta del MoVimento 5 Stelle, ma neanche un suo detrattore. Mi danno sui nervi il politically correct liberal e radical, che cita Gramsci e i suoi moniti antifascisti indirizzandoli al M5S, come se questi un domani potesse animare le sue “quadrate legioni” trasformando il parlamento in un “bivacco di manipoli”… Fesserie! Mi riferisco al “partito” di Scalfari e de la Repubblica che ha patrocinato con Maltese, Spinelli & Co. la lista radical-chic “L’Altra Europa per Tsipras”, un contenitore vuoto, funzionale alla sopravvivenza di una sua componente interna (Sel, l’ala sinistra del Pd, dato che il Prc l’ha pagata cara mentre il Pdci ne è stato escluso) e al perpetrarsi dell’Ue, dato che, rispettando le regole del gioco, una riforma comunitaria è utopica, dato che sono impostate per non dare voce né agli Stati né ai partiti del Parlamento. Mi riferisco a un progressismo fondato solo ed esclusivamente sui “diritti civili”… ma guai a toccare la struttura socioeconomica del paese, mettendo in discussione il modello di sviluppo vigente o gli assetti comunitari del “sogno” renzian-democratico dell’Ue. Lì si diventa “demagoghi”, “populisti”, “antidemocratici”, “pericolosi” e magari pure “bolscevichi”, e si fa la fine della sinistra radicale nel 2008.
Ecco che entra in gioco il M5S, una reazione contro un ceto politico lontano dai cittadini, imprigionati da un’Unione e da una Repubblica che vedono come una “gabbia” o come una grossa torta che i politici, indifferentemente dallo schieramento d’appartenenza, si spartiscono. Per me il M5S è l’evoluzione di un vuoto interiore che il paese s’è portato appresso assieme alla disillusione di una Tangentopoli mai veramente conclusa, sotterrata dal duo Polo-Ulivo, un vuoto che abbiamo visto risorgere come un fiume carsico in movimenti come i Girotondi ad esempio. Grillo – consiglio la visualizzazione dei suoi spettacoli dal 1993 a oggi o la lettura di Tutto il Grillo che conta (Feltrinelli, 2006) – parte dalla disillusione post-Tangentopoli e dalla certezza, rafforzatasi spettacolo dopo spettacolo, che ormai i due poli, differenti solo a parole, su questioni personali e di interesse lobbistico, si assomigliano sempre di più, costituendo una casta inviolabile e distante dal cittadino. A queste suggestioni, spendibili a livello politico, si sommino quelle eco-decresciste, il culto per la e-democracy, l’idea di permette al cittadino di fare politica direttamente, partendo dai consumi o appropriandosi del territorio e della sua sovranità, e noi abbiamo il M5S bello che fatto. Insomma, esagerando, il M5S l’hanno creato i politici della “casta”, non Grillo.
Esiste una contraddizione: non credendo ai discorsi interclassisti e post-ideologici, penso che il M5S non può essere “il fine”, ma tutt’al più “il mezzo”, la parentesi per dare lo scossone, permettendo magari alle persone oneste di ambo gli schieramenti, un indomani, di riposizionarsi e di continuare a fare politica su questioni serie, e non solo sull’irrisolto conflitto d’interessi di Berlusconi, se mandarlo in galera o a cambiar pannoloni ai coetanei, il “bunga-bunga”, la “mignottocrazia” e le numerose armi di distrazione di massa create da la Repubblica, l’Espresso, MicroMega e il Fatto Quotidiano, che hanno allontanato la gente dalla politica. Il M5S non può però durare in eterno perché le citate contraddizioni di classe emergeranno una buona volta: non esistono i “cittadini” astratti con interessi identici, ma persone che hanno – e qui Marx ed Engels hanno ragione – interessi di classe, che sono abissalmente distanti. Con chi staranno Grillo e Casaleggio un domani? Con l’operaio e il cittadino onesto o con l’imprenditore, magari anch’egli onesto e schifato da FI e dal Pd, ma che ha comunque una visione simile a questi riguardo ai rapporti di produzione, ai rapporti sociali e sulle riforme da fare al Welfare State, che magari, visti gli sprechi, andrebbe in parte privatizzato? Ottenuta la tanto agognata e sperata “sovranità nazionale e monetaria”, il M5S manterrà inalterata la struttura socioeconomica del paese non mettendo in discussione il modello di sviluppo vigente, o farà di riforme di struttura a favore dei ceti medio-bassi? Insomma, non dimentichiamo che il M5S nasce da una rete di liste civiche nate attorno a un blog.
