Lunedì scorso sono state depositate le motivazioni della sentenza della corte d’Assisi d’Appello riguardanti il caso di Stefano Cucchi, quando il 31 ottobre 2014 erano stati assolti tutti gli imputati.
Nel documento di 67 pagine si evince come per i giudici “non c’è alcuna certezza“. Non è possibile individuare le condotte corrette che gli imputati avrebbero dovuto adottare, in quanto le quattro diverse ipotesi avanzate al riguardo (morte per sindrome da iniezione, morte per insufficienza cardio-circolatoria acuta per brachicardia, morte per esiti di vescica neurologica, morte cardiaca improvvisa), da parte dei periti d’ufficio, dai consulenti del pubblico ministero, parti civili e imputati, non hanno fornito una spiegazione esaustiva e convincente del decesso di Stefano Cucchi. Dalla mancanza di certezze, non può che derivare il dubbio sulla sussistenza di un nesso di casualità tra le condotte degli imputati e l’evento.
Ebbene, per il mondo Stefano Cucchi è morto, e per i giudici le percosse ci sono state, ma ulteriori basi convincenti a riguardo di chi le abbia provocate ancora non vi sono: “Non c’è certezza sulla causa del decesso – nuovamente perché i periti di accusa e tutta la “compagnia” – non hanno fornito una spiegazione esaustiva e convincente“. Infatti nelle motivazioni della sentenza “l’attività svolta da medici e infermieri non è stata di apparente cura del paziente, ma di concreta attenzione nei suoi riguardi“.
Quindi? La matassa del “pasticciaccio”, pardon, del caso, diviene sempre più intricata, e i giudici spiegano, un po’ più in là – dopo cinque anni dalla morte di Stefano – che sì, la procura ora dovrà approfondire la posizione di persone diverse dalle tre guardie carcerarie imputate, condannate e poi assolte in appello, ma la nuova indagine dovrà necessariamente riguardare anche i carabinieri che ebbero in custodia Cucchi dopo l’arresto al termine di una perquisizione nella sua abitazione. Perché? Secondo i giudici “già prima di arrivare in tribunale Cucchi aveva segni e disturbi che facevano pensare a un traumatico avvenuto nel corso della notte” e dalla registrazione delle sue ultime parole – reperibile su Youtube – solo la voce altalenante del ragazzo che ammette di essere celiaco, epilettico e pure anemico.
Stefano Cucchi non era un “drugo”, Alexander DeLarge, bensì un tossico dipendente, che fu fermato dai carabinieri per essere stato visto cedere ad un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di banconote, portato in caserma fu poi perquisito e gli furono trovati addosso circa 20 grammi di hashish e tre confezioni di cocaina. Aveva dei precedenti, ma non per droga; nei suoi ultimi anni di vita era stato seguito dal Sert del quartiere Tor Pignattara di Roma, Villa Maraini, CeIS Don Picchi, in possesso dell’esenzione di tossicodipendenza. Quando arrivò in caserma il 15 ottobre 2009 pesava circa 56 kg, alla sua morte (22 ottobre 2009) 37, insieme ad un volto tumefatto, lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome, una frattura della mascella, un’ emorragia alla vescica e al torace, e, per finire, due fratture alla colonna vertebrale.
Ma il “fatto” ora verrebbe spostato addietro, quando venne arrestato, addirittura la notte in carcere. “Già prima di arrivare in tribunale Cucchi presentava segni e disturbi che facevano pensare a un fatto traumatico avvenuto nel corso della notte“, spiegano i giudici nelle motivazioni della sentenza. Pertanto gli atti sono ora inviati di nuovo al pubblico ministero, “perché valuti la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti della polizia penitenziaria giudicati“. E allora chi? Appunto i carabinieri all’arresto.
In questi cinque anni l’opinione pubblica è dilagata mostrandosi solidale e sensibile alla vicenda, nientemeno nel novembre del 2014 il presidente del Senato Pietro Grasso incontrò i famigliari Cucchi, e i 109 senatori del Partito democratico ribadirono la loro solidarietà nei confronti della famiglia, così lo stesso Renzi. Ma ora sono occupati in questioni terroristiche. Non solo, è stato realizzato da Maurizio Cartolano il documentario 148 Stefano i morti dell’inerzia, sponsorizzato da Amnesty International e Articolo 21 , e presentato al festival del cinema di Roma, e molti artisti come Piotta, Fabrizio Moro, 99 Posse, e Alessandro Mannarino (e molti altri) hanno dedicato le loro canzoni alle morti ancora inspiegabili di questi giovani.
Riprendendo le parole “il detenuto è come un figlio da educare” dalla canzone Scendi giù di Mannarino, quasi dantesca e deandreiana per i motivi e i ritmi, potrebbe pungere all’ascoltatore di considerare quel “cane randagio”, l’”uccello migratore”, il “prete” nel confessionale, una giusta sentenza, giustizia; potrebbero far pensare a una loda su Stefano; ma per tanti come il sottosegretario Giovanardi “Stefano poveretto è morto, e la verità verrà poi fuori, soprattutto perché era 42 kg, la droga ha devastato la sua vita, era siero positivo – quest’ultima affermazione è stata smentita dalla famiglia – tossico dipendente”.
Stefano Cucchi era anche “uno dei circa 68000 detenuti ristretti nelle carceri italiane, un detenuto di un tipo particolare, uno degli oltre 30000 detenuti in carcere in attesa di giudizio, attenzione, non condannati, in attesa di essere giudicati e in buona parte assolti nella misura del quaranta per cento” (dal servizio di Lucarelli del 6/12/2010).
Così sembra voler ancora rivendicare lo sfogo della sorella, Ilaria Cucchi, dall’ultimo post pubblicato su Facebook lo stesso giorno della deposizione delle motivazioni di sentenza, il 12 gennaio 2015: “Ci cibiamo di grandi temi, di grandi eventi, di grandi inchieste nell’illusione che tutto funzioni bene e che la legge sia uguale per tutti. Ma fino a che ci saranno udienze di convalida d’arresto per disgraziati come poteva essere mio fratello, finché questa sarà la Giustizia per gli ultimi, finché queste saranno le nostre carceri e la nostra cultura, noi continueremo a vivere in una società sempre più simile ad una giungla dove vale sempre la legge del più forte“.
Parrebbe essere la risposta ad un vecchio Cesare Beccaria che nei suoi Dei delitti e delle pene affermava: “La carcere è dunque la semplice custodia d’un cittadino finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa. Il processo medesimo dev’essere finito nel più breve tempo possibile. Qual è più crudele contrasto che i comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall’altra le lagrime, lo squallore d’un prigioniero? In generale il peso della pena e la conseguenza di un delitto dev’essere la più efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perché non si può chiamare legittima società quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si sian voluti assoggettare ai minori mali possibili“.