Salone del Libro: politica, cultura e impegno
Il Salone del Libro è sempre un’esperienza piena di contraddizioni: dove puoi passare una giornata intera ad ascoltare banalità e luoghi comuni da scrittori, giornalisti e intellettuali main-stream, ma anche dibattiti, idee e tesi che non passano nei grandi media informativi. In questo ultimo articolo vi parleremo proprio di questo ultimo aspetto, con il resoconto di tre interessanti eventi svoltisi nella giornata di Venerdì 17 maggio.
Iniziamo con un interessantissimo incontro intitolato “Le mafie in Italia. Un dizionario enciclopedico”, con la presenza del Procuratore di Torino Giancarlo Caselli, di Raffaele Cantone, di Don Luigi Ciotti e, naturalmente, di Claudio Camarca che è il curatore del libro.
Il libro è un vero e proprio dizionario, scritto da 17 autori che si sono distinti per il loro impegno antimafia, che configura una mappa scientifica della criminalità organizzata in Italia, per la prima volta ricostruita in tutte le sue articolazioni: i personaggi, le cosche, gli inquirenti, le vittime, i fatti, i luoghi, i processi, le collusioni. Un libro che, come ha sottolineato Camarca, a differenza di altri, non contiene nessun parto di fantasia romanzesca, ma è il risultato di otto mesi di lavoro e dello studio degli atti giudiziari depositati. Un libro necessario, perché la mafia non è un problema solo meridionale, ma un fiume carsico che percorre tutta la storia del nostro Paese fino ai giorni nostri.
Tutti gli interventi sono stati significativi, importanti e da ascoltare, ma vogliamo riproporre qui, per i lettori di Corretta Informazione, quelli che a nostro avviso sono stati quelli che più hanno scaldato i cuori e le menti, quello di Giancarlo Caselli e, soprattutto, di Don Luigi Ciotti.
Giancarlo Caselli ha iniziato il suo intervento ricordando il nome di chi fortemente voluto questo libro ma, purtroppo, non l’ha potuto vedere pubblicato: Roberto Morione. E chi è Roberto Morione? È colui che ha ripescato, riesumato, un intervista sepolta, nascosta, occultata: quella a Paolo Borsellino che, pochi giorni prima di essere assassinato da Cosa Nostra, parla di ramificazione della mafia al nord, Milano in particolare, facendo nomi e cognomi. Questo libro, ha continuato Caselli, non è soltanto un libro, come si potrebbe superficialmente pensare. Si può fare, infatti, l’antimafia in molti modi: con l’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura, ma anche attraverso l’informazione, parlando di mafia il più possibile e rendendo, così, l’opinione pubblica consapevole del problema mafioso. Vi sono stati in questi anni – ha continuato Caselli – da parte dei media ricerche sul problema mafia in diverse maniere: da una parte ricerche scientifiche, fruibili solo da un pubblico di specialisti e, all’estremo opposto, cose di livello inferiore (film e telefilm in particolare), dove tutto è stato semplificato, banalizzato o, addirittura, esaltato. Un’esaltazione del male che suggestiona e condiziona i giovani ancora senza filtri. Questo dizionario, invece, secondo Caselli, ha il merito di collocarsi in una posizione intermedia: non è, cioè, destinato solo agli addetti ai lavori, ma è anche un’opera di divulgazione, capace di avvicinare il grande pubblico (soprattutto quello giovanile) e costituisce un unicum sul versante della informazione antimafia. Caselli, poi, non ha potuto non commentare la morte di Giulio Andreotti, parlando in particolare della pessima informazione sulla gestione degli esiti del suo processo che è, comunque, un pezzo importante della nostra storia. Dai media e dall’informazione, invece, sembra che Andreotti sia stato assolto e sia stato vittima della magistratura. Nessuno, o quasi nessuno, invece ricorda che una sentenza della Cassazione ha affermato che Andreotti è colpevole di aver avuto rapporti organici con la mafia fino al 1980. Risultano, infatti, accertati due incontri con il “Principe di Villagrazia” Stefano Bontate, da cui Andreotti viene a sapere chi e perché ha ucciso il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, ma non dice nulla e, così facendo rafforza la mafia. Inoltre, conclude Caselli, se Andreotti fosse veramente stato dichiarato innocente perché mai la difesa è ricorsa in Cassazione? “Non ho mai, nella mia vita di magistrato, visto un solo imputato assolto ricorrere in Cassazione”.