Le liste civiche, di solito, nascono per amministrare il locale: un conto è gestire un comune, asfaltare le strade, gestire la nettezza urbana in maniera onesta ecc., un conto governare lo Stato. La frase del qualunquista Giannini secondo cui per governare un paese basta un ragioniere per la durata di un solo anno è una visione della politica, per l’appunto, qualunquista e “aziendalista”, identica a quella di FI, dei settori “rottamatori” del Pd e di alcuni esponenti nel M5S. La fine delle ideologie consiste nel predominio di una di esse, l’ideologia liberal-liberista, che vede nello Stato una macro-azienda da cui ricavar un profitto e nei cittadini, termine usato a livello interclassista, degli utenti/consumatori.
Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera ed ex segretario del Partito della Rifondazione Comunista, lo scorso marzo ha suscitato un vivace dibattito quando diede ragione a Marine Le Pen affermando: “Il conflitto si è spostato. Non è più tra destra e sinistra ma tra alto e basso. Su questo ha ragione Marine Le Pen che deve il suo successo alla comprensione di questo cambiamento”. Lei è d’accordo con Bertinotti? Sarebbe meglio abbandonare la dicotomia destra/sinistra e utilizzare altre chiavi interpretative come alto/basso, dominanti/dominati, élite/popolo?
Concordo in parte. Le dichiarazioni di Fausto Bertinotti mi ricordano una riflessione del politologo Giorgio Galli sull’affermazione della “società dei due terzi”, dove il terzo rimanente vota di meno e si astiene, perché non crede più che il voto possa migliorare la sua condizione, mentre i due terzi, soddisfatti e garantiti, votano, aggiungo io, per i due poli, quello conservatore o progressista. Oggi, invece, dall’astensione si è passati al voto di protesta (anche se la storia ci insegna che ci furono altre tornate con soggetti populisti capaci di far tremare gli assetti), un voto di protesta che non solo è interclassista ma pesca dai delusi di ambo i poli. Ecco perché la Le Pen ha parlato in termini trasversalisti. Ora, destra e sinistra esistono o no? Per me sì, da un punto di vista esclusivamente “valoriale” però, dato che nel parlamento, che Marx denunciava come uno dei tanti posti usati dalla borghesia per le sue transazioni economiche e per mostrare la sua egemonia strutturale, oggi i due poli, appiattiti al liberismo, che non si tocca, si eguagliano.
Sta in questo l’affermazione del Front National in Francia? O su quali altri presupposti si basa il successo di questa forza politica?
Senz’altro. La Le Pen fonda il suo successo sulla messa in discussione della tanto disprezzata dicotomia destra/sinistra, ma soprattutto per aver cercato di cavalcare le evidenti contraddizioni della globalizzazione mondialista che rendono precaria la vita del comune cittadino. Il tutto a scapito di una sinistra che risulta funzionale al sistema e che appoggia i vigenti assetti geopolitici e socio-economici imperanti nel continente (l’atlantismo e l’Ue) e dall’altra, ottenebrata dal politically correct, da una visione aziendalista della politica e da un finto antifascismo sbandierato in maniera inconcludente e senza progettualità alcuna (fondato solo sulla negazione dell’avversario e quindi diversissimo dall’antifascismo storico, nobile e propositivo dato che credeva nell’ideologia, oggi “vetusta”, proponendo un’alternativa seria al fascismo), si limita a rispondere “no” a tutti i quesiti che il Front fa da anni. Senza dimenticare il sua graduale radicamento, denunciato dal politologo Jean-Yves Camus, nel sindacato, capace di spostare la conflittualità non più sul piano classista, ma sul nazionalismo interclassista e la xenofobia.
