Cambia il mercato energetico, crescono le energie rinnovabili, ma la produzione di petrolio è aumentata
Sono molte le contraddizioni nel mercato energetico italiano, e si attendono le risposte dal governo Letta. È ancora aperta infatti la battaglia fra i sostenitori delle fonti fossili (il petrolio in prima linea) e quelli che vorrebbero affidare il futuro energetico del nostro territorio alle rinnovabili. In Italia nell’ultimo anno i consumi di petrolio sono scesi: la Relazione annuale petrolifera indica un calo del 9% rispetto al 2011, pari a 63.3 milioni di tonnellate. C’è un’ondata di cambiamento che in parte è stata indotta dalla crisi economica, in parte dalla crescita delle energie rinnovabili che corrisponde al 28% dei consumi elettrici degli italiani. Eppure, la produzione di petrolio è aumentata: nel 2012 sono stati estratti 5.4 milioni di tonnellate, il 2,5 % in più rispetto a quello precedente. Inoltre, ad aumentare sono soprattutto i permessi, le concessioni e le richieste per estrarre le risorse ancora disponibili nei fondali marini.
Ma conviene investire ancora sulle ricerche petrolifere?
L’Italia ha diposizione circa 10 milioni di tonnellate di petrolio, che stando ai consumi attuali durerebbero appena due mesi.
La Strategia energetica nazionale prevede un aumento del 148% nella produzione annuale di greggio, portando le attuali estrazioni da 5 milioni di tonnellate a oltre 12 milioni di tonnellate estratte. Ma le riserve del sottosuolo si esaurirebbero in 10 anni. Il rilancio delle trivellazioni con quindici miliardi di euro di investimenti porterebbe 25 mila posti di lavoro. I numeri cambiano se ci concentriamo sul mercato delle energie rinnovabili. Una politica del risparmi energetico garantirebbe 250.000 posti di lavoro, con il vantaggio di ottenere fonti energetiche pulite.
Legambiente nel rapporto “Per un pugno di taniche” dello scorso 17 Luglio, denuncia gli errori compiuti negli ultimi dieci anni in ambito energetico: “Invece di ragionare su come aumentare la produzione di petrolio nazionale– spiega l’associazione ambientalista- avremmo potuto mettere in campo adeguate politiche di riduzione di combustibili fossili, a partire dai settori che sono ancora indietro su questo. Ad esempio invece di regalare al settore dell’autotrasporto ogni anno circa 400 milioni di euro sottoforma di buoni carburante, sgravi fiscali e bonus per i pedaggi autostradali, si fossero utilizzati per la nuova mobilità, rendendo più sostenibile il modo con cui si spostano merci e persone in questo paese, avremmo avuto riduzioni della bolletta petrolifera e delle importazioni del greggio e delle importazioni di greggio ben maggiori e durature rispetto al pungo di taniche presente nei mari e nel sottosuolo italiano”.
Ma a destare preoccupazione è il possibile impatto ambientale che le ricerche del greggio potrebbero avere sui territori a forte vocazione turistica. Sebbene siano state rafforzate le condizioni di sicurezza per raggiungere gli obiettivi della direttiva europea 2008/56/CE, ossia lo stato ambientale buono entro il 2020, continuano ad essere violate molte condizioni. È il caso del progetto di estrazione della piattaforma petrolifera Ombrina mare in Adriatico centrale avanzato dalla Medoilgas, che lo scorso 25 gennaio ha ottenuto il parere positivo dalla Commissione per il VIA. In quella circostanza è stata dura la risposta da parte della società civile. Le associazioni ambientalisti hanno subito denunciato le irregolarità delle procedure di autorizzazione (Legambiente, Wwf e oltre 250 associazioni).
Secondo la direttiva europea, infatti, le compagnie petrolifere hanno l’obbligo di redigere un’accurata relazione sui grandi rischi e su eventuali incidenti che possono verificarsi. Inoltre, il Governo deve verificare se ci sono tutte le garanzie economiche da parte della società petrolifera per coprire i costi di eventuali incidenti e di applicare tutte le misure necessarie per individuare i responsabili del risarcimento in caso di gravi conseguenze ambientali. Ma c’è un ulteriore aspetto che va evidenziato: si prendono decisioni politiche senza considerare il parere dei cittadini, degli enti e degli amministratori dei territori. E lo testimonia la decisione politica dello scorso 14 giugno, quando è stato espresso un parere positivo alle richieste avanzate per la prospezione in mare da parte di due compagnie straniere, l’inglese Spectrum Geolimited e la Petroleum Geo Service Asia Pacific con sede a Singapore. L’area interessata coinvolgerebbe tutto l’Adriatico: da Ravenna fino all’estremità della Puglia.
Ciò che in definitiva rimane invariata è la percentuale delle royalties: in Italia si assestano intorno al 7% mentre nel resto del mondo si va dal 20% all’80%. E gli interessi delle lobby del nero sembrano voler superare qualsiasi tentativo di salvaguardare le bellezze del territorio italiano e mondiale. Greenpeace nel luglio 2012 con il rapporto “Meglio l’oro blu dell’oro nero”aveva denunciato il pericolo delle trivellazioni: “Con l’esaurimento dei giacimenti di petrolio più facilmente ed economicamente sfruttabili– si legge nel rapporto- le compagnie petrolifere hanno iniziato a guardare con interesse ai giacimenti prima considerati scarsi e di difficile accesso, tra cui le acque profonde dei nostri mari. Si stima che il 13% della produzione di petrolio nel mondo derivi da fonti non convenzionali, di cui le perforazioni in acque profonde rappresentano più del 75%. Le richieste di permessi per perforazioni in mare in aree di altissimo valore ambientale si moltiplicano dal Brasile al Golfo del Messico, dall’Artico al nostro Mediterraneo. E le grandi compagnie in gioco sono sempre le stesse, dalla Shell, alla British Petroleum alla nostra ENI. È chiaro che se non investiremo nelle energie alternative e non spingeremo sull’efficienza dei trasporti il rischio di trivellazione in mare aumenterà con il diminuire delle risorse convenzionali di petrolio”.