L’incontro è poi proseguito con un breve intervento del magistrato Raffaele Cantone, per il quale il tema della mafia sarebbe ormai totalmente scomparso dall’agenda politica e dell’informazione perché “la gente si sarebbe stufata di sentir parlare di mafia”. I guru dell’informazione, come li ha definiti Cantone, danno un’immagine distorta degli interessi dei cittadini e, anche per questo, non bisogna abbassare l’attenzione e continuare a parlare di mafia. Questo libro, dunque, ha concluso Cantone, è una grande operazione culturale, ricordando come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dicessero che la lotta alla mafia si fa sì con la repressione, ma richiede soprattutto conoscenza. Il loro più grande lascito, infatti, è stato quello di aver fatto capire che si deve parlare di mafia ovunque.
Ha concluso l’intervento Don Luigi Ciotti che ha ricordato ancora Roberto Morione, denunciando l’ignoranza, il silenzio, la rimozione paurosa e complice che ci ha accompagnato per tanti, troppi, anni e che è stato un fattore decisivo per consentire la presenza della mafia nel nostro Paese. Non è stato ancora compreso, ha proseguito Don Ciotti, che è la cultura l’elemento fondamentale per dare la sveglia alle coscienze e dare gli strumenti alle persone per essere più libere, ricordando come in Italia sei milioni di persone sono ancora analfabete. Il sapere, però, è solo il preambolo perché, poi, è necessario valutare cosa ne facciamo della nostra cultura. E ciò si vede anche in tante opere che vorrebbero essere strumenti di lotta alla mafia ma, in realtà, sono autoreferenziali e servono soltanto al proprio autocompiacimento, narcisismo, esibizionismo. La grandezza e l’utilità del sapere deriva da due ingredienti fondamentali: l’umiltà e la responsabilità, perché quanto più un sapere è profondo e tanto più si rende conto dei suoi limiti. Ha poi esortato il pubblico, ma soprattutto i più giovani, a scegliere sempre da che parte stare, a scegliere “la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”, per citare Paolo Borsellino. Non cadiamo nell’illusione, ha concluso Don Ciotti, nell’illusione interessata che la mafia sia stata sconfitta. La mafia si è semplicemente normalizzata e, nel contempo, la nostra società si è “mafiosizzata”,con la legge che è diventata privilegio e la legalità che è diventata oppressione. Non si può sconfiggere la mafia soltanto con la repressione, è necessario, invece, riconoscere alle persone i loro diritti: lotta alla mafia vuol dire, infatti, servizi, lavoro, politiche giovanili, sostegno alle famiglie, cultura, percorsi educativi ma, soprattutto, leggi giuste. L’ultima sfida, infine, è quella di “demitizzare” e a quest’obiettivo deve predisporsi l’informazione sulla mafia. Bisogna smettere di raccontare mafia e antimafia come mondi a parte abitati da figure straordinarie, dobbiamo far capire che il cambiamento ha bisogno di ciascuno di noi, che le mafie si sconfiggono, non con azioni straordinarie, ma con azioni collettive, perché soltanto unendo le forze degli onesti la richiesta di cambiamento diventerà forza di cambiamento e chiamerà in gioco ciascuno di noi.
Dopo questo incontro, che certamente ha colpito e invitato a riflettere tutti coloro che vi hanno partecipato, abbiamo assistito al secondo evento della II giornata al Salone del libro di Torino. L’incontro era intitolato: “Sulla natura del potere”, per presentare il libro “Intervista al potere”, di Luciano Canfora, presente all’incontro insieme a Gustavo Zagrebelsky. Un’incontro vivo, dialettico e pieno di spunti di riflessioni.