Ma la sinistra politically correct come risponde? Con l’integrazione forzata. È corretta? Esiste una “terza via” fra la xenofobia dei populismi e il melting pot all’americana dei liberali, dalle socialdemocrazie, dai radical-chic e dall’antagonismo, fallito con le rivolte delle banlieu e nelle periferie statunitensi? Il motto antagonista in risposta al corteo anti-immigrati indetto dalla Lega Nord il 18 ottobre 2014, cioè “Milano Meticcia”, riassume quanto detto sul politically correct “di sinistra” (sono funzionali al capitale o non capiscono che l’immigrazione è uno squilibrio alla pari della precarietà e della disoccupazione?) e sulle soluzioni securitarie parafascistoidi dei populisti, fatte di espulsioni, ronde ed egoismo sociale. La domanda è: la soluzione del Front (e degli alleati che analizzo nel mio libro), cioè la preferenza nazionale, che non mette in discussione il modello produttivo vigente fondato sul profitto, che permette forme di liceità nella privatizzazione dei servizi limitandosi a mettere paletti a sfondo comunitario all’interno della comunità animando così una guerra fra i poveri autoctoni e quelli allogeni, è di fatto la soluzione? Ne dubito fortemente.
Da Jean-Marie Le Pen a Marine Le Pen: cambiamento radicale o sostanziale continuità?
Vedo una continuità nel cambiamento. Jean-Yves Camus, in un’intervista rilasciata a Il Manifesto nel 1997, notava che il Front di Jean-Marie predicava negli anni ’80 la consueta formula trasversalista «Ni gauche, ni droite, française!», oggi “innovativa” perché detta da Marine. Sembra, lo voglio ripetere, perché oggi c’è una crisi economica galoppante, e perché negli anni ’80 la sinistra di allora, socialista soprattutto, non era così funzionale come oggi alle politiche libero-scambiste inaugurate a Maastricht e che oggi sono la base dell’odierna Ue, e nei suoi discorsi vi era il tentativo – è un discorso generale, non solo francese – di voler governare il capitalismo (non dico superarlo: i socialisti di Mitterrand non erano marxisti da un pezzo). La politica di attenzione verso il sindacato, non lo si dimentichi, è dei primi anni ’90, dopo Maastricht. La Le Pen è innovativa perché, mentre l’anziano padre rischiava querele da parte delle associazioni ebraiche per negazionismo ogni volta che proferiva parola, la figlia, non dimentichiamolo, ha ottimi contatti con tale realtà francese e non solo; il padre si beccò le critiche di Alain de Benoist che lo dipinse come un «reazionario giacobino» reaganiano (e Jean-Marie rispose dando al filosofo del «comunista» per le posizioni anticapitaliste e antiamericane, sottolineando i suoi dialoghi con intellettuali ecologisti, marxisti e decrescisti), mentre oggi il filosofo di punta del Grece, pur contestando a Marine le posizioni tiepide verso il regionalismo, è piuttosto benevolo con lei perché questa adotta – pur senza diventare anticapitalista – posizioni keynesiane e protezioniste e, in politica estera, aperture verso la Russia di Putin, criticando l’attacco imperialista in Ucraina. Ma anche qui c’è una continuità col padre: nel 1990, mentre il Msi di Pino Rauti, forzato da un Fini all’opposizione che premeva per riprendersi la segreteria, votò a favore della partecipazione al fianco dell’alleanza occidentalista ai danni della Repubblica baathista dell’Iraq di Saddam Hussein, Le Pen, apertamente consigliato da una componente nazional-rivoluzionaria interna al partito formata da ex quadri della Nouvelle droite e fortissima nel Front national de la jeunesse, si oppose all’aggressione definita «americano-sionista», anche se col tempo il Fn ha cercato di riallacciare i legami con la comunità ebraica in chiave islamofoba. Insomma, continuità nel cambiamento, cercando inoltre di fare le veci di una sinistra ormai liquefatta senza, a mio modesto parere, riuscirci appieno.
