Società dello Spettacolo: si può dire di non aver visto una cosa finché non la si è fotografata?
Nella sua opera La società dello spettacolo, Guy Debord, sociologo francese, scriveva: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale». Un rapporto sociale mediato da immagini. Questo rapporto ha avuto storicamente una propria processualità, ha mutato nel corso del tempo la sua funzione, è stato strumento di propaganda ideologica unilaterale, di costituzione di nuove forme culturali, di dominio (in)controllato di consenso. Se, tuttavia, proprio questa sua unilateralità, ossia la sua imposizione dall’alto, rendeva esclusivo il suo meccanismo – impossibile da gestire per alcuni soggetti sociali – vediamo oggi come la società dello spettacolo abbia subìto, negli ultimi vent’anni, una sua “democratizzazione” intrinseca, come abbia aperto i suoi confini di funzionalità, come abbia investito ampi settori di vita quotidiana.
La società dello spettacolo si tramuta così in società “in borsa”, nella quale ogni individuo si configura come suo azionista: non è importante tanto essere spettatore passivo ed inerte, quanto essere un integrato attore della scena. Dalla famosa frase pronunciata nel 1904 da Emìle Zola, «secondo me non si può dire di aver visto una cosa finché non la si è fotografata» possiamo ricavare due elementi fondamentali:
1) Il rapporto sociale mediato da immagini si serve di strumenti tecnologicamente d’avanguardia e soprattutto – questa è la chiave – accessibili a tutti: radio, televisione, fotografia, rete, e se vogliamo, ancora prima, di arti figurative, teatro, parate e riti collettivi;
2) La spettacolarizzazione tende sempre in ogni epoca, in misura relativa alla sua carica espressiva, a “naturalizzarsi”, cioè a normalizzarsi in un’entità naturale, a rendersi bisogno e filtro culturale e psicologico.
Potremmo oggi parlare – tanto più nell’era della digitalizzazione impetuosa – richiamandoci al filosofo Spinoza, di uno Spectaculum sive Natura, il mondo si fa immagine, le relazioni, i desideri, i luoghi, le persone, la materialità si tramutano in prodotti dotati di valore di scambio nel mercato libero e concorrenziale delle immagini. Come aveva già profetizzato Marx, ad un certo punto dello sviluppo storico del capitalismo mondializzato, «tutto rende a dissolversi nell’aria», ovvero il capitale umano e materiale finisce per virtualizzarsi in mercato liquido.
La società occidentale, che ha avuto tra le sue pretese odierne quella di secolarizzarsi, di spezzare le catene della superstizione scenica, finisce invece per aver creato una “religione panteistica delle immagini”, dove il nodo spirituale non si risolve nella Fede, ma nella Rivelazione: qualcosa esiste, col rischio di essere venerata, solo nella misura in cui si “rivela” al mondo sotto forma di immagine: fotografia, post, twit, servizi in onda, cartelloni pubblicitari. E come nelle religioni tradizionali il fedele professa al mondo la “parola”, così nella società dell’idolatria dell’immagine, l’individuo contribuisce alla sua espansione immettendo nell’enorme database nuovi flussi di materiale visivo.
Un interessante quesito da porsi oggi, a fronte di questo affresco di neo-totalitarismo, è il seguente: sarebbe possibile parlare di una nuova forma di “desublimazione repressiva” come ne parlava sessant’anni fa Herbert Marcuse? Una categoria irriducibile all’ambito sessuale (come nel caso freudiano e marcusiano), ma allargabile alla sfera del “desiderio di fama ed esibizionismo”. I moderni sistemi di socializzazione forniscono, anche all’individuo-utente meno social (rigorosamente in termini anglosassoni), straordinari, più o meno immediati, mezzi di spendibilità gratuita della propria immagine. L’ampliamento della “desublimazione” a dimensioni sempre più organiche e controllate della società dei consumi ci costringe al ritorno di uno studio globale e critico. Ogni epoca nasconde, quasi come un eterno ritorno, una propria alienazione.
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