Ha introdotto la presentazione Zagrebelsky che, presentando il libro, lo ha definito una riflessione sulla storia, europea ma non solo, che abbraccia millenni di storia, in cui si trovano tantissimi spunti che rendono il libro particolarmente stimolante, con molte opinioni eterodosse e non conformiste: contro il mito dell’Europa unita, ad esempio, ma anche la relativizzazione del pensiero di Hannah Arendt sul concetto di Totalitarismo.
L’intervento di Luciano Canfora è iniziato con una citazione di Berlinguer sul “valore universale della democrazia”. Una definizione, secondo Canfora, ingenua, perché nella storia non esistono valori eterni, ma valori che si creano in base alle contingenze storiche. Oggi, ad esempio, siamo nell’epoca della “post-democrazia”. Proprio su questo argomento è iniziato il dibattito con Zagrebelsky, perché la visione di Canfora, secondo lui, è una visione realista, ma una cosa è prendere atto di quello che c’è in un dato momento storico, un’altra escludere e archiviare l’esperienza democratica, come se parlare oggi di democrazia fosse soltanto una pia illusione.
La domanda uscita dal dibattito è stata: la democrazia ha ancora qualcosa da dirci?
Per Canfora il problema che va messo in luce, e che ci rende cittadini, è che tra la realtà concreta e l’idea forza esiste un salto mortale. Ha poi illustrato come l’idea di democrazia non è quella che ci viene presentata oggi, in cui si intende soltanto la sua forma rappresentativa. Il termine che egli utilizza è “Isonomia” che prevederebbe una legge uguale per tutti e che si divide ugualmente tra tutti. Due concetti, libertà e giustizia, che, però, stentano a stare insieme. Oggi, inoltre, vi è anche il problema dello Stato nazionale che ha cessato di essere un’unità di misura universale e, per questo, ci troviamo di fronte a svolte che mettono in crisi una democrazia diventata pura retorica e messa in pericolo dalle stesse istituzioni europee e dalla fine dei partiti politici, rendendo vulnerabili i cittadini che sono esposti alla “competenza autoritaria dei tecnici”. L’unica salvezza, ha concluso Canfora l’incontro, è, dunque, rappresentata dalla scuola e dagli insegnanti, invitando a educare i nostri ragazzi all’anticonformismo e a trasformare le buone idee in opinioni.
L’ultimo incontro potrebbe risultare essere, per chi non conosce la problematica, a carattere locale, mentre ha valenza anche nazionale, se non internazionale. Stiamo parlando del discusso (e discutibile) questione del TAV (Treno alta velocità Torino-Lione), e insieme all’ideologia e alle problematiche ambientali, sociali ed economiche che porta con sé. Per parlarne si è preso spunto da due libri: “Il binario morto” di Andrea De Benedetti e Luca Rastello e “Prepariamoci” di Luca Mercalli.