Che ruolo ha avuto nel FN la corrente interna “Égalité et Réconciliation” di Alain Soral, di estrazione comunista?
Come giustamente ha notato, “Égalité & Réconciliation” è una corrente di matrice comunista animata da un sociologo ex membro del Pcf, Alain Soral, transitata nel Front national, e capace di animare una “nuova sintesi” interessante, la fusione fra nazionalismo e un socialismo teoricamente di matrice marxista. Dico “teoricamente marxista” perché, partendo dal fatto che l’odierno turbocapitalismo ha avvicinato sempre di più la classe salariata a quella cosiddetta borghese verso il basso e lasciandola in balìa dell’alta finanza che fa il bello e il cattivo tempo, “Égalité & Réconciliation” predica solo la lotta di popolo contro tali élite per la sovranità nazionale, non una lotta di classe, che appare quindi obsoleta, proponendo in sintesi un discorso vagamente corporativista. Ha un ruolo determinante per l’espansione frontista? In buona parte sì. Stiamo parlando di un circolo culturale, che ha dialogato trasversalmente coi neodestristi Alain de Benoist e Robert Steukers e con Gabriele Adinolfi, l’ideologo dell’«Area Non Conforme» che fa capo a CasaPound e ai centri sociali neofascisti, che reputo fondamentale per l’elaborazione dei temi sociali proposti da Marine, per l’espansione in campo sindacale e la messa in discussione, elogiata dallo stesso de Benoist, del vecchio liberismo “reaganiano” anni ’80, che caratterizzava Fn, un liberismo poujadista che parlava ai bottegai delusi e oberati dalle tasse, timorosi dell’immigrazione, un fenomeno sviluppatosi negli anni ’60 e molto più ampio rispetto all’Italia, degli squilibri creati dalla globalizzazione e desiderosi di un governo forte, patriottico, “sovrano” e capace di creare una pace sociale per il bene condiviso e governare il tutto.
Il ribrezzo di Soral – che lascia il Pcf per il nostalgismo filosovietico inconcludente, il politically correct (genderismo, neofemminismo, assetti geopolitici, ecc.) e le successive alleanze degli ex compagni col postsessantottino Jean-Luc Mélenchon, che tace sull’euro e vuole solo riformare l’Ue in senso sociale, aprendo così la strada a Hollande – è comprensibile, ma non lo condivido affatto, dato che, per così dire, egli vede prima in Jean-Marie e nella figlia un perno per scardinare il sistema euro e dare sovranità monetaria alla Francia. Ma è veramente così? Dimmi con chi vai, dice un proverbio, e ti dirò chi sei: non dimentichiamo da chi è composto il Fn di Marine Le Pen, e cioè da militanti che palesemente – consiglio di leggere la stampa collaterale al partito o frequentare i siti web dei movimenti neofascisti, da me descritti nel libro, che appoggiano il frontismo – elogiano la Francia di Vichy e del collaborazionista Petain nonché l’epopea coloniale dei pied-noir (il papà era un parà della Legione), atlantisti, sterminatori e cancellatori della sovranità nazionale degli algerini e dei vietnamiti prima degli americani stessi.
