Chi sono i ribelli che lottano in Siria contro il regime di Assad?
Tra le proteste egiziane, brasiliane e turche, sembra che la situazione in Siria sia ultimamente passata di moda. Eppure, dopo più di due anni di guerra civile, una soluzione nel breve-medio periodo appare sempre più irrealizzabile. Dopo l’incontro, tenutosi a Doha, tra i vari rappresentanti dell’opposizione siriana per creare una sorta di fronte comune, una vera alternativa e che possa condurre a un governo di transizione, e l’intervento delle milizie libanesi di Hezbollah, gli equilibri in campo sembrano mutare.
“Non è una battaglia che ci piace, ma non ci sottraiamo alle nostre responsabilità. Combatteremo in Siria per tutto il tempo che sarà necessario“, ha dichiarato il leader del movimento libanese, Hassan Nasrallah, dopo la decisione di Obama di rifornire i ribelli con 23 milioni di dollari in “armi non letali”.
Ma chi sono i famosi ribelli?
Secondo le dinamiche emerse in più di due anni di guerra civile in Siria, inizialmente le sommosse sono nate come rivendicazione civile e politica di una parte della società che ha avuto il suo apice nelle manifestazioni di piazza, così come in altri paesi del Medio Oriente toccati da quella che i media occidentali amano definire grossolanamente “Primavera Araba”. In un secondo momento, a causa delle repressioni portate avanti dal regime di Assad, la resistenza si è fatta armata, così da proteggere i manifestanti che continuavano a riversarsi nelle strade. È proprio durante questa trasformazione che sono entrate in campo forze esterne come quelle dell’Arabia Saudita e del Qatar. Non certo per motivi filantropici o in difesa dei diritti dei cosiddetti ribelli siriani, trattandosi, nel caso dell’Arabia Saudita, di una delle più rigide monarchie dei paesi arabi. Le motivazioni sono, come sempre, politiche ed economiche e questi due stati stanno da tempo dislocando le loro forze in Siria come in Egitto. A tal proposito è utile ricordare come il Qatar abbia cospicuamente finanziato i Fratelli Mussulmani, perdendo così in questi giorni un alleato regionale importantissimo e, a sua volta, sostenitore dei ribelli siriani. Più saggi, in questo gioco, i sauditi che hanno invece puntato tutto sul partito salafita di Al-Nour.
La cosa certa è che più il conflitto andrà per le lunghe più i ribelli avranno bisogno di essere armati, conseguenza che influirà pesantemente nella gestione dell’ipotetico dopo Assad. Coloro che sovvenzionano i ribelli diventeranno, in caso di vittoria, i veri padroni del Paese. Una caratteristica delle forze di opposizione in Siria, che le differenzia dalle altre “forze rivoluzionarie” regionali è la quantità di riunioni e incontri organizzati al di fuori dei confini siriani, per la maggior parte a Roma, Doha, Cairo o Istanbul. Questa dislocazione divide ulteriormente le forze ribelli in interne, riunite nei vari comitati di coordinazione locali (CLC) ed esterne, sotto l’egida del Consiglio nazionale siriano (CNS), organismo che riunisce centinaia di persone appartenenti a correnti diverse e al quale è stato più volte affidato il compito di parlare a nome di tutta la frammentata opposizione siriana, senza peraltro rappresentare appieno le correnti interne.
Nonostante i due anni di sostanziale stallo, qualcosa ultimamente pare stia cambiando, in seguito alla discesa in campo delle forze di Hezbollah a supporto dell’esercito regolare siriano di Assad. In poche settimane sono state riconquistate alcune città chiave tra cui Qusayr e, secondo fonti americane, si starebbe preparando un attacco per riprendere il controllo di Aleppo ed Homs. L’importanza strategico-militare di queste due città è così essenziale da portare il conflitto in una nuova fase, qualora dovesse andare a buon fine: il vantaggio politico e militare di Assad sarebbe tale da fargli riacquistare un peso specifico sul piano delle trattative.
Se all’avanzata delle forze governative si aggiungono gli omicidi mirati di ufficiali dell’esercito libero siriano (ELS) da parte delle forze qaediste di al-Nusra, i cui miliziani arrivano in gran parte da Iraq, Libia, Egitto, Tunisia, Giordania e Cecenia, interessati a contrastare la minoranza alawita più che alla resistenza, si capisce come questo affollatissimo scacchiere sia sul punto di ribaltarsi. Senza dubbio il caos siriano ha assunto ormai la dimensione di conflitto globale nel quale ognuno, dalla vicina Russia alla Cina passando per le potenze occidentali, si sente in dovere di giocare le proprie carte a difesa di più o meno dichiarati interessi particolari. A questa dimensione globale si sovrappone quella regionale, che interessa i paesi vicini alla Siria e, in particolare, Libano, Turchia, Israele, Iraq e Iran, senza dubbio il più importante attore esterno, attivo e dichiarato sostenitore di Assad.
Dopo il mancato accordo con Mosca nell’ultimo G8 e dopo che la famosa “linea rossa” posta da Obama pare sia stata superata, non resta che aspettare le prossime mosse del presidente premio nobel per la pace: rischiare di intervenire più massicciamente in una guerra che ha tutta l’aria di essere un Vietnam mediorientale o procrastinare ancora, mettendo a rischio il ruolo e la credibilità internazionale della politica estera americana.