Due libri che, come hanno sottolineato gli autori, viaggiano insieme.: due libri sulla crisi che sta distruggendo le nostre società e di cui il TAV ne è simbolo e paradigma. La Torino-Lione, hanno ricordato Andrea De Benedetti e Luca Rastello, fa parte di un progetto molto più ampio, il corridoio 5, che, a sua volta, fa parte di un progetto europeo che dovrebbe rendere più efficiente il commercio in Europa. Peccato, però, che in questi quindici anni a nessun giornalista, ad eccezione degli autori, sia venuta in mente un’idea elementare ma, al tempo stesso, fondamentale: andare a vedere come stavano veramente le cose nel resto del corridoio che avrebbe dovuto collegare Lisbona con l’Ucraina. Il libro di De Benedetti e Rastello percorre questo viaggio da Lisbona e la prima cosa di cui si sono resi conto è’ proprio che nessuno si era spinto a vedere come prosegue il corridoio e se prosegue il lavoro per l’alta velocità. È sembrato, infatti, che in questi anni la questione si risolvesse solo nella Torino-Lione. Le cose, però, non stanno così. Il “corridoio che non c’è” dovrebbe essere una struttura che investe tutto il continente e messa in crisi dalla sola Val di Susa. Non è vero. In nessuna parte dell’Europa esiste un progetto infrastrutturale sull’alta velocità. Basta andare, come hanno fatto gli autori, a Brescia (non in Ucraina) per scoprirlo, perché costa troppo e, a causa del territorio sfruttato troppo, non si passa. Quando, poi, si dice: “le merci italiane, attraverso l’alta velocità, potranno essere vendute in tutto il mondo” ancora una volta si mente, perché le merci non possono viaggiare ad alta velocità. Ci vengono vendute bugie, hanno dichiarato gli autori, facilmente verificabili se solo un cittadino o un politico avesse avuto la pazienza di alzare la cornetta del telefono. Basti poi pensare che per questo progetto le previsioni ufficiali ci dicono che l’operatività si avrebbe solo nel 2035 e il pareggio costi-benefici nel 2070. La conclusione, dunque, è che vi sono tre modi per prevedere il futuro: la divinazione, il comunismo o il TAV.
La questione del futuro, dunque, che è l’elemento che mette in relazione il libro di De Benedetti e Rastello e quello di Luca Mercalli, per il quale, al di là dell’ironia, l’unico metodo per prevedere il futuro, nonostante i suoi limiti, è ancora il metodo scientifico. Ed è con il metodo scientifico che possiamo coerentemente prevedere che il nostro domani sarà un futuro in contrazione: nel prossimo futuro, cioè, molto probabilmente, non dovremo pensare a come spostare merci, ma a come sopravvivere. E, a questo proposito, un’altra informazione non verificabile sul TAV è che servirebbe per risparmiare energia. In realtà, ci ha spiegato Mercalli, quando si realizza una grande opera si devono far muovere delle macchine (in questo caso per dieci anni), con consumo di gas, gasolio, elettricità: tutto un sistema che consumerà energià, creando inquinamento ed emissioni certe, e, poi, forse, recupererà energia, comunque in tempi lunghi e solo se andrà a pieno carico. Il TAV è, dunque, secondo Mercalli, un’opera dagli svantaggi certi e dai vantaggi incerti. L’incontro si conclude, e con esso la seconda giornata al Salone del Libro di Torino, con la smentita dell’ennesimo luogo comune: quello secondo cui i francesi avrebbero già finito tutto ed è colpa dei “cattivi valsusini” se il progetto è bloccato. A parte il fatto che la protesta inizia a montare anche lì, ci dice Mercalli, ma la cosa interessante è che anche i francesi non hanno ancora realizzato assolutamente nulla, se non tre cunicoli esplorativi. Se, infatti, c’è una speranza che questo progetto collassi va proprio riposta nei francesi, che si sveglino almeno loro da questo torpore, capendo che i soldi, in una situazione di crisi come quella in cui stiamo vivendo, vanno utilizzati in maniera migliore. Ciò che è certo è che, oggi, della Val di Susa a Parigi non gliene importa assolutamente nulla. Come nel resto dell’Europa d’altronde: il Portogallo ha rinunciato al corridoio 5 non riuscendo a far fronte all’investimento economico (anche se sui media italiani non se n’è parlato); la Spagna è in una situazione schizofrenica: da un lato sta spendendo l’inverosimile per l’alta velocità passeggeri (è il secondo Paese al mondo per chilometri di ferrovie ad alta velocità) che ha aggravato la crisi economica ma, dall’altro lato, lo Stato non investe più nulla sul trasporto merci.
Al contrario in Italia, dove il traffico ferroviario è stato drasticamente tagliato a partire dal 2012 con la sostituzione di corriere che rallentano i servizi e, dunque, inquinano, se ne è fatta ormai una questione di stato e il motivo, molto probabilmente, attinge a qualcosa di più profondo e, forse, inconfessabile.