La sovranità nazionale, conculcataci dalle lobby bancarie a vantaggio dell’alta finanza e del liberoscambismo, secondo Moreno Pasquinelli «è solo un concetto che, calato nella pratica, può assumere diverse forme, e alle forme corrispondono diversi contenuti»: infatti anche gli statunitensi e gli israeliani sono gelosi della loro sovranità, ma non li paragonerei mai ai palestinesi, ai cubani, ai venezuelani e agli ucraini del Donbass e del Donetsk, che combattono da partigiani contro i collaborazionisti neonazisti filoamericani assoldati dall’Unione europea a guida tedesca della Merkel. Inveire, come fa giustamente la Le Pen, contro il liberismo, la globalizzazione e Adam Smith, non fa di lei la “Che Guevara” del XXI secolo, dato che poi non solo si dimostra antislamica (e l’Islam è un nemico creato a tavolino dalla disinformazija occidentalista), ma, come spiegava il settimanale filoberlusconiano Panorama il 6 dicembre 2011, l’allora neoleader del Fn «È poi volata a New York ai primi di novembre e ha incontrato per 20 minuti l’Ambasciatore d’Israele all’Onu, Ron Prosor. E il quotidiano Haaretz le concede una possibilità, purché la condanna dell’anti-semitismo sia “chiara e forte”. A Palm Beach, Marine ha cenato con 200 repubblicani del Tea Party da Bill Diamond, finanziatore ebreo di Rudolph Giuliani». Insomma, è eccellente condannare il razzismo antiebraico, ma le sviolinate allo Stato d’Israele e alla destra repubblicana, la stessa che sostiene l’Euromaidan (il sen. McCain, sponsor degli “arancioni”, è vicino al Tea Party), mi ricordano quelle dell’atlantista missino Giorgio Almirante e del pupillo Gianfranco Fini sin dai tempi della Guerra dei sei giorni (1967), messaggi subliminali per dire a chi di dovere: «Ok, noi, sempre se sarà il caso ovviamente, magari usciremo dall’euro senza però mettere in discussione le alleanze geopolitiche che legano l’Europa occidentalista agli Stati Uniti, che sono filoisraeliani e antislamici, gli stessi che desiderano il mantenimento dello stato di debito strutturale che ingessa il Vecchio Continente». Insomma, cosa rende Marine tanto “diversa” rispetto a un’europeista di sinistra come Mélenchon o Tsipras?
Veniamo dunque ad Alain De Benoist, saggista molto letto in Francia e, talvolta, anche in Italia. Che rapporto c’è tra lui e l’ascesa del Front National?
Secondo alcuni, come Guido Caldiron, il legame fra Nuova Destra e Front National è diretto, ma per me no: de Benoist, che reputo uno dei filosofi più acuti a cavallo fra il XX e il XXI secolo alla pari del marxiano Costanzo Preve e di pochi altri (non a caso diffusi nell’underground), non si metterebbe mai al servizio di un partito. Come spiego ampiamente nel libro, le idee elaborate dal filosofo e dalla sua società di pensiero, il Greece, transitarono nel Fn in maniera indiretta: all’inizio grazie all’autorevolezza debenoistiana – collaborava a Le Figaro-Magazine e ad altri periodici – e per mezzo dell’azione di think tank come il Club de l’Horloge (CdH), nato per concretizzare le idee “impolitiche” del Grece mettendole al servizio delle destre. Quando de Benoist inizia un percorso che lo porta a contestare certi postulati apertamente reazionari come l’americanismo, il libero mercato o il razzismo biologico, il CdH si avvicinerà sempre di più al Fn e all’Udf/Rpr (i gollisti, antenati dell’Ump), mentre diversi esponenti del Grece, contestando l’evoluzione in senso “sinistrorso” di de Benoist, transiteranno nel partito populista o addirittura in area “nazional-repubblicana”, dando così il loro apporto – mutuato dal vecchio Grece – a tale area, animando una corrente “nazional-rivoluzionaria”, forte fra i giovani.
Oggi le cose sono cambiate: ho registrato diverse personalità vicine al Grece – o che ne hanno fatto parte in tempi non troppo remoti – transitare nel partito lepenista. Alcuni di loro, come Christian Bouchet, deputato frontista di Nantes, negli anni ’90 vicino all’ala “nazional-rivoluzionaria” (e nazionalbolscevica) del Grece e poi nella “Terza posizione francese”, ora si occupa di sociale e di mondo del lavoro nel partito di Marine Le Pen. L’ecologista antimoderno Laurent Ozon, che è un’esponente della corrente eco-decrescista “Nouvelle Écologie” e regionalista doc, presente a molte Université d’été del Grece, alle Convention Identitaire di associazioni localiste distaccatesi da de Benoist che hanno legami col Carroccio (come Terre et Peuple dell’ex presidente del Grece Pierre Vial, legata ai leghisti di Terra Insubre o il Bloc Identitaire, partitino regionalista gemellato ai Giovani Padani che ha optato per la Le Pen alle europee) o alle iniziative organizzate dei nazionalrivoluzionari di Synergies européennes (che aveva la sua sezione italiana attorno al mensile di estrema destra Orion, che lo invitò all’Università d’estate 1994 a occuparsi di “Ecologismo e alimentazione”), raggruppamento animato da Robert Steukers, interlocutore di Soral, dopo una breve parentesi come osservatore nei Verts, ecologisti di sinistra, è stato cooptato nel 2011 ai vertici del Front e messo a capo di un dipartimento incaricato di occuparsi di temi fino a quel momento snobbati – come notava de Benoist dagli anni ’80 – come l’ecologismo e il regionalismo. Il tutto in un partito nazionalista e “giacobino”. È così, e non come spiega Caldiron, che tali idee transitano nel Front.
De Benoist, per concludere, non è senz’altro direttamente “reo” dell’ascesa del Front. Tali ambienti, insomma, fanno solo il loro dovere politico e si muovono indipendentemente dal Grece, ma a volte lo coinvolgono. Come spiego alla fine del mio libro, è la sinistra che non fa il suo ruolo! Il politically correct e la Bce sono loro i responsabili dell’ascesa della Le Pen.
Dobbiamo preoccuparci oppure accogliere con favore questa affermazione del Front National?
Quella di maggio era una tornata europea, che di solito (ma il caso Renzi è l’eccezione italica che conferma la regola) penalizza i governi. Penso piuttosto che l’affermazione della Le Pen, darà vita a un riavvicinamento del centro-sinistra al centro-destra in vista delle presidenziali o delle politiche, dato che entrambi, in maniera diversa, sono europeisti (insomma, Sarkozy non era l’erede di De Gaulle). In questo caso l’affermazione della Le Pen a tali tornate metterebbe in discussione gli assetti comunitari, sempre tenendo presente che Marine ha contatti con la destra repubblicana americana e con gli ambienti filoisraeliani, che condizionano senz’altro la radicalità di certe scelte. Ecco perché Marine, suo malgrado, rimane funzionale al sistema: perché rischia di compattare attorno alla lotta contro lo “spauracchio fascista in gonnella” una “Grosse Coalition” francese che proseguirebbe in nome dell’autoconservazione le politiche liberiste dettategli dalla troika.
Cosa si intende per “Nuova Destra in Europa” e quali sono i suoi tratti distintivi? In cosa si differenzia dalla “destra” comunemente intesa?
La “Nuova Destra in Europa” da me analizzata nella prima parte del libro è una corrente culturale sviluppatasi dalla fervida mente di un gruppo di giovani provenienti dall’estrema destra nazional-europeista francese alla fine degli anni ’60 che aveva come mentore quel Dominique Venner, noto per essersi suicidato nel giugno 2013 a Notre-Dame come protesta contro la legge Taubira che, secondo lui, era uno dei tasselli, assieme all’immigrazione, per attentare alla centralità della famiglia tradizionale. Venner, ex militante dell’Oas, capisce che l’area neofascista francese, ghettizzata numericamente ed elettoralmente, andava revisionata e che non bastava più una strategia esclusivamente politica, ma culturale, un nuovo agire nella società civile per ottenere un’egemonia nel pensiero collettivo. Solo così si sarebbe ottenuta l’egemonia politica. il tutto era mutuato dal filosofo marxista Antonio Gramsci, teorico, secondo loro, dell’egemonia culturale. Dal suo gruppo, Europe-Action, nasce nel 1969 il Grece, il Groupement de recherches et d’études pour la civilisation européenne, un’associazione culturale che agisce esclusivamente in ambito culturale, e non politico, che aggrega molti di quei giovani, il cui leader indiscusso è il filosofo normanno Alain de Benoist.
