Quali sono le origini della “voglia di maggoritario” e di semipresidenzialismo in Italia? Sono le soluzioni giuste per il nostro Paese?
Il 7 giugno 1953 Italo Calvino entra per la prima volta nellp “Piccola Casa della Divina Provvidenza” di Torino. Come candidato del Pci ha il compito di fare il giro dei seggi per aiutare i rappresentanti di lista in caso di contestazioni; ma si tratta di una visita di pochi minuti, più breve rispetto a quella durata due giorni che, come scrutatore, avrebbe fatto in occasione delle elezioni amministrative del novembre 1960.
Da questa esperienza, nel 1963 dopo un lavoro di circa dieci anni, nascerà il suo romanzo più tormentato, La giornata d’uno scrutatore, che si discosta nettamente da quella trilogia fantastica (I nostri antenati) che Calvino aveva da poco finito di pubblicare, ma che comunque non rappresenta una svolta nella sua produzione se si pensa alla Speculazione edilizia (1957) e alla Nuvola di smog (1958). La giornata d’uno scrutatore è un testo di crisi e di tormentata riflessione, non molto lungo ma fatto di periodi complessi, il cui protagonista Amerigo Ormea si ritrova (proprio come Calvino) a fare lo scrutatore al “Cottolengo”, e riflette sui temi “della infelicità di natura, del dolore, della responsabilità della procreazione” consegnandoci pagine compassionevoli, ma senza retorica.
Ma non è solo questo: è anche un romanzo politico, che affronta il problema del rapporto tra il cittadino e lo Stato, interrogandosi sul suffragio universale, e sulla possibilità di voto da parte di persone spesso incapaci di intendere e volere, e che denuncia la follia dei sistemi elettorali, ironizzando contro quella “legge truffa” del 1953 (anno in cui il racconto è ambientato), parente non troppo lontana della “Legge Acerbo” di trent’anni prima. Una legge, voluta dalla Democrazia Cristiana, che modificò in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale del 1946 assegnando alla coalizione che avesse raggiunto il 50% più 1 dei voti il 65%, ovvero i due terzi, dei seggi alla Camera. Una truffa, insomma, che scatenò proteste sia da sinistra che da destra e che non ebbe gli esiti sperati perché il premio non scattò per 57.000 voti.
Ora, alla trappola del maggioritario Luciano Canfora ha dedicato il suo ultimo libro, intitolato appunto, La trappola. Il vero volto del maggioritario, che ricostruire con quella rigorosa analisi storica e filologica che gli sono proprie la storia del nostro sistema elettorale dalla Costituente del 1946 e dal primo Parlamento repubblicano del 1948, eletti con un sistema proporzionale introdotto nel 1919 da Nitti, abrogato nel 1923 da Mussolini, ripristinato nel 1946, salvo la parentesi del 1953, e ancora affossato dal mattarellum (1993) e dal porcellum (2005) ancora sventuratamente in vigore.
La “voglia di maggioritario”, come la chiama Canfora, ha dunque rappresentato, nella nostra storia politico-elettorale, una tentazione costante come “scorciatoia verso la vittoria”; ma la “capricciosa follia del meccanismo maggioritario” ha portato solo a esiti disastrosi, come quelli a cui abbiamo assistito il 24 e 25 febbraio, che hanno sanzionato una situazione di ingovernabilità nonostante un abnorme e osceno premio di maggioranza a cui i partiti non sembrano aver intenzione di rinunciare.
Il maggioritario – e non è cosa da poco! – uccide il suffragio universale, annientandone il principio base un uomo/un voto e scontrandosi con l’articolo 48 della Costituzione sul voto uguale, che – scrive Canfora – può essere garantito solo attraverso un sistema elettorale proporzionale, “il male minore” che “costringe i partiti ad essere veramente tali, cioè a guadagnarsi davvero, e quotidianamente, il consenso, non già a studiare con quale combinazione riuscire vincitori al tavolo da gioco. Costringe i partiti a ridiventare veicolo di educazione politica di massa (unica vera risposta efficace all’obiezione di principio sull’‘incompetenza’ dell’elettore) quali furono i grandi e meno grandi partiti che costruirono la nostra Repubblica”.