Il gruppo – ma è sempre de Benoist, scrivendo più di tutti, a dettare la linea –, partendo da Nietzsche, dalla Konservative Revolution (rivalutati grazie all’ex ordinovista romano Giorgio Locchi) e addirittura da intellettuali provenienti dal fronte opposto (si pensi al citato Gramsci), inizia a mettere in discussione molti dei postulati della cosiddetta “vecchia destra”, quali il nazionalismo patriottico (a cui viene contrapposto il regionalismo e l’europeismo federale, l’Europa dei Popoli), il cosiddetto “mito egualitario” su cui si fonda l’odierna società liberale (a cui viene contrapposto, però, non il razzismo biologico che gerarchizza le differenze, ma il differenzialismo culturale e l’etnopluralismo, che supera il razzismo classico sostituendo le razze con le culture, “culturalizzando” il discorso e fondandolo sulla presunta incommensurabilità e differenza fra le culture, assolutizzando così le differenze), arrivando a rivalutare anche il paganesimo, dato che, secondo Alain de Benoist, è la spiritualità giudaico-cristiana ad aver introdotto l’idea di uguaglianza davanti ad una verità assoluta rivelata dall’alto. Idea che, traslata in un contesto secolarizzato, traspone quell’equivalenza sul terreno propriamente umano, del quale i rappresentati escatologici sarebbero le nuove religioni egualitarie, ovvero il liberalismo, il socialismo, il comunismo e l’anarchismo, e i totalitarismi tout court, siano essi di destra o di sinistra, perché, secondo il filosofo, hanno annullato le differenze come lo Stato-nazione ha omologato quelle interne alle comunità. Insomma, una vera e propria rivoluzione culturale.
Col passare dei decenni il suo pensiero si articola sempre di più: negli anni ’80 e ‘90, perdendo fette consistenti di intellettuali che transiteranno poi nel Front o in altre realtà “di destra”, de Benoist, con un percorso che tende a non rinnegare i passi fatti in precedenza ma a integrandoli, identifica nell’America e nella sua Way of life mondialista, e non nell’Urss, il vero nemico, supera l’etichetta secondo lui obsoleta di destra e sinistra (e sembra che l’agire dell’odierna politica liberaldemocratica stia dando ragione a lui e ad altri che la pensano come lui) aprendo un dialogo con personalità eretiche provenienti dal mondo progressista – Alain Caillé, Serge Latouche e gli antiutilitaristi del Mauss, la redazione americana di Telos, rivista della “sinistra critica” di Paul Piccone, gli ecologisti radicali, alcuni intellettuali noglobal e ultimo su tutti, il filosofo marxiano Costanzo Preve – e da intellettuali provenienti da destra (il cattolico antimoderno Thomas Molnar ad esempio… e non dimentichiamo che in quel periodo de Benoist collabora con le Édition Pardés, evoliane, traducendo i testi della Konservative Revolution e facilitando la diffusione delle opere di Evola nell’Esagono, così come oggi egli dialoga con intellettuali e personalità politicamente vicine alla destra identitarista) per animare una “nuova sintesi” trasversale e postmoderna capace di creare un nuovo pensiero per superare l’impasse che l’Europa liberale sta affrontando, capace di riprendere elementi del pensiero “di destra” – l’identitarismo, l’interesse per le tradizioni di tutte le comunità d’Europa – con quelli di “sinistra”, come l’ecologismo integrale, la decrescita, la socialità, il comunitarismo e la critica all’idolatria della modernità assoluta. Insomma, un pensiero che senz’altro attrae e affascina, ma che in certi suoi passi rimane saldamente ancorato alle prime analisi fatte dal Grece nei primi anni ’70, quando l’ambiente stava esplicitamente a destra. Insomma, un’evoluzione nella continuità.
Dopo tanto clamore sulle temute sigle “anti-euro”, alla fine l’unico gruppo che è riuscito a costituirsi – con fatica e grazie all’apporto del M5S – è stato quello dell’EFDD proposto da Farage con il suo UKIP. Marine Le Pen non ce l’ha fatta, nonostante l’alleanza con Matteo Salvini. Le forze sembrano essere assai frammentate: non solo non riescono a creare un unico gruppo, ma neppure a crearne un secondo. Possiamo dire much ado about nothing?