Canfora mostra una preferenza per il modello tedesco (proporzionale corretto dallo sbarramento al 5%) a scapito di quello francese (uninominale a doppio turno) a cui oggi si guarda per l’introduzione in Italia del cosiddetto semipresidenzialismo. Tema che si è imposto nell’agenda politica – non è un caso – durante il settennato di Napolitano, presidente che si è dimostrato certamente al di sopra delle parti ma che, rispetto ai suoi predecessori, ha esercitato una influenza sempre più forte sui governi che si sono succeduti, assumendo un ruolo attivo, non solo più di garanzia. Si è trattato molto spesso di situazioni complicate – rese ancora più difficili da una folle legge elettorale che non ha decretato vincitori – in cui il capo dello Stato si è trovato a decidere, da solo, per riempire il vuoto di una politica inconcludente.
Non siamo, di fatto, di fronte ad un cambiamento? Non ci stiamo già avviando verso un sistema diverso? I segnali in questo senso sono tanti, e questi leciti interrogativi rappresentano un presupposto importante da cui far iniziare la discussione intorno al semipresidenzialismo, che è tema molto serio e non può essere ridotto a bandiera di parte, a propaganda per i propri interessi, a scorciatoia: qui si tratta di cambiare la forma dello Stato, così come era stata concepita dai costituenti, di attuare cioè una radicale modifica della Costituzione, che certamente nella sua seconda parte va rivista, per cercare di rendere più agile la macchina istituzionale.
È vero che questa è una crisi di sistema, in cui in crisi è la rappresentatività, quindi i partiti, e non le istituzioni, ma il meccanismo istituzionale è diventato in Italia troppo lento, ormai ingolfato da anni; il bicameralismo perfetto non funziona, ha prodotto solo governi instabili, ed è anche per questo che il processo riformistico ha fallito. Ora, non si deve pensare del semipresidenzialismo quello che si pensava a proposito del governo Monti: cambiare la forma di governo non consentirà di fare miracoli; ma credo che non sia un male, di fronte alla crisi della democrazia e dei partiti, ripensare la figura del capo dello Stato – l’unica che si è mostrata consapevole del proprio ruolo – facendone una figura politica che possa agire direttamente e prendere in mano, in prima persona, il governo condividendolo con il primo ministro.
Una operazione del genere – che è fisiologica e non patologica come dice Cacciari – può essere però pericolosa in un Paese che non ha ancora risolto alcune sue contraddizioni fondamentali, come il conflitto di interesse, dove non c’è una cultura di governo e assenti sono la moralità pubblica e il senso dello Stato, e dove uno dei maggiori leader attenta alla divisione dei poteri inviando i propri manipoli sotto il palazzo di Giustizia di Milano e dichiarando la guerra dei vent’anni, per poi il giorno dopo invocarne la fine in nome di una falsa pacificazione. Sarebbe inconcepibile vedere un tale leader, che inspiegabilmente ancora gode di un importante consenso, al vertice dello Stato. Con che faccia andremo in Europa, dove ci si dimette per aver copiato una tesi di dottorato? Guardare alla Francia è legittimo, ma per certi versi inopportuno: è vero che lì il semipresidenzialismo fu introdotto durante una guerra, ma non era quella dei vent’anni.
Un problema nuovo che si pone e che crea non pochi problemi ancora irrisolti riguarda l’elezione diretta a suffragio universale e, quindi, la “competenza” dell’elettore – tema che Canfora affronta nell’ultimo capitolo del suo pamphlet e di cui già Calvino ci aveva dato romanzata testimonianza: il Parlamento ha eletto nobilissimi presidenti della Repubblica; il popolo saprà fare altrettanto, sarà consapevole di questo compito delicatissimo, o si farà influenzare dal demagogo di turno abile a conseguire solo i propri interessi?
Tutto ciò – è ovvio – fa paura: ed ecco perché il semipresidenzialismo, se non si prenderanno tutte le precauzioni del caso, potrebbe rivelarsi un boomerang, e trovare difficile attuazione in un Paese come l’Italia dove l’anomalia è diventata normalità.
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semipresidenzialismo? mi pare una soluzione ottima per un semi-presidente, un aspirante dittatore da un metro e cinquanta, uno psiconano insomma.