Si, senz’altro … quella dell’emergenza fine a se stessa è il sistema che l’Ue usa – ripeto, l’Ue è una minaccia perché è gestita da un’élite finanziaria che amministra il continente come un’azienda, trattando i suoi “non-cittadini/sudditi” come “utenti” o “risorse” – per rinsaldare i consensi di un ceto medio timoroso di fare il cosiddetto salto nel vuoto – rendendosi funzionale all’Alta Finanza –, a cui si aggiunge la martellante propaganda nelle emittenti pubbliche su quanto siamo fortunati ad essere nell’Ue, degne di Goebbels o del Minculpop.
Azzardiamo una previsione. Come si immagina l’Europa tra dieci anni? Che effetti avrà avuto il “populismo”?
Sono iperpessimista verso l’operato umano, specie se occidentale… mi spiace. Probabilmente fra dieci anni – mi auguro di sbagliare – l’Ue diventerà sempre di più tecnocratica, élitista e neoliberista, capace di inibire ogni resistenza interna, sia di destra o di sinistra, sia quella anti-Ue di una Le Pen o delle frange antieuropeiste del movimento dei lavoratori, un attore che non va affatto dimenticato, anche se oggi sembra non aver più referenti seri, capace di annichilire gradualmente le identità dei singoli stati membri, sempre più omologati al modello aziendalista citato. Un’Ue federale a parole ma centralista nei fatti e sempre più inserita nel sistema unipolare, appiattito ad un modello fatto di partiti virtuali, primarie taroccate, fondazioni benefiche, raccolte fondi e donazioni fatte da filantropi liberal osannati dall’uomo della strada, ormai rimbambito, come modelli (vedi oggi Steve Jobs o Bono Vox degli U2), un mondo precario con un’assistenza sanitaria in mano ad assicurazioni private usuraie. Non lo dico io… un mondo così c’è già e si chiama Stati Uniti, e paga Parag Khanna, consigliere di Obama, per scrivere un libro dell’orrore intitolato Come si governa il mondo (Fazi, 2011), dove la globalizzazione liberista è un dato positivo, dove si auspica ad un “Medioevo postmoderno” dove i poli si azzerano, dove gli Stati non contano più, dove le merci girano per il mondo – tanto per aumentarne il valore – assieme a fiumane di disperati (ma la cosa è progresso), dove la diplomazia la fanno le Ong liberal, Soros (elogiato come Dio), le fondazioni benefiche, gli azionisti delle multinazionali, gli utenti dei social network, i cantanti rock punk e i “movimenti spontanei” (dalle Femen alle Pussy Riot fino alle varie piazze colorate), capaci di far scoppiare “rivoluzioni”, sempre colorate però, contro chi obbietta. E candidamente lo chiama “Il nuovo ordine mondiale. Quello vero”.
Ora, perché se questo “nuovo ordine mondiale” è denunciato da de Benoist su Éléments, da Tarchi su Diorama Letterario, da Murelli & Terracciano su Orion, da Preve o da un marxista qualsiasi sul mensile Le Monde Diplomatique, questi sono pazzi, complottisti, nazisti, bolscevichi o disfattisti, ma se il sistema è elogiato da Rockfeller, Soros, Reagan, Clinton, Bush, Obama e Khanna, allora questo è “Il sogno”? Glielo dico io perché: perché il libro è prefato da Federico Rampini de la Repubblica, il lettissimo giornale dell’Alta Finanza liberal, laica e democratica italiana, con un canale satellitare a favore del “dirittumanismo assoluto”, mentre gli altri – e ho citato anche persone che critico nel mio saggio, che hanno idee distanti dalle mie, ma che rispetto – sono nell’underground più oscuro. Ecco perché sono pessimista: perché vedo il trionfo dell’ebetismo, della falsità e del politically correct, reo dello sfacelo che ci circonda e non penso che i populismi avranno la forza – o la voglia, o la radicalità o la capacità – di pigiare l’acceleratore e di cambiare le cose alla radice, venendo incontro ai veri bisogni del cittadino. Ma io sono solo un